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IL FLAUTO MAGICO di W. A. Mozart

Sabato 27 maggio ho fatto una cosa che non facevo proprio da tanto tempo. Son tornato all’opera lirica, dove ho mosso i primi passi nel teatro. Per chi mi legge può apparire un passo inaspettato per chi combatte da sempre come me per l’affermazione dei linguaggi non tradizionali contro la tradizione imperante. Spero di riuscire a spiegare in questo breve articolo cosa mi ha portato al Teatro Regio di Torino a vedere Il Flauto Magico e inaugurare così una nuova pagina di scrittura sull’opera lirica.

Proviamo quindi a spiegare cominciando così:

Se esaminiamo qualsiasi pagina di Mozart vi scopriremo non una, ma molte idee. Ritengo che con Mozart ci troviamo di fronte a un’implicita tendenza verso la molteplicità, e questa tendenza mi interessa molto di più di quella verso l’unità. Mi sembra molto più vicina alla natura […] e ciò che amo in Mozart è proprio questa sua irrequietezza continua, questo suo senso di affermazione della vita”. Queste parole sono di John Cage, il più estremo e rivoluzionario compositore del Novecento. Un riconoscimento verso il potere dell’immaginazione, della metamorfosi, dell’impermanenza presenti in concentrazione fuori scala nelle opere di Mozart. Qualità che sono quanto mai necessarie sulla scena odierna e non è un caso che abbia scelto queste parole di Cage per iniziare questo piccolo articolo.

Il Flauto Magico, opera composta nell’anno della morte di Amadeus, il 1791, l’anno del Requiem, così pregno di atmosfere inquiete, dove tutto richiama alla fragilità della vita, fiamma lieve e tremula pronta a spegnersi al primo soffiar di venti, è al contrario un inno potente alla vita, alla sua forza di affermazione nonostante tutto trami a soffocarla.

È fiaba certo, e contiene elementi fortemente massonici, ma la sua potenza, se fosse legata solo a questo, non attraverserebbe i secoli in così abbagliate splendore. È uno sguardo amorevole e condiscendente verso tutte le manifestazioni della vita bella e crudele. È affermazione della potenza della disciplina e della ragione in Tamino e Sarastro, ma è anche un venirne a capo di Papageno in maniera avventurosa, inconscia, senza pretesa alcuna di volerci capire qualcosa in questo tremendo rompicapo. E questo atteggiamento è forse preponderante perché i più sono semplici, i poveri di spirito che per qualche disegno oscuro sono molto più vicini al regno dei cieli di coloro che operano secondo ragione, raziocinio e saggezza. E Papageno è così preponderante che quasi scalza di scena Tamino e Pamina, Sarastro e la Regina della Notte. Nonostante egli sia pigro, senza ambizioni oltre a quella di trovare una Papagena, un buon piatto e un bel bicchiere di vino magari molto grande, pauroso e incostante, riesce comunque a uscir dalla landa desolata della disperazione e dell’abbandono come guidato da buoni spiriti che sempre veglian su di lui. Ed è a Papageno che in fondo va la nostra simpatia, è lui che rende vitale e interessante una vicenda in sé moralizzante e forse un po’ bigotta.

L’interpretazione di Markus Werba è poi così efficace e divertente che riesce a rendere tutta la potenza del personaggio e delle forze che l’incarnano.

L’intera rappresentazione è molto riuscita (la regia e l’allestimento lo ricordiamo sono una ripresa di analoga del 2001), pronta a sfondare costantemente i confini della scena, strabordante in platea, persino in buca d’orchestra dove nasce un bel siparietto tra direttore e Papageno. Una circolazione costante e vitale che tiene alta la tensione e l’attenzione. Certo siamo nel mondo della rappresentazione, quel mondo che da un secolo e mezzo ogni artista e innovatore che si è occupato di scena e per la scena ha cercato di scardinare, fuggire dalla sua terra, annullare il suo potere di attrazione gravitazionale. Per chi poi come me ha deciso di frequentare solo la scena contemporanea e i nuovi linguaggi che la animano è un po’ uno shock tornare a frequentarla. E devo riconoscere che dopo anni che non vedevo uno spettacolo operistico, ho percepito con una forza quasi violenta il potere di fascinazione della macchina rappresentativa. Scene mobili, costumi sgargianti, immagini potenti, illuminotecnica impeccabile e ricchissima, decine di persone in scena, tutto ha agito e portato a galla emozioni e commozioni. E nel placarsi del sentimento ho capito che il meccanismo del Flauto magico si era attuato in me. Anche nella vicenda il mondo della Regina della Notte, all’inizio, sembra salvezza e pace e quello di Sarastro, duro, repressivo, tirannico, arido. Ma poi gradualmente si ribalta la visione, il mondo solare di Sarastro rifulge nella sua potenza, la verità si afferma e le fascinazioni della Regina della Notte si dimostrano ragnatele appiccicose e leganti. É quindi tutto lì il percorso dalla rappresentazione al processo di sperimentazione del reale e la certezza che uno non sussiste senza l’altro. Entrambi sono necessari, hanno bisogno l’una dell’altro. Non si possono scindere. E quindi necessario, come diceva Carmelo Bene di Verdi, “abitare la battaglia” confrontarsi con il mondo fulgido e nello stesso tempo oscuro della rappresentazione, ritornare alla sua corte per rinnovare la battaglia e il confronto per provare a sfuggirvi nuovamente con metodi nuovi.

E molte cose può insegnare l’opera a chi frequenta le scene. Innanzitutto l’usa storico che le arti sceniche hanno fatto della multimedialità oggi così di moda. L’opera è multimediale per definizione e gli incastri di linguaggi, con i ripetuti scontri su dominanza e sudditanza (parola su musica, musica su tutti, regia e direzione, esigenze sceniche e canto) molto possono insegnare sui rapporti tra lingue artistiche diverse.

In seconda battuta l’utilizzo delle grandi pezzature che sono sempre più rare per i problemi produttivi che affliggono teatro, danza e performance di oggi. I giovani artisti sono sempre più disabituati a frequentare e aver la possibilità di sperimentare su grandi produzioni, e grandi spazi. Va di moda il solo, o al massimo il duo. Già quattro in scena son rari, otto quasi impossibile. E questo a detrimento dell’arte e dell’innovazione. Vedere cosa la tradizione faccia e come usi i grandi spazi e i grandi numeri può essere almeno di ispirazione, certo in una forma quasi disperante, ma comunque necessaria.

E così con questa convinzione torno a seguire l’opera e le sue fascinazioni, Regina della Notte e della rappresentazione, ma con così grande potenza che ignorarla proprio non si può. Se poi si ha la fortuna di incontrare anche una produzione così riuscita, scuotersi dall’incantesimo dello specchio di Armida richiede ancor più forza di volontà, ma in fondo è così che si è scelto: abitare la battaglia.