Archivi tag: shakespeare

Alessandro Serra

INTERVISTA AD ALESSANDRO SERRA

Dopo aver visto Macbettu al Festival delle Colline Torinesi ho incontrato Alessandro Serra in una lunga conversazione da cui è tratta questa intervista. Abbiamo parlato di molti aspetti di quest’opera che, al di là dei premi, convince e incontra il pubblico senza facili ammiccamenti e soprattutto salvaguardando un ricerca di linguaggio.

Enrico Pastore: Come è nata l’idea di portare la Scozia in Sardegna?

Alessandro Serra: Macbeth è un’opera che ho sempre amato per la sua forza filosofica. Trovo che Macbeth ci dica molto dell’epoca che stiamo vivendo, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con il soprannaturale e la nostra incapacità di una via spirituale.

Penso a una frase di Simone Weil, che cito a memoria: “quando un essere non è in grado di ricevere il soprannaturale lo trasforma in male”. Le streghe che predicono a Macbeth un futuro di gloria, sono foriere di prosperità, ma Macbeth non sa gestire questo evento sovrumano, non è spiritualmente pronto, non sa aspettare e di conseguenza uccide. Non c’è alcun motivo per cui debba compiere questo atto orrendo e inutile e Macbeth ne è perfettamente consapevole. Il secondo aspetto è l’incapacità di vivere il presente, di essere presenti e vigili. Noi viviamo sempre costantemente proiettati nel futuro spinti dal desiderio. Consumiamo il presente in cerca di un futuro che non vivremo mai davvero. L’ultimo aspetto, e vengo alla Sardegna, è il rapporto di questo testo con gli archetipi e le forze primordiali della natura che ho in qualche modo intravisto, più di dieci anni fa, in un viaggio fotografico che feci in Barbagia, partendo da Lula, il paese di mio padre, per vedere i carnevali. Il più impressionante di tutti fu quello di Mamoiada, dove sfilano i Mamuthones. In quell’occasione, come ho scritto più volte, ho avuto la visione della foresta che avanza con i campanacci che sentivo da lontano, l’incedere di un ritmo antico che incuteva terrore. Sono mille gli stimoli che ho carpito in quel viaggio, i suoni, i materiali, le sensazioni, il sangue. Nel paese di mio padre per esempio hanno ricostruito una maschera, Su Battileddu, è la personificazione dello scemo del villaggio che gira per il paese con questo stomaco di bue pieno di sangue. Quando viene abbattuto di fronte al pubblico, che fa cerchio intorno a lui, lo stomaco viene letteralmente strappato. Quindi gli schizzi di sangue, il sughero che scurisce i volti, una scena molto violenta, che a può sembrare lontana dallo spirito del carnevale ma che invece gli appartiene profondamente. I demoni attraversano quindi il paese ma vengono anche tenuti a bada. A Mamoiada ci sono anche le maschere degli Issohadores, figure molto eleganti, vestite di rosso, che danno il ritmo e tengono a bada i Mamuthones e che prendono al lazzo le fanciulle. Nel Macbettu poi ci sono le streghe, maschere comiche e grottesche. Hanno le barbe. Anche per le streghe abbiamo attinto ai carnevali sardi, in particolare al carnevale di Bosa. Sono le Attittadoras, uomini vestiti da vecchie che implorano unu tikkirigheddu de latte tra urla e sorrisi sardonici accompagnati da sconce allusioni sessuali. Ma potrei parlarti anche de Sa Filonzana, una vecchia orrenda che fila e minaccia con le forbici di tagliare il filo del tuo destino. I riferimenti quindi sono tantissimi e hanno costituito il materiale con cui abbiamo costruito il Macbettu.

Enrico Pastore: Se vogliamo poi notare una curiosa coincidenza il giardiniere de I Simpson in originale è scozzese e nel doppiaggio italiano parla in sardo.

Alessandro Serra: Sono stato tentato una volta in un’intervista di dirlo, poi mi sono frenato per timore di essere frainteso. Ma in questa arte antica non si può prescindere dal pubblico, dalle conoscenze collettive che spesso sono cliché o mode ma che a volte sfiorano il mito e fondano la realtà. I Simpson hanno più volte dimostrato di possedere una grande forza comunicativa a tratti divinatoria. Ci sono puntate memorabili, non ultima quella di 15 anni fa in cui Lisa succede a Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Il teatro è anche un’arte popolare e la risata può essere spesso una privilegiata chiave d’accesso al rito. A proposito di Pinocchio Elémire Zolla sosteneva che “In vernacolo, ridendo, conviene esporre le verità più segrete”.

Enrico Pastore: Mi ha molto colpito la tensione tua e degli attori nell’evitare ogni affettazione nella recitazione. La ricerca di una spontaneità che sottragga la parola all’artificio, affinché sia viva, più assimilabile al canto che allo scritto. Come avete proceduto per rivitalizzare la lingua scritta, il morto orale come lo chiamava Carmelo Bene?

Alessandro Serra: Questa per me è una domanda cruciale. Soprattutto in questi giorni in cui sono reduce dalla prima settimana di prove su Il giardino dei ciliegi. In Cechov il problema è ancora più presente, direi quasi più grave perché la lingua sembra parlata ma il risultato è spesso enfatico e, per quanto mi riguarda, sgradevole e noioso.

Shakespeare ha un problema analogo che contrariamente a Cechov però può essere risolto con il canto. Con Cechov bisognerebbe semplicemente dire, nel senso più profondo del termine. L’attore deve manifestare nella parola il senso di ciò che dice, così come si fa nella vita. Fare questo in teatro richiede una grande tecnica e un grande sforzo fisico. Questo perché per dire una frase e dirla davvero, portando con sé il senso, l’emotività e la logica delle conseguenze, e nello stesso tempo farla arrivare a quaranta metri di distanza è un’impresa quasi impossibile. E lì si cade.

In Shakespeare la musica ti può aiutare, perché non essendo un teatro naturalistico, in qualche modo si può attingere al canto.

Esistono tre livelli di comunicazione: il primo è quello del significato. Il secondo è quello musicale, attraverso il suono io posso raccontare e incantare. Questo è credo ciò che siamo riusciti a fare usando il sardo. In Macbettu credo che ci sia anche il terzo livello, quello magico, in cui la parola diviene mantra, non significa più, semplicemente è, agisce come una forza e non come un significato. Questo sarebbe stato impossibile usando l’italiano, soprattutto quello delle traduzioni letterarie.

I testi di Shakespeare devono essere trattati come dei copioni. Non bisogna aver paura di smembrarli, dilaniarli, perché sono talmente grandi che restano sempre integri. Anche perché c’è una drammaturgia perfetta e sublime che è talmente oltre il luogo comune che non ce la fai a distruggerli. Tutto ciò a patto che la scrittura di scena sia alleata del testo, ne al servizio né contro. Il testo è materia.

Per quello che ci riguarda abbiamo distrutto Macbeth ma con un grande amore, fedeltà e rispetto. Grazie a questo amore e rispetto per l’opera ho cercato non di raccontare o recitare ma di evocare una immagine che sta oltre e dietro il testo.

Questo si può fare in Shakespeare grazie alla lingua. Grazie al fatto che lui, essendo un attore, è sempre riuscito all’interno delle sue opere, a fornirti le chiavi d’accesso. E gli strumenti della scrittura di scena sono proprio nelle parole, in quelle particolari formule magiche che Peter Brook chiama Parole radianti.

Tornando al sardo, quando ho riascoltato quella lingua con la quale avevo un conto in sospeso, una lingua che da bambino mi faceva molta paura perché mi ricordava una certa brutalità barbaricina. Quando l’ho riascoltata dopo tanto tempo ho pensato che fosse la lingua giusta per Macbeth. In sardo non esiste la parola Ti amo, una lingua in cui, come dice Angelo Pira, la parola è la cosa. In questo è unica.

In Macbeth non potevo usare l’italiano, che è una lingua letteraria, costruita a tavolino. Con questo non voglio dire che non si possa recitare in italiano. L’ho fatto e continuerò a farlo, ma ci vuole un lavoro enorme che non possono fare i letterati. Devono farlo gli attori perché bisogna sempre porsi il problema di trasformare le parole scritte in parole parlanti e parlabili, perché altrimenti ci si limita a ri-ferire un testo, il che il più delle volte, diventa di una noia mortale.

Enrico Pastore: La recitazione di Macbettu è molto fisica, il corpo dell’attore è potente, presente e altamente significante. Mi piacerebbe sapere come è stato il lavoro in prova con l’attore, come avete costruito la partitura gestuale?

Alessandro Serra: In Macbettu c’è stato un lungo periodo di preparazione perché nessuno degli attori aveva mai lavorato con me, anche se fortunatamente avevano avuto precedenti esperienze di teatro fisico e lavoro con il corpo.

Il primo step è stato quello di suggerirgli un modo di ripensarsi in scena attraverso il corpo e questo non poteva che avvenire attraverso il training. Non riesco ad immaginare una messa in scena che non parta dal corpo dell’attore. Occorre arrivare al testo con il corpo presente e vigile, attivo, pronto ad accogliere e a trasformare la poesia scritta in immagini, danza e canto. Rispetto a questo aspetto i miei punti cardinali sono Grotowski, Mejerchol’d, Decroux. Grandi maestri di cui oggi, ahimè, non si sente più parlare. Rilke parlava di un’umanità come alberi che hanno dimenticato di avere radici e credono che il frusciare dei rami sia la loro vita.

Mi pare impossibile praticare un’arte millenaria prescindendo da ciò che è stato. Ciò che resta sono i testi, la letteratura. Ma l’essenziale non si può trascrivere, si può solo trasmettere. Oppure cercare di ripensarlo, scoprirlo di nuovo. Il teatro è un’incessante ricerca di qualcosa di dimenticato.

Il training è per me l’unica via possibile per accedere all’impossibile. Con Macbettu si iniziava la mattina con il training, il mio, ma anche e soprattutto quello guidato da Chiara Michelini, finché abbiamo trovato una pratica nuova, semplice ma funzionale a questa specifica messa in scena. Ogni nuova creazione impone un nuovo training. Nel corso delle prime settimane abbiamo affrontato anche alcuni principi delle arti marziali cinesi. La fortuna con la produzione di Sardegna Teatro è stato avere dei periodi di prova lunghi e distribuiti nel tempo. Non si provava mai per più di una settimana di seguito, ma per 10 ore al giorno, producendo una quantità di materiali, azioni, immagini, suoni, sensi talmente densi che al settimo giorno si era completamente spossati. A questo punto occorre allontanarsi e lasciare decantare ciò che si è manifestato davanti ai miei occhi ma soprattutto nei corpi degli attori.

Le prime settimane sono state senza testo che, benché fosse già stato riscritto da me e studiato dagli attori, è stato messo da parte. Si lavorava soltanto sull’immagine. Il compito era: raccontare senza recitare. Questo ci ha consentito di togliere verbosità. Se una scena la vivi, non c’è molto altro da dire. La parola diventa quasi superflua.

Decroux diceva: “io non sono contro le parole, ma devono essere necessarie” oppure devono essere un suono. Se non sono necessarie e non sono suono, sono inutili. Ed essendo inutili diventano anche dannose.

Enrico Pastore: In questo periodo nel teatro italiano sta ritornando prepotente la tendenza a fare del testo il centro della rappresentazione verso cui si piegano tutti gli elementi della scena. Nel caso di Macbettu invece sembra avvenire proprio il contrario dove il teatro flette il testo alle sue esigenze e così facendo lo esalta e gli ridà nuova vita. È nata da questa esigenza la volontà di far tradurre il testo a un attore? Per trovare una forma del dire che fosse agli attori congeniale e più veritiera possibile? In parte hai già risposto affermativamente ma magari vuoi precisare

Alessandro Serra: Ho studiato sempre e solo con gli attori, non solo con quelli che sono stati i miei maestri, ma soprattutto con coloro che hanno avuto la forza di seguirmi nelle mie scritture di scena. Spesso mi capita di passare moltissimo tempo per ricomporre una frase perché suoni e significhi col minor sforzo possibile ma quando poi l’attore finalmente la dice, mi accorgo che ci sono ancora blocchi… e insomma… bisogna scrivere, tradurre e comporre da attori, inscrivendo nei corpi ogni fase della creazione. Il fatto che oggi non si scriva più con la penna è una grave mutilazione al gesto creativo della scrittura. Simone Weil diceva ai suoi allievi che il greco si impara con il corpo… ripetere il gesto grafico della lettera alfa è una danza. Nell’atto stesso dello scrivere in fondo, si danza.

Quando lavoro sui testi, il lavoro di riscrittura lo faccio a casa, parola per parola… ma ad alta voce, spesso i piedi, sussurrando e gridando… Vedo dunque il teatro con occhi d’attore, e questo benché io non sia tale anche se ho studiato per esserlo.

Scrivo ad alta voce e cerco di dire le parole. Ma non solo. Quando lavoriamo sul testo se una frase o una parola non funziona, non risuona, si cambia. La parola deve essere organica al corpo dell’attore.

Enrico Pastore: Esatto. O la parola diventa qualcosa di vivo e organico alla scena oppure se resta un elemento puramente letterario si riduce a un elemento esterno noioso e sterile. Per usare le parole del mio maestro Antonio Attisani, diventa il teatro per chi non legge.

Alessandro Serra: oppure, peggio ancora, diventa un teatro per chi vuole sentirsi dire delle cose e si compiace nel sentirle. Non si racconta ma si informa su qualcosa che già si conosce tra l’altro. Anche Milo Rau informa, ma nello stesso tempo racconta. Ho visto per esempio Five easy pieces e in questo lui è straordinario.

Enrico Pastore: Milo Rau è molto ancorato all’idea di un teatro, come quello greco antico, luogo dove la comunità affronta e dibatte le crisi che la attraversano. E in questo senso sonda la scena nei suoi limite, prova a capire cosa si possa fare o meno con la scena per poter essere efficace e significativo nel trattare il reale. Ti mette sempre nella condizione scomoda di essere giudice e imputato. Pensa proprio a Five easy pieces dove nel terzo capitolo in cui ti senti di essere Dutroux.

Alessandro Serra: Quello che dici di Milo Rau è giustissimo. Io non ho quella profondità politica, antropologica. Non riuscirei a toccare un fatto del tempo presente senza cadere. Nel mio piccolo sondo gli archetipi e questo anche nel teatro di prosa. Con archetipi intendo anche quei meccanismi della natura umana che sono sempre presenti nelle fiabe e in tutte le opere di Shakespeare. Pensa a Otello: si parla di femminicidio e di gelosia. Ma il vero geloso è Jago, non Otello. Otello non uccide per gelosia ma perché ama a tal punto Desdemona da non poter concepire che lei possa vivere nel peccato. È un pensiero contraddittorio, doloroso, fastidioso, eppure è così. Inoltre si tratta di un islamico convertito al cristianesimo. Se si parlasse di gelosia sarebbe una telenovela e non un capolavoro dell’umanità. In Shakespeare i meccanismi dell’essere umano sono puri e distillati in forma di simbolo, e in quanto tali non si può che contemplarli, non si possono volgere in prosa. In Shakespeare non è ammessa parafrasi. Sono contraddittori, e inafferrabili. Il lavoro di Milo Rau è stupendo perché guarda al tempo presente. In quella scena che hai appena ricordato sei lì che guardi e i tuoi occhi si contaminano, prendi coscienza di quanto sono contaminati, perché in fondo se fai finta di niente sei complice di quanto avviene nel mondo. Nei grandi testi della tradizione o nelle fiabe sono presenti gli stessi meccanismi che sono poi quelli che mi interessano.

Enrico Pastore: Pensi che ci possa essere un’evoluzione alla ricerca che avete compiuto con Macbettu, oppure è un esito in qualche modo irripetibile? Mi spiego meglio che non vorrei la domanda sia interpretata come provocatoria o maliziosa. In Macbettu siete riusciti a risvegliare le forze antiche del teatro, quelle che animavano l’antica tragedia, e ci siete riusciti abbinandola a un elemento etnografico di grande potenza come la tradizione popolare sarda ancora molto legata a qualcosa di ancestrale. Pensi che questa ricerca che avete avviato possa in qualche modo continuare senza produrre un clone o un doppione?

Alessandro Serra: Ti rispondo molto semplicemente. Per me quel luogo è come tornare alle mie origini. È casa. Ma dopo Macbettu ho necessità di allontanarmi per un po’. È per me molto faticoso emotivamente, quindi per il momento ho bisogno di andare da un’altra parte. Ci tornerò. Mi piacerebbe completare una trilogia di Shakespeare sul potere e anche affrontare la tragedia greca alla quale mi sto avvicinando da anni a partire dallo studio del coro e della maschera. E non è un caso forse che dopo il coro greco abbia sentito il bisogno di tornare a Cechov, che resta l’autore che più amo, proprio perché credo che Il giardino dei ciliegi sia la più grande partitura sinfonica per anime mai scritta. Un’opera priva di centro in cui i gesti e le parole dei personaggi che agiscono e parlano si nutrono degli altri. Un coro e una moltitudine, come nella vita.

Falstaff

TEATRO REGIO: FALSTAFF di Giuseppe Verdi

Falstaff è la prima parola del libretto. Il protagonista è da subito presente e immediatamente evocato come una divinità. Assiso sul suo scranno da osteria come re Lear sul trono, Falstaff e il suo pancione signoreggiano sulla scena.

Come accade spesso nelle opere di Verdi si è precipitati nell’azione e vi si rimane avvinti fino all’ultima nota. Nell’ultimo suo capolavoro operistico Verdi, insieme a Boito, concepisce un vero gioiello di teatro musicale: azione serratissima colma di colpi di scena, agnizioni, scene madri, inganni, trappole e tradimenti; ma anche sapiente miscuglio di toni drammatici se non tragici che danno profondità e consistenza all’intreccio.

Falstaff è il motore, lo spirito della vita che irrompe con tutte le sue arguzie e appetiti, un moderno Dioniso che scuote e rapisce. Circondato da due satiri traditori come Pistola e Bardolfo, il cavaliere panciuto giudica e mette in moto gli eventi: due lettere identiche se non per il nome della destinataria, per un identico amore per la vita e le sue gioie.

Da questo moto arbitrario come la richiesta assurda di Re Lear si scatena l’azione a cui tutti i personaggi devono prendere parte, dimostrando il meglio e il peggio di se stessi, mascherandosi e rivelandosi continuamente. Alla fine quando Falstaff gabbato e giocato, viene giudicato e costretto a pentirsi, si comprende il suo ruolo dalle sue stesse parole: Ogni sorta di gente dozzinale/mi beffa e se ne gloria;/pur, senza me costor con tanta boria/non avrebbero un bricciolo di sale./ Son io, son io, son io, che vi fa scaltri,/ L’arguzia mia crea l’arguzia degli altri.

Non dunque un vecchio crapulone e burlone, ma il nume tutelare che presiede alla vita che ribolle e che combatte le forze che vogliono a tutti i costi irregimentarla, costringerla, educarla. I veri gabbati sono infatti Mr. Ford e il Dottor Cajus, il geloso che non comprende la grandezza della donna che ha sposato e il vecchio barboso e rigidone che vorrebbe sposarsi la bella figlia di Ford innamorata di Fenton. Ed è quindi di Falstaff l’ultima risata, quando vede Ford che sposa suo malgrado Fenton e Nannetta travestiti, e il Dottor Cajus che si trova a essere sposato con Bardolfo.

Nel Falstaff di Verdi/Boito cosi come nel modello shakespiriano de Le allegre comari di Windsor, la parte del leone la fanno senza dubbio le donne capeggiate da Alice. Sono non solo più sveglie e intraprendenti, ma mettono in campo la natura migliore e più forte. Se gli uomini sono traditori, deboli, gelosi, vendicativi le donne si ingegnano per punirli e gabbarli, rivendicando il loro diritto alla felicità e libertà.

In Falstaff sono toccanti anche i toni oscuri, presenti in tutto l’intreccio. La violenza nei rapporti umani, l’incombere di decisioni che possono bloccare gli afflati più vividi della propria natura, la vecchiaia e il declino, i rintocchi di campana della morte. Soffia un’aria di precarietà e di sogno. Tutto può sfumare da un momento all’altro per lasciare la scena vuota priva di movimento e di vita. Falstaff e il suo pancione sono lì per rinnovare il fuoco, per attizzarlo affinché non perda il moto.

Teatro musicale si diceva in esordio, di cui Verdi è un maestro indiscusso. L’azione, l’intreccio e il ritmo sono tutto nell’impresa di far rivivere le sue opere sulla scena. Aldilà di ogni scelta interpretativa, oltre i gusti personali e i pensieri di ogni regista quella che deve esser valorizzata è l’incredibile capacità verdiana di abitare la battaglia, per dirla alla Carmelo Bene. Non se ne può uscire, bisogna risponder colpo su colpo, tenere il ritmo fino alla fine a costo di perdere il fiato.

Le scelte registiche di fermare l’opera per esigenze scenografiche falliscono in questo. Laddove Verdi si precipita incalzando lo spettatore, si blocca l’incedere fallendo il passo, sospendendo il pathos. Apprezzabile l’idea di Daniele Abbado, in questo allestimento in scena al Teatro Regio di Torino fino al 26 novembre, di recuperare gli strumenti spettacolari del teatro: le botole, le sorprese, i macchinari ma avrebbe dovuto metterle al servizio dell’azione più che della visione.

Purtroppo accade spesso che l’azione scenica sia sacrificata sull’altare della musica e delle esigenze liriche, e si dimentica che il teatro d’opera è prima di tutto teatro. Le due cose vanno di pari passo.

Come insegnava Mejerchol’d nelle sue lezioni del 1918, se per montare le scene l’opera ne risente abbiamo sbagliato qualcosa. E allora anziché ricreare ambienti basterebbe qualcosa di più semplice ma al servizio del ritmo. E fatalità il grande regista russo proprio a Shakespeare si riferiva criticando l’azione dei Meininger che per ricostruire minuziosamente una scena tagliuzzavano i testi e rallentavano l’azione per dar tempo ai macchinisti di montare la scena. Mejerchol’d ricordava che il Bardo concepì i suoi capolavori conoscendo perfettamente le modalità espressive del teatro nelle O di legno, e che alla semplicità apparente di quel teatro si deve tanta meraviglia.

Con Verdi potremmo dir la stessa cosa. Il ritmo, l’azione, i tempi ce li detta già la musica, a noi non resta che abitare la battaglia e dargli spazio e luce.

Con questo non voglio certo dire di aver assistito a un allestimento fallace, quanto esprimere una riflessione e un invito. L’idea era buona ma si poteva fare di più, lasciar esprimere il teatro nella sua potenza, mettersi al suo servizio più che imporre un ambiente macchinoso che ne blocchi il suo naturale sviluppo. E non parlo di aderenza al testo, e nemmeno di scelte di rappresentazione e interpretazione, quanto di composizione del movimento sulla scena. Avrei detto la stessa cosa se questo Falstaff fosse stato ambientato in un’odierna Windsor oppure su Marte con tutte spaziali se questo avesse inficiato il magistrale ritmo battagliero di Verdi e del suo teatro.

she she pop

SHE SHE POP: IL FASCINO OSCURO DEL MITO E I LUMI DELLA RAGION CRITICA

Testament e Frühlingopfer. King Lear e le Sacre du Printemps. I padri e le madri all’ombra di due miti potenti e oscuri. Materia difficile da maneggiare il rapporto con il padre e con la madre. Roba che rischia di finire in clinica. Il collettivo tedesco She She Pop invece tratta la materia incandescente con l’abilità e la perizia di un maestro vetraio di Murano.
In Testament è il Re Lear che viene preso in esame. In scena le attrici con i loro padri a esaminare con minuzia critica ciò che avviene nel testo di Shakespeare, come in una prova alla Stanislavskij, verificandolo alla prova dei fatti d’oggi: cosa vuol dire lasciare in eredità? E da vivi poi? E quel giochino oscuro che apre l’abisso della tragedia all’inizio? E così si procede atto per atto con padri e figli che si mettono nei panni di Lear e Cordelia, Regan e Gonerilla verificando passo per passo. I cento cavalieri di cui viene spogliato Lear diventano così libri da spostare in caso che il vecchio padre, ex professore universitario, passi il fatidico mese ospite in casa dei figli. Risultato: nessuno spazio vitale, rapporti tesi, affetti lesi. Ma i cento cavalieri sono irrinunciabili perché sono la dignità che rimane al padre, ciò che è stato e ha fatto, ciò che lo ha reso quello che è e perderli significa perdersi per sempre. E così si arriva alla tempesta, all’atto di spoliazione, all’abbandono nella solitudine. Per un attimo il ritorno di Cordelia fa intravedere una riconciliazione (un ascoltare seduti abbracciati con il vecchio padre una canzone, quella preferita e amata, quella che fa loro ricordar i vecchi tempi), ma in verità è solo un’illusione, in fondo alla strada per padri e figli c’è l’abisso della morte che vanifica ogni sforzo.
Con precisione crudele, con spietatezza lucida e inflessibile, come chirurghi si intaglia sul tavolo operatorio il mito, lo si esamina e lo si mette alla prova, scientificamente, con l’esperienza: si vive il mito, si esamina, si prova sulla propria pelle, ma senza patemi emotivi, guardando in faccia alla verità che ne esce qualsiasi essa sia. Non c’è clinica. Di nessun tipo. Anzi c’è l’ironia a illuminare la scena. Certo uno humor noir, quello che ha il potere di farci guardare in faccia la realtà del mito, il suo ciclico riaffacciarsi in ognuno di noi, senza scampo, senza possibilità che questo abisso si colmi o si riconcili. Si può sperare solo in preziosi e momentanei riavvicinamenti.
Tutto questo in una partitura precisa e puntigliosissima di gesti, segni, tempi. Non un movimento è lasciato al caso. Tutta la scena è significante. Interessante e intelligente l’uso di telecamerine che aprono spazi ulteriori alla scena, benché tutto quello che riprendono sia in fondo in scena e ben visibile. Ma è la lente di ingrandimento con cui si guarda il reale e il mitico. Le facce dei padri, quelle dei figli, il testo del Lear, la tomba che aspetta padri e figli alla fine del cammino.
Il testo poi del Lear, non è recitato. Nessuna retorica. Nessun intento interpretativo. Nessuna nenia emotiva, nessuna finzione di voler esser qualcun altro, quel fenomeno da Croce Verde di cui parlava Carmelo Bene e che troppe volte abbiamo visto sulle scene in queste Colline. Il testo viene letto. I rapporti che si enunciano sulla scena sono semplicemente detti, con distanza critica che rianima il miglior Brecht. Un metodo di sondare il reale con feroce lucidità che si riscontra in altri fenomeni visti nel corso dell’anno con Milo Rau o Ivo Dimchev. Qualcosa che a casa nostra latita pericolosamente. Noi ci cincischiamo a recitar sermoni dai palchi o con i drammetti borghesi. Ma c’è un motivo per cui questo avviene e ne parleremo alla fine di questo articolo. Ora passiamo ad analizzare l’altra faccia della medaglia di ciò che She She Pop ha presentato nella rassegna torinese: Frühlingopfer ossia Le sacre du Printemps di Igor Stravinskij.
Nel balletto tanto celebre si evoca un rito pagano: il sacrificio di una giovane adolescente, di fronte a un cerchio di vecchi saggi, affinché il dio conceda il ritorno della primavera. Il sacrificio. Un’altra immagina potente e ricorrente. Un qualcosa che ci perseguita dall’alba.
Questa volta più che il mito a essere sezionato è il rito. Madri e figli alla luce del sacrificio vicendevole che la civiltà richiede. Gli attori e le proprie madri diventano tutte le madri e tutti i figli. Anche in questo caso si esclude la clinica. Ciò che avviene sulla scena è universale come il rito che la divinità richiede per il ritorno della primavera, affinché il ciclo ricominci e si ripeta inflessibile. Il passato che chiede al presente di perdere una parte di se stesso per onorare ciò che è stato per permettere a ciò che sarà di palesarsi. Il racconto delle vite di madri e figlie, la figura della donna ieri e oggi, e la danza sacrificale ripetuta mentre risuona potente la musica di Stravinskij. Parole e musica, rito e analisi. Tutto concorre all’emergere del fondo oscuro che si ripropone in ogni vita dall’alba della civiltà a oggi. E ancora l’immagine in video ad aprire spazi e significati. In video le madri, sulla scena le/i figlie/i. Separati e distanti nello spazio, ma in qualche modo, con semplicità magistrale, le figure si sovrappongono, si compenetrano, dialogano e si scontrano. E ancora l’ironia a impedire la ricaduta nella psichiatria, nel dramma, nel senso di colpa.
Esecuzione perfetta, rigorosa, inflessibile. Un livello magistrale di ricerca. E tutto attraverso il linguaggio proprio del teatro. Nessun elemento ha rilevanza rispetto agli altri. Non la parola, non la musica, non l’immagine. Tutto è usato affinché sia la scena ad agire. Spazio, corpi in movimento, suoni, immagine nel tempo e fuori dal tempo.
Questo livello altissimo di costruzione e composizione raggiunto da questo collettivo tedesco mi da il là per aprire un discorso più ampio rispetto al teatro italiano.
I risultati raggiunti dalle She She Pop prevedono un modello produttivo sano che consideri la ricerca come fondamentale per il raggiungimento di alti risultati. La salvaguardia del tempo di ricerca, della professionalità di attori e autori. Il tempo segreto dedicato alla formazione e maturazione del lavoro. In questo modello produttivo si riconosce il ruolo, la funzione e la professionalità dell’artista di teatro. C’è inoltre attenzione alla programmazione, allo sviluppo di un futuro e di una pratica culturale che sia d’utilità a una società. In questo modello si preserva la cultura dallo scadere in enterteiment. È un modello di azione culturale proiettato verso un futuro e adatto a un presente, dove la realtà non sia esclusa ma avvinta, criticata, affrontata a viso aperto anche laddove dispiaccia.
In Italia invece il modello che appare evidente è quello in cui la ricerca sia sacrificata sull’altare del risultato certo, il tutto condito dalla scusa per ogni nullafacenza: non ci sono soldi. E così modelli vecchi e obsoleti si ripropongono, inadatti ad affrontare il mondo come si presenta. La ricerca non è considerata quasi mai. Per il modello italiano è tempo perso, come già denunciava Carmelo Bene nei lontani anni ’90. Il modello produttivo che propone il nostro paese preserva il consueto, il solito, ciò che accontenta il potere, l’abbonato e la pigrizia degli operatori culturali e dei direttori artistici.
In tutto questo si vede il ritorno di modelli ricorrenti e corrotti, che non ricercano nuove strade per il linguaggio teatrale, perchè questa ricerca proprio non è prevista. E la critica si accoda e acclama lavori che di interessante non hanno proprio nulla, Concede premi ad attori che seppur bravi navigano in acque conosciute o conosciutissime, e ricordiamo che le cose migliori vedute in Italia negli ultimi anni sono state agite sulla scena da barboni, malati di mente, carcerati, dilettanti. E questo sia detto non per sminuire la tecnica e la professionalità dell’attore, ma perché la scena richiede altro che attori con tecniche obsolete. Richiede interpreti che scelgano strade nuove al di là dei modelli proposti da scuole e accademie.
Il futuro delle arti richiede coraggio, capacità di osare e non acquiescenza di fronte a modelli inveterati e polverosi. E non è solo questione di soldi. È il pensiero che deve cambiare.
I due lavori delle She She Pop ci hanno mostrato con evidenza ineludibile che la ricerca, quando ben condotta e sostenuta, quando si ha il coraggio di affrontare le sfide che il presente storico ci pone, porta a risultati straordinari al di là dell’estetica, al di là della comunicazione, al di là della clinica lacrimevole e di facile successo.
Bisogna avere coraggio, credere nel lavoro necessario compiuto dalle arti, bisogna riformare i modelli produttivi. E questo è compito di politica culturale che non sembra nemmeno essere preso in considerazione. Affrontare percorsi rigorosi di ricerca sul linguaggio e le funzioni del teatro è cosa che compete agli artisti. Qui, sì, manca il denaro ma a volte anche la volontà. Ci vuole che istituzioni e enti preposti considerino che uno o due anni chiusi a lavorare non sia tempo perso, ma percorso fondamentale e irrinunciabile se si vuole ottenere risultati. Cosa che non ho detto io ma Carmelo Bene in quella Biennale dedicata alla ricerca che tanto fu insultata.
Come in altri campi, in questo paese si è rinunciato a pensare, programmare, immaginare un futuro. Si vivacchia. Si tira a campare. Si pensa all’aurea mediocritas del premietto d’oggi, al meno peggio. Non ci può essere futuro se si pensa solo all’odierno problematico, all’emergenza e non all’emergere. Questo ci insegna il lavoro delle She She Pop: un modello virtuoso di ricerca sostenuto da un sistema paese che considera la cultura e i suoi risultati come necessari e non decorativi. Non sto dicendo, badate, che è tutto oro quello che luccica. Se mancasse il talento il sistema produttivo, benché virtuoso sarebbe sterile. Diciamo però ma che questo modello virtuoso sia necessario affinché sorga il nuovo, affinché il talento possa trovare la propria strada e si raffini. Se in Italia non affrontiamo questo percorso, se artisti, politici, direttori artistici non si orientano a creare le condizioni, continueremo ad applaudire il meno peggio e ripeto, come diceva Carmelo Bene, “il meglio del peggio è il pessimo!”.