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Leo Bassi

OPINIONI DI UN CLOWN: una serata con Leo Bassi

Tutto comincia con una benedizione. Leo Bassi appare dal fondo della sala, giacca e cravatta impeccabili e naso rosso clownesco d’ordinanza. Con serena strafottenza attraversa la platea con in mano uno scovolino da cesso con il quale benedice il pubblico. Così appare al pubblico torinese riunito al Café Müller uno dei clown più irriverenti del mondo, seminatore patologico di dubbi e fondatore di una religione devota al dio papero, protettore del riso, la cui chiesa ha una cappella nel quartiere multietnico di Lavapies a Madrid.

Leo Bassi, ultimo rampollo di una lunga e nobile schiatta di circensi (il bisnonno e il prozio furono persino ripresi in un film dai Fratelli Lumiere nel 1896!), da più di cinquant’anni gira il mondo portando i suoi spettacoli di una comicità graffiante e colmi di attivismo politico, in ogni spazio teatrale possibile dagli chapiteaux tradizionali, alle piazze, persino su navi e autobus.

La serata a lui dedicata inizia in maniera rassicurante. Leo Bassi ci racconta una storia della sua infanzia quando i genitori, siamo negli anni Cinquanta, volendo acquistare uno status borghese e rispettabile negato alla gente di circo, lo portavano a passeggiare la domenica ai Jardin du Luxenbourg a Parigi. Unico passatempo possibile per un bambino borghese e ben educato, non era giocare con la palla o correre nei prati, ma nutrire compostamente i piccioni, cosa che Leo detestava. Così ha ideato il suo primo atto di ribellione e sparso il mais al suolo e attirato lo stuolo di volatili, getta tra loro un grosso petardo che disperde lo stormo e crea scompiglio tra gli adulti. Il racconto è una sorta di dichiarazione di indipendenza, un manifesto in minore che afferma il ruolo della performance circense: non rispettare le convenzioni del pubblico ma condurlo, con la forza se necessario, nel territorio anarchico del teatro.

A partire da questo racconto-trappola, Leo Bassi inizia a condurre gli spettatori nel suo mondo irriverente dove non c’è potere economico, politico e religioso che venga rispettato e venerato, ma soprattutto dove esiste il concreto pericolo di perdere il controllo della situazione. La platea è costantemente immersa in un clima di incertezza, addirittura di pericolo, in cui tutto può succedere.

Cosa può fare un clown in un mondo in cui il capitalismo è vincitore indiscusso, onnipotente padrone che imperversa sui nostri destini, scelte e opinioni? Cosa può fare un piccolo Don Chisciotte delle scene? Seminare dubbi è la risposta, far avvertire il senso di oppressione. Ed ecco un altro racconto: in un grande supermercato il clown si trova a scuotere lattine di Coca Cola in modo che la gente comprandole, a casa, si trovi con lattine esplosive che inondino le proprie cucine e ne riportino un ricordo spiacevole che le conduca a non acquistare le bibite della multinazionale. Leo Bassi, mentre racconta, ha in mano una lattina. La scuote. Costantemente. Tutti sanno che prima o poi, lui aprirà quella lattina. Sarà verso il pubblico? È quasi certo. Le prime file cominciano ad agitarsi terrorizzate di venir bersagliate con il liquido zuccheroso e appiccicoso.

Come nella famosa performance di George Maciunas con il violino, la minaccia, reiterata infinitamente, perde efficacia, ed è allora, quando il pubblico pensa che nulla accadrà più, che Leo Bassi, con una forbice nascosta in tasca, buca la lattina da cui immediato zampilla un getto di schiuma. E il panico nuovamente si diffonde.

Il meccanismo è semplice, persino tradizionale, ma efficacissimo. Il punto non è il numero in sé, ma la connessione con l’argomento politico. Leo Bassi pone la questione della capacità del teatro di agire sul reale, di essere in grado di cambiare il mondo. L’azione teatrale può ancora essere in grado di interagire con la società, creando le condizioni per una profonda riflessione sulla crisi che la attraversano? È una domanda fondamentale per il teatro di oggi. La ricerca di una funzione delle arti performative nella società, di una loro azione politica efficace, caratterizza le creazioni di alcuni tra i più importanti artisti della scena contemporanea da Milo Rau a Agrupación Señor Serrano, da She She Pop a Rimini Protokoll.

Leo Bassi cerca la sua risposta concependo dei numeri in cui il pubblico senta sempre di perdere il controllo, Le proprie opinioni non sembrano granitiche e incrollabili, persino la propria sicurezza non viene garantita. Il ruolo consuetudinario di passivo osservatore viene demolito. Il clown recupera la sua anima demonica, diventa strumento di crudeltà tesa a strappare i veli del mondo e della civiltà per scoprire i vermi che si agitano sotto le apparenze. Tutto viene messo in discussione: la libertà, il controllo, la giustizia, l’ipocrisia di religioni e credi politici. Si mettono nudo gli scheletri nell’armadio e si impone di fare una scelta: chi si vuole essere in questo contesto?

Il clown sulla scena, quasi come Woland ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov, allestisce il suo spettacolo di magia. Dissolve i miti della società e ci lascia svestiti, in mutande, senza certezze, come il pubblico moscovita connivente con il potere nella Russia staliniana. Il clown non è altro che angelo caduto che mal sopporta la noiosa impeccabilità del paradiso e ama perdutamente l’imperfezione della vita e che ci costringe a gettare lo sguardo sul mondo di cui facciamo parte.

Lo spettacolo termina con un’ultima domanda: in un mondo dove tutto è possibile, dove siamo assuefatti a ogni genere di volgarità e sollecitazione cosa può fare il teatro per essere veramente provocatorio? La risposta è un’invocazione alla poesia e alla minorità. Questa è l’ultima immagine che ci regala Leo Bassi: il pagliaccio in mutande, cosparso di miele e ricoperto di piume. Non più aggressivo, ma ridicolo nella sua impotenza, immagine poetica di una inadeguatezza che ci spinge ad amare le differenze, le unicità contro ogni forma di omologazione. Ci invita a essere ribelli, ad accompagnarlo nella caduta, perché non sono le vittorie, ma i fallimenti, che conducono alle grandi rivoluzioni.

Visto al Café Müller il 23 febbraio 2019

Ph: @Andrea Macchia

Premo Ubu

PREMIO UBU 2017: alcune brevi considerazioni

L’anno si sta chiudendo ed è tempo per tutti di bilanci. Il teatro non si esclude da questa tradizione e come di consueto il Premio Ubu permette alcune riflessioni sullo stato delle cose nell’ambito teatrale.

Premetto da subito che le considerazioni che seguono non criticano la qualità dei lavori o dei performer premiati. Per esempio il riconoscimento della qualità delle interpretazioni di Christian La Rosa o di Claudia Marsicano sono ineccepibili, così come i due premi nelle categorie miglior performer e miglior progetto sonoro a Cantico dei Cantici di Roberto Latini (per la lista completa dei premi rinvio al sito del Premio Ubu http://www.ubuperfq.it/fq/index.php/it/premi-ubu/premio-ubu-2017/vincitori-ubu2017 ). Le considerazioni che seguono riguardano più che altro l’immagine produttivo-distributiva del nostro teatro.

Se prendiamo in oggetto gli ultimi cinque o sei anni, ossia dal 2012 al 2017, scopriamo dei dati interessanti. Latella vince premi nel 2012, 2013, 2016 e 2017, Latini nel 2014 e 2017, Civica nel 2015 e 2017 e infine Ronconi nel 2013 e 2015 (i premi riguardano esclusivamente le categorie Miglior regia, Miglior spettacolo e Miglior performer).

La ricorrenza di questi nomi, garanzia per altro di alta qualità, indica cose interessanti soprattutto per quanto riguarda l’aspetto produttivo (in quasi ogni caso sono coproduzioni con a capo fila un teatro stabile) e distributivo (il sistema referendario del premio inevitabilmente premia i lavori che circuitano di più).

Se per esempio allarghiamo il periodo storico di osservazione partendo dalla sua fondazione a oggi, ossia dal 1977 (questa era l’edizione del 40esimo) troviamo Ronconi premiato in ben diciotto occasioni, Tiezzi in dieci, Carmelo Bene in otto, Castri in otto. Questi non sono gli unici nomi a ricorrere negli anni troviamo anche Martinelli/Montanari, Castellucci, Armando Punzo, Barberio Corsetti.

Quello che risulta da questa incompleta disamina (questo è un articolo breve e per sua natura lapidario) è una sorta di monopolio costituito da produzioni legate ai Teatri Stabili e alle coproduzioni internazionali che gioco forza sono quelle ad avere un potere economico e distributivo più forte e che quindi catalizzano l’attenzione. Gli outsider difficilmente trovano spazio se non in rare occasioni. Ricordo che il sistema di votazione è referendario, critici sparsi in tutto il paese votano e gioco forza gli spettacoli che girano di più, al di là della loro qualità, sono quelli più visti e più votati.

Per le compagnie indipendenti e giovani entrare in questo circuito produttivo e distributivo diventa difficilissimo. E questo comporta un difficile ricambio che genera le ricorrenze che abbiamo rilevato.

Se poi prendiamo in considerazione sempre nel quinquennio 2013-2017 il premio Ubu al miglior spettacolo straniero visto in Italia, possiamo notare un altro dato interessante che ci permette di fare altre considerazioni sulla filiera produttiva e distributiva del nostro paese. Negli ultimi cinque anni se si esclude il 2013 con la vittoria di Odyssey di Bob Wilson, vincono sempre spettacoli di area tedesca: Marthaler 2014 e 2015, Jan Fabre prodotto dal Berliner Festspiele nel 2016, Milo Rau nel 2017, con le She She Pop finaliste nel 2013 e 2015.

Questo primeggiare di opere provenienti da Svizzera e Germania si spiega non solo per un potere economico maggiore ma anche per una più saggia politica produttiva e distributiva che ha permesso un ricambio generazionale e l’emersione di giovani di talento. Per un artista svizzero alle prime armi, per esempio, è molto più facile, grazie a sostegni appositi previsti dai Cantoni, dalle Lotterie, dalla società per i diritti d’autore elvetica SSA, da festival e da teatri, una maggior circuitazione e una possibilità produttiva in Italia impossibile.

Milo Rau per esempio riesce a produrre lavori di alto livello e ampiamente sostenuti a partire già dal 2007 quando aveva solo trentanni. Ma il suo caso non è l’unico.

In Italia un giovane che non entra nei circuiti privilegiati difficilmente trova, non solo una produzione all’altezza, ma una distribuzione che gli permetta un sopravvivenza a lungo periodo. Per esempio gli Omini, o il Collettivo Controcanto, o Marco Chenevier hanno molte meno possibilità di essere visti di quanto meriterebbero perché difficilmente un programmatore o un direttore artistico punterebbe su di loro non avendo grandi possibilità di richiamare pubblico o stampa.

È ovvio che questo è un serpente che si morde la coda. Meno si punterà sugli sconosciuti di talento, meno possibilità avranno di emergere e sempre più vedremo premiati gli stessi nomi. È ora che si inverta la tendenza se vogliamo che il nostro teatro e la nostra danza ritrovino qualità e contenuti. È necessario riformulare le nostre filiere produttive e distributive, occorre formare figure che si occupino della vendita degli spettacoli, così come i direttori artistici si assumano dei rischi. Se questo non avverrà al più presto la qualità del nostro teatro e della nostra danza sarà sempre meno incisiva nei confronti dei pari età esteri che vivono situazioni meno difficoltose per l’emersione del loro talento.

Un ultima considerazione: la notizia del premio Ubu 2017 è stata a dir poco ininfluente sulla grande stampa. Se ne occupa per lo più quella web e specializzata. E questo è un segnale preoccupante della rilevanza che le arti sceniche hanno nel contesto culturale italiano. Il vero dramma è che nemmeno come controcultura è incisiva. Le arti sceniche in questo paese faticano a trovare un ruolo e una funzione e anche su questo aspetto andrebbe spesa più che una riflessione.

50 grades of shame

50 GRADES OF SHAME di SHE SHE POP

Assistere oggi a qualcosa di completamente inatteso, sorprendente, che riempie la retina è sempre più difficile. Siamo così bombardati dalle immagini che sfuggire allo stereotipo risulta impresa ardua, c’è lo sconforto che coglie al sorgere della consapevolezza che tutto è già stato detto e fatto. Ma quando sorge inaspettata la sorpresa, l’apparire all’orizzonte di una terra incognita, si è come rapiti, traslati in questo altrove non mappato, nel bianco abbagliante di una carta geografica vergine di nomenclatura. Il nuovo territorio che appare in 50 grades of shame di She She Pop va esplorato a vista, procedendo con la cautela richiesta da ogni territorio alieno.

I corpi che si incontrano in questo nuovo territorio sono generazioni equivoche, mostruosità fantastiche eppur reali, una diversa e affascinante umanità. I corpi dei performer diventano, sui due schermi che campeggiano sulla scena, corpo unico, indissolubile coacervo di membra, mutevole novello Proteo in perenne trasformazione e mutazione. Corpi che partecipano di sessi diversi, incarnazioni di Ermafrodito, senza età e di tutte le età, mitici e reali. I corpi separati nella realtà partecipano divisi alla creazione dell’immagine che si ricompone sullo schermo. Tre, quattro, a volte cinque corpi fusi e riuniti in un unico corpo senza organi, improbabile, impossibile eppur reale. Una supermarionetta nata dalla fusione e collaborazione di singoli sparsi nello spazio e nel tempo, privati di un pezzo, ricomposti e ricombinati. Gli abitanti di questa terra incognita sono legione, sono uno e moltitudine. A loro nessuna permutazione è impossibile, innocenti privi di vergogna alcuna, mostrano le loro differenze e deformità, mutano testa e voce, moltiplicano gli arti, i sessi, diventano blemmi senza testa volto emergente dal petto, donne calamaro, deità indiane con mille braccia, volto di Brahma con facce da ogni lato, esseri senza gambe e due petti fusi in un bacio. Inverosimili accoppiamenti dove tutto è organo sessuale, tutto è bocca, orifizio, clitoridi e peni, in congiunzioni carnali che sfidano l’immaginazione più audace. Un’alleanza di corpi per un’esecuzione comunitaria e inscindibile, il singolo senza il gruppo sarebbe cosa impensabile. Lo spazio scenico si apre a una virtualità, si apre verso spazi non noti e impensabili. L’azione è sparsa per la scena e ricomposta come per magico teletrasporto sui due schermi, quello che appare non esiste ma è pur possibile.

Queste fusioni e permutazioni corporee rifulgono nella sontuosa Totentanz finale, la danza macabra di nordica memoria medioevale, in cui i corpi trionfanti danzano con gli scheletri e la morte in un invito alla vita che emoziona e scuote a cogliere l’attimo senza porsi il limite del pregiudizio.

Ma questi corpi hanno voce, sono corpo docente, che condivide la sua esperienza con il pubblico. Ma prima di tutto la domanda: Was ist verboten? cos’è proibito? E la domanda viene posta senza che ci sia risposta, solo la reiterazione della domanda in 13 lezioni. Tra Risveglio di primavera di Wedekind e 50 sfumature di grigio si pratica una nuova educazione sentimentale, si costruisce un novello Kamasutra. Vergini al sesso si chiede conoscenza, un’iniziazione al mistero della passione e della carne, a turno si sale in cattedra e mentre si fondono gli esseri in amplessi improbabili, in pose sconosciute, si realizza la fusione di cultura e esperienza, testo e vita privata, e così nuovamente si realizza il miracolo di rendere indistinguibile il modello di partenza nel mostro così ricomposto. Brechtianamente non c’è partecipazione emotiva, ma scientifica messa in discussione critica del mondo e delle opinioni. Tutto è posto in evidenza ma nella piena luce così amata da Tiepolo, ecco la perspicuità nascosta dall’abbagliante luminosità dell’evidenza: niente sappiamo, tutto è possibile, persino il proibito.

50 grades of shame è inoltre fusione di elementi culturali disparati di cultura alta e bassa in un perfetto superflat. Wedekind e E. L. James, la cantata di Bach BWV 82 Ich habe Genug (è quanto mi basta) con il pop, cantato a canone come fosse un salmo gregoriano, medievale e contemporaneo, esperienza personale e modello letterario. Tutto ancora una volta si fonde e ricombina per generare a sua volta nuove immagini e modelli.

Ma 50 grades of shame mi porta anche a un’altra riflessione. Un tale livello di perizia tecnica e formale, l’accesa innovazione innestata sulla tradizione, è impensabile nel nostro modello produttivo italiano. Una tale ricerca richiede tempo e protezione, sostegno e istituzione capace di garantire tutto questo. She She Pop sono un collettivo sorto dalla scena della postdrammaturgia che crea senza ruoli definiti, tutti sono autori, drammaturghi, esecutori. È una creazione a più teste e molte mani come i corpi fantastici che calcano la scena. Prima nasce il movimento sulla scena e poi la concatenazione di testo e esperienza personale. Una tale montaggio delle attrazioni necessita di tempo per rodarsi, per sfuggire all’ovvio e alla mediocrità. Nessuno oggi in Italia si può permettere questo dispendio di forze. E questo è assai triste. Un tale livello di qualità è raggiungibile solo con sforzi di ricerca, studio matto e disperatissimo, dedizione totale.

E se è vero che 50 grades of shame è un invito ad andare al di là della vergogna, a non aver timore di mostrare le nostre imperfezioni e le nostre deformità, è anche vero che il nostro corpo performativo dovrebbe altamente vergognarsi dello stato negletto e indecente in cui è naufragata la ricerca in questo paese. Nel giorno in cui il Teatro Valle è nuovamente occupato, il modello delle She She Pop dovrebbe essere di stimolo a cercare nuove soluzioni, a rimettersi nuovamente in moto, a ritornare a essere esploratori nelle terre incognite al di là della linea delle Colonne d’Ercole o delle terre dove abitano solo i leoni.

Ph: Doro Tuch

she she pop

SHE SHE POP: IL FASCINO OSCURO DEL MITO E I LUMI DELLA RAGION CRITICA

Testament e Frühlingopfer. King Lear e le Sacre du Printemps. I padri e le madri all’ombra di due miti potenti e oscuri. Materia difficile da maneggiare il rapporto con il padre e con la madre. Roba che rischia di finire in clinica. Il collettivo tedesco She She Pop invece tratta la materia incandescente con l’abilità e la perizia di un maestro vetraio di Murano.
In Testament è il Re Lear che viene preso in esame. In scena le attrici con i loro padri a esaminare con minuzia critica ciò che avviene nel testo di Shakespeare, come in una prova alla Stanislavskij, verificandolo alla prova dei fatti d’oggi: cosa vuol dire lasciare in eredità? E da vivi poi? E quel giochino oscuro che apre l’abisso della tragedia all’inizio? E così si procede atto per atto con padri e figli che si mettono nei panni di Lear e Cordelia, Regan e Gonerilla verificando passo per passo. I cento cavalieri di cui viene spogliato Lear diventano così libri da spostare in caso che il vecchio padre, ex professore universitario, passi il fatidico mese ospite in casa dei figli. Risultato: nessuno spazio vitale, rapporti tesi, affetti lesi. Ma i cento cavalieri sono irrinunciabili perché sono la dignità che rimane al padre, ciò che è stato e ha fatto, ciò che lo ha reso quello che è e perderli significa perdersi per sempre. E così si arriva alla tempesta, all’atto di spoliazione, all’abbandono nella solitudine. Per un attimo il ritorno di Cordelia fa intravedere una riconciliazione (un ascoltare seduti abbracciati con il vecchio padre una canzone, quella preferita e amata, quella che fa loro ricordar i vecchi tempi), ma in verità è solo un’illusione, in fondo alla strada per padri e figli c’è l’abisso della morte che vanifica ogni sforzo.
Con precisione crudele, con spietatezza lucida e inflessibile, come chirurghi si intaglia sul tavolo operatorio il mito, lo si esamina e lo si mette alla prova, scientificamente, con l’esperienza: si vive il mito, si esamina, si prova sulla propria pelle, ma senza patemi emotivi, guardando in faccia alla verità che ne esce qualsiasi essa sia. Non c’è clinica. Di nessun tipo. Anzi c’è l’ironia a illuminare la scena. Certo uno humor noir, quello che ha il potere di farci guardare in faccia la realtà del mito, il suo ciclico riaffacciarsi in ognuno di noi, senza scampo, senza possibilità che questo abisso si colmi o si riconcili. Si può sperare solo in preziosi e momentanei riavvicinamenti.
Tutto questo in una partitura precisa e puntigliosissima di gesti, segni, tempi. Non un movimento è lasciato al caso. Tutta la scena è significante. Interessante e intelligente l’uso di telecamerine che aprono spazi ulteriori alla scena, benché tutto quello che riprendono sia in fondo in scena e ben visibile. Ma è la lente di ingrandimento con cui si guarda il reale e il mitico. Le facce dei padri, quelle dei figli, il testo del Lear, la tomba che aspetta padri e figli alla fine del cammino.
Il testo poi del Lear, non è recitato. Nessuna retorica. Nessun intento interpretativo. Nessuna nenia emotiva, nessuna finzione di voler esser qualcun altro, quel fenomeno da Croce Verde di cui parlava Carmelo Bene e che troppe volte abbiamo visto sulle scene in queste Colline. Il testo viene letto. I rapporti che si enunciano sulla scena sono semplicemente detti, con distanza critica che rianima il miglior Brecht. Un metodo di sondare il reale con feroce lucidità che si riscontra in altri fenomeni visti nel corso dell’anno con Milo Rau o Ivo Dimchev. Qualcosa che a casa nostra latita pericolosamente. Noi ci cincischiamo a recitar sermoni dai palchi o con i drammetti borghesi. Ma c’è un motivo per cui questo avviene e ne parleremo alla fine di questo articolo. Ora passiamo ad analizzare l’altra faccia della medaglia di ciò che She She Pop ha presentato nella rassegna torinese: Frühlingopfer ossia Le sacre du Printemps di Igor Stravinskij.
Nel balletto tanto celebre si evoca un rito pagano: il sacrificio di una giovane adolescente, di fronte a un cerchio di vecchi saggi, affinché il dio conceda il ritorno della primavera. Il sacrificio. Un’altra immagina potente e ricorrente. Un qualcosa che ci perseguita dall’alba.
Questa volta più che il mito a essere sezionato è il rito. Madri e figli alla luce del sacrificio vicendevole che la civiltà richiede. Gli attori e le proprie madri diventano tutte le madri e tutti i figli. Anche in questo caso si esclude la clinica. Ciò che avviene sulla scena è universale come il rito che la divinità richiede per il ritorno della primavera, affinché il ciclo ricominci e si ripeta inflessibile. Il passato che chiede al presente di perdere una parte di se stesso per onorare ciò che è stato per permettere a ciò che sarà di palesarsi. Il racconto delle vite di madri e figlie, la figura della donna ieri e oggi, e la danza sacrificale ripetuta mentre risuona potente la musica di Stravinskij. Parole e musica, rito e analisi. Tutto concorre all’emergere del fondo oscuro che si ripropone in ogni vita dall’alba della civiltà a oggi. E ancora l’immagine in video ad aprire spazi e significati. In video le madri, sulla scena le/i figlie/i. Separati e distanti nello spazio, ma in qualche modo, con semplicità magistrale, le figure si sovrappongono, si compenetrano, dialogano e si scontrano. E ancora l’ironia a impedire la ricaduta nella psichiatria, nel dramma, nel senso di colpa.
Esecuzione perfetta, rigorosa, inflessibile. Un livello magistrale di ricerca. E tutto attraverso il linguaggio proprio del teatro. Nessun elemento ha rilevanza rispetto agli altri. Non la parola, non la musica, non l’immagine. Tutto è usato affinché sia la scena ad agire. Spazio, corpi in movimento, suoni, immagine nel tempo e fuori dal tempo.
Questo livello altissimo di costruzione e composizione raggiunto da questo collettivo tedesco mi da il là per aprire un discorso più ampio rispetto al teatro italiano.
I risultati raggiunti dalle She She Pop prevedono un modello produttivo sano che consideri la ricerca come fondamentale per il raggiungimento di alti risultati. La salvaguardia del tempo di ricerca, della professionalità di attori e autori. Il tempo segreto dedicato alla formazione e maturazione del lavoro. In questo modello produttivo si riconosce il ruolo, la funzione e la professionalità dell’artista di teatro. C’è inoltre attenzione alla programmazione, allo sviluppo di un futuro e di una pratica culturale che sia d’utilità a una società. In questo modello si preserva la cultura dallo scadere in enterteiment. È un modello di azione culturale proiettato verso un futuro e adatto a un presente, dove la realtà non sia esclusa ma avvinta, criticata, affrontata a viso aperto anche laddove dispiaccia.
In Italia invece il modello che appare evidente è quello in cui la ricerca sia sacrificata sull’altare del risultato certo, il tutto condito dalla scusa per ogni nullafacenza: non ci sono soldi. E così modelli vecchi e obsoleti si ripropongono, inadatti ad affrontare il mondo come si presenta. La ricerca non è considerata quasi mai. Per il modello italiano è tempo perso, come già denunciava Carmelo Bene nei lontani anni ’90. Il modello produttivo che propone il nostro paese preserva il consueto, il solito, ciò che accontenta il potere, l’abbonato e la pigrizia degli operatori culturali e dei direttori artistici.
In tutto questo si vede il ritorno di modelli ricorrenti e corrotti, che non ricercano nuove strade per il linguaggio teatrale, perchè questa ricerca proprio non è prevista. E la critica si accoda e acclama lavori che di interessante non hanno proprio nulla, Concede premi ad attori che seppur bravi navigano in acque conosciute o conosciutissime, e ricordiamo che le cose migliori vedute in Italia negli ultimi anni sono state agite sulla scena da barboni, malati di mente, carcerati, dilettanti. E questo sia detto non per sminuire la tecnica e la professionalità dell’attore, ma perché la scena richiede altro che attori con tecniche obsolete. Richiede interpreti che scelgano strade nuove al di là dei modelli proposti da scuole e accademie.
Il futuro delle arti richiede coraggio, capacità di osare e non acquiescenza di fronte a modelli inveterati e polverosi. E non è solo questione di soldi. È il pensiero che deve cambiare.
I due lavori delle She She Pop ci hanno mostrato con evidenza ineludibile che la ricerca, quando ben condotta e sostenuta, quando si ha il coraggio di affrontare le sfide che il presente storico ci pone, porta a risultati straordinari al di là dell’estetica, al di là della comunicazione, al di là della clinica lacrimevole e di facile successo.
Bisogna avere coraggio, credere nel lavoro necessario compiuto dalle arti, bisogna riformare i modelli produttivi. E questo è compito di politica culturale che non sembra nemmeno essere preso in considerazione. Affrontare percorsi rigorosi di ricerca sul linguaggio e le funzioni del teatro è cosa che compete agli artisti. Qui, sì, manca il denaro ma a volte anche la volontà. Ci vuole che istituzioni e enti preposti considerino che uno o due anni chiusi a lavorare non sia tempo perso, ma percorso fondamentale e irrinunciabile se si vuole ottenere risultati. Cosa che non ho detto io ma Carmelo Bene in quella Biennale dedicata alla ricerca che tanto fu insultata.
Come in altri campi, in questo paese si è rinunciato a pensare, programmare, immaginare un futuro. Si vivacchia. Si tira a campare. Si pensa all’aurea mediocritas del premietto d’oggi, al meno peggio. Non ci può essere futuro se si pensa solo all’odierno problematico, all’emergenza e non all’emergere. Questo ci insegna il lavoro delle She She Pop: un modello virtuoso di ricerca sostenuto da un sistema paese che considera la cultura e i suoi risultati come necessari e non decorativi. Non sto dicendo, badate, che è tutto oro quello che luccica. Se mancasse il talento il sistema produttivo, benché virtuoso sarebbe sterile. Diciamo però ma che questo modello virtuoso sia necessario affinché sorga il nuovo, affinché il talento possa trovare la propria strada e si raffini. Se in Italia non affrontiamo questo percorso, se artisti, politici, direttori artistici non si orientano a creare le condizioni, continueremo ad applaudire il meno peggio e ripeto, come diceva Carmelo Bene, “il meglio del peggio è il pessimo!”.