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TRENTESIMO di Roberta Bonetto

Un giovane, Vitangelo Moscato sale su un ascensore per raggiungere un colloquio di lavoro e rimane bloccato. Questa la vicenda. Un piccolo quadrato di luce nel quale un danzatore resta imprigionato suo malgrado. Nessuno viene a liberarlo e lui non può raggiungere il colloquio. Vitangelo comincia a esser preso dall’ansia di perdere un’occasione per cui si è preparato con così tanta cura e con così tanto tempo. Ma la prigionia è il colloquio stesso, la verifica da parte dell’azienda, delle capacità di sopportazione del candidato. Da questa situazione si sviluppano divertenti dialoghi tra il danzatore e la voce che proviene da un lontano ufficio dove si sta valutando le reazioni del candidato, che man mano che procede la prigionia, comincia a rivalutare il suo percorso e le sue convinzioni. Tutto questo studiare, aggiornarsi, scrivere curricula, in fondo a cosa serve? Tutto questo prepararsi, essere pronto a sostenere qualsiasi cosa pur di ottenere un lavoro e una carriera, sono veramente necessari? Questo ripensare, rivedere le proprie posizioni, così come l’ambiente claustrofobico, la costrizione, lo stress che la condizione di recluso forzato comporta, sono evidenziati da una danza sincopata, nervosa, costruita a partire da gesti quotidiani facilmente riconoscibili, una danza che è divertente e ossessiva nello stesso tempo.

Trentesimo è andato in scena ieri sera 10 marzo 2016 presso le Lavanderie a Vapore nell’ambito di Permutazioni un progetto di residenze creative promosso da Zerogrammi e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, ed è un work in progress e come tale presenta alcuni difetti e molte potenzialità. Tra i primi, una drammaturgia a volte farraginosa, inconcludente, e il finale decisamente in tono minore che non risolve la vicenda né lascia trasparire interrogativi forti. Tra i punti di forza l’interpretazione del danzatore Gabriel Beddoes che con spigliata comicità napoletana un po’ alla Troisi supplisce alle manchevolezze di una drammaturgia difettosa, troppo accusatoria e con volontà di dire troppo, tanto da assoggettare la libertà del corpo danzante a una significazione imprigionante, e senza alla fine risolvere i nodi essenziali. Il finale inconcludente lascia l’amaro in bocca, ma forse, essendo un work in progress, sarà, ci auguriamo, migliorato nel futuro.

Foto: Fabio Melotti

Paolo Agrati

CONVERSAZIONE CON PAOLO AGRATI

A volte ci sono delle serate che ti riservano delle sorprese, che nascono un po’ per caso, come quando a Torino, in san Salvario, capita che fai un aperitivo e ti trovi Paolo Agrati e ne nasce una bella conversazione.

Enrico Pastore: Paolo Agrati vorrei cominciare da una curiosità: qui a Torino si è formata una scena poetica sviluppatasi in un territorio senza grande tradizione, il Piemonte è più legato al romanzo, e forse in questo è stata più libera di scegliersi strade inconsuete. Tu invece sei brianzolo, vivi in una zona che gravita intorno a Milano, una città che è stata un centro di diffusione di grande poesia (penso a Marinetti, Antonia Pozzi, Clemente Rebora, ma non solo), ed è stata anche punto di riferimento per certa canzone poetica e ironica, e qui penso a Gaber e Jannaccci su tutti. Questa tradizione importante ti ha in qualche modo influenzato? Ha pesato sul tuo cammino poetico? Oppure non ne hai per niente tenuto conto?
Paolo Agrati: No, al contrario. È un’ottima osservazione. Guarda ti dico: mio padre faceva il regista nel teatro milanese amatoriale e ha anche lavorato con Mazzarella. Hai presente Mazzarella? Quello che faceva il barbone nel Povero ricco con Pozzetto. Lui era un attore di teatro che lavorava molto nel teatro dialettale milanese, che è un teatro grasso, anche un po’ sempliciotto, ma che se lo fai bene può essere molto bello. Io sono cresciuto con l’attaccamento al teatro in dialetto milanese. Penso anche a Walter Valdi, quello che ha scritto per Jannacci Faceva il palo, o a Pozzetto, io lì ho visti fin da bambino, Valdi, ad esempio, era di casa come Mazzarella. Vedo quest’ambiente più come un ricordo d’infanzia. Non so se mi abbia influenzato anche come poeta, credo di no. In più devo dire che io alle superiori avevo un professore, Luigi Cannillo, che è un grande poeta. È stato uno dei miei maestri, e mi ha insegnato molto, tipo la capacità di costruire immagini, o di non usare troppi verbi, che sembra una stupidaggine, però più verbi metti più l’azione si complica. Lui mi ha fornito, diciamo, gli strumentini del mestiere, quelli che uso sempre, e con lui ho girato un po’ i circoli, dove c’era Maiorino, poeta milanese, la Casa della Poesia, il Parco Trotta dove c’erano i poeti, non quelli della tradizione ma quelli che facevano poesia in quel momento. Li ho visti, ma un po’ me ne sono allontanato. Credo quindi di lavorare in modo diverso. Dopo aver gustato la parola scritta ho preso un’altra strada. Per esempio il mio primo libro Quando l’estate crepa aveva un tono molto tragico. Il secondo libro parla di distanze e lì comincio a masticare un linguaggio diverso, comincio a distaccarmi da una classicità nella poesia. Il terzo libro infine faccio proprio quello che voglio. È diviso in due parti Amore e Psicho, dove mi rivelo un po’ come Dottor Jakyill e Mister Hyde.
Però, mentre ci penso, a questa tua osservazione, mi viene da dire che in fondo più che aver subito un influenza poetica, ho vissuto un ambiente poetico. E poi devo dire che in effetti l’attività degli slam, non è a Milano, ma in Brianza o in provincia. È tutto delocalizzato. Noi a Milano facciamo fatica a portare questo tipo di poesia. Alla Casa della poesia ci sono solo le cose super ufficiali. Quindi devo dire che hai ragione da vendere a dire che qui a Torino non si ha così tanta tradizione a cui aggrapparsi, rispetto a Milano. Se la vedi da distante, Milano, sembra un po’ un punto di riferimento poetico rispetto a Torino e quindi far pensare che questa tradizione pesi o influenzi l’azione di noi che facciamo poesia.

EP: Come sei venuto a contatto con il mondo degli slam?
PA: Conosci La Scighera a Milano? È un locale di anarchici, molto bello, dove sono venuto a contatto con lo slam come lo conosco. Sono andato lì e ho vinto. Era un locale che frequentavo, mi piaceva, e così ho partecipato dure, tre, quattro volte. Ho cominciato così. Poi dopo aver pubblicato il primo libro con la Lietocolle e aver vinto un premio, mi son detto: cosa faccio? Mi metto dietro la scrivania oppure faccio qualcos’altro? E così ho cominciato a preparare una sorta di spettacolino di venti minuti. C’era un manichino che io spogliavo. E lì ho capito che era meglio far passare la poesia dal palco. Poi c’è stata l’esperienza con la Spleen Orchestra. Tutte queste situazioni hanno fatto sì che sviluppassi un rapporto con il pubblico e con il palco, che raffinassi piano piano la mia capacità di interazione con il pubblico. Tornando allo slam quel tipo di competizione poetica ti insegna molto sul comprendere il pubblico che hai di fronte e sul gestire le energie. Per esempio una volta m’è capitato di vedere Nanni Svampa. Quella sera c’era anche un altro tizio che si sbracciava sul palco, si muoveva in continuazione. Poi è arrivato Nanni Svampa, spostava solo un cavo con il piede e la gente rideva, ma non perché era ridicolo, ma perché lui era presente, era la presenza, la capacità di stare lì, gestione dei tempi, delle energie. Lo slam mi ha dato questo. Mi ha insegnato queste cose.

EP: Paolo tu sei un poeta che frequenta molto gli slam, cosa diresti a chi pensa e sostiene che questa non sia poesia?
PA: È tutta fuffa. Chi sostiene questa posizione è chi si trova spiazzato e che non riesce più a comunicare. Qual è l’artista che è testimone del suo tempo? Quello che riesce a capirlo. Lungi dal volermi paragonare, ma pensiamo a Warhol. È quella roba lì. Capisci cosa sta succedendo. E un buon poeta, senza diventare il Warhol di questo secolo, deve capire che la poesia è un mezzo di comunicazione, che compete con altri mezzi di comunicazione che sono più freschi, più dinamici. Ripeto: non c’è nessuna lotta se non quella del poeta che si trova spiazzato e non riesce più a parlare con nessuno. Non si trova nella modernità e quindi la schifa. Per quanto mi riguarda, quando avevo diciotto anni e ho vinto il primo concorso, premio che mi ha salvato all’esame di maturità, ho visto che la gente non vedeva l’ora di leggersela da solo questa poesia, guardava in giro disattenta, insomma una serata noiosissima e mi son chiesto: ma io voglio fare questa cosa qua? Poi c’è un’altra cosa che vorrei dire: c’era qualcuno, non ricordo esattamente chi, forse Picasso, che diceva: il gusto è per gli stupidi. Cosa vuol dire? Che il gusto mi porta a mettere la maionese sul tiramisù. Il problema è che bisogna capire uno sforzo creativo. Se hai anche una piccola predisposizione verso l’esterno, lo sforzo creativo lo capisci e non ti deve per forza piacere. Comprendi che c’è un equilibrio o un disequilibrio, che c’è una costruzione. È lì il punto. E poi la poesia orale non esclude quella scritta, per questo dico che non c’è lotta. Comunque diciamocelo, io sono anche un po’ stufo di quelli che mi dicono cos’è la poesia. Che poi non è neanche la domanda. È la risposta. C’è gente che vuole dare la risposta e uno lo capisce già a sedici anni che non si può dare una risposta.

EP: È molto giusto quello che dici e purtroppo c’è sempre chi vuol cercare di definire e mettere confini. Ma parliamo di poesia orale e dal vivo: è un dato di fatto che la gente legge poco eppure gli slam e i reading attirano molto pubblico. Non pensi che sia un’esigenza di condivisione, di sentire più che di leggere, di fare un’esperienza dal vivo e non relegare la cultura a un fatto privato?
PA: È vero. Anche se la poesia orale non esclude quella scritta. E bisogna dire che la poesia comunque in qualche modo chiama la pagina. Scrivere una poesia è una cosa complessa, richiede molto tempo a volte, un lavoro di cesello sulle parole per trovare quelle giuste, il giusto suono. Anche nella poesia orale esiste questo lavorio, ma serve un’esigenza diversa. Un poeta cosa prende dallo slam? La consapevolezza di avere un corpo e una voce. E una sorta di umiltà, perché metti la tua poesia nelle fauci del pubblico. Accetti il giudizio del pubblico. E se non piaci non è perché il pubblico non capisca un cazzo, perché non è questione di capire, ma di sentire, e può benissimo darsi il caso che hai sbagliato, che non hai fatto la cosa giusta. Bisogna essere umili e ascoltare. Lo slam sta creando un linguaggio nuovo, altro. Un linguaggio costruito sul corpo, che a volta non ha bisogno neanche della pagina, perché le poesie sonore, i suoni sono difficilmente riproducibili sulla carta. A volte appaiono noiosi o orribili. Nel reading invece succede un’altra cosa ancora. Il reading è un viaggio all’interno delle molte facce del poeta. Io lì doso tutti gli elementi, la parte ludica, la parte romantica, una più dura. Nello slam invece devi dare tutto in tre minuti.

EP: Quali sono i tuoi progetti attualmente?
PA: Spero di andare al Festival di Lima in Perù. Ho un libro in lavorazione in Cile con una piccola casa editrice. Anche questo da confermare. Sto anche scrivendo il prossimo libro, composta da piccole poesie sui suicidi anche se non ho nessuna intenzione di uccidermi. Sarà un libro illustrato. Infine, sto cercando di fare un disco. Diciamo che quest’anno mi dedico al multimedia.

Virginie Brunelle

COMPLEXE DES GENRES di Virginie Brunelle

Tre corpi ibridi. Metà maschio, metà femmina. Avvinti in un amplesso danzante. Una danza classica, ironicamente parodistica con tanto di tutù, su questi corpi improbabili, di genere misto. E il requiem di Mozart a invocare un’altra congiunzione, divina e inquietante: Eros e Thanathos.
Al tema segue lo sviluppo con le sue infinite variazioni. I generi, maschile e femminile, in perpetua relazione che sia di scambio, d’amore, di comprensione o di lotta, ma sempre con la sensazione di aver perso qualcosa, di non aver raggiunto l’essenziale, in costante ricerca di una sostanza sempre sfuggente. Una danza delicata e espressiva nonostante l’audacia acrobatica delle forme, un’audacia velata sempre di profonda malinconia. Virginie Brunelle, nonostante la sua giovane età (nata nel 1982), possiede già una maturità espressiva e compositiva impressionante. Ma forse qui il problema è tutto italiano, in un paese dove un cinquantenne è una giovane promessa.
Come in un componimento di Mozart dove convivono molteplici invenzioni anche di segno opposto, in Complexe des genres, la complessità dei generi e il loro reciproco rapporto si sviluppa in figure animate da ritmi e respiri di battito differente: violenza e tenerezza, sensualità e algida frigidità, malinconia e gioia, classicità e barbarie. E infine la speranza che alla fine del percorso si trovi un modo per comunicare, per interagire senza ferirsi per infine capirsi o forse solo per convivere. Un volo di aeroplani di carta, di speranze lanciate verso l’alto nonostante la certezza della caduta. Eppur resta il tentativo, reiterato, motivato dalla fede in un’improvviso cambio di rotta che smentisca le leggi della fisica.
Virginie Brunelle tesse con abilità le forme ai linguaggi, intrecciando la musica ai corpi danzanti in un scaturire di sensazioni inaspettate. E così il neominimalismo della musica di Max Richter, nell’ossessivo ripetersi di sé richiama il continuo incepparsi della comprensione della coppia danzante che si seduce e si lascia incapaci di superare la differenza per un momento dimenticata nel flusso dell’attrazione. O come quando l’inno alla gioia è contrappuntato dalla violenza dello scontro, dalla violenza della separazione, dall’urto di uno scontro che è desiderio e repulsione. A volte invece il contrappunto diviene armonia come il notturno di Chopin vena di dolce malinconia il reciproco non capirsi. Una scrittura artistica senza incertezze che esalta l’arte antica della composizione.
Complexe des genres è uno di quei lavori che restano impressi, di quelli di cui ci si ricorda perché risuonano nell’animo per lungo tempo, perché evoca e non afferma, non dice ma contiene e rilascia, dona e non pretende nulla in cambio.

Peeping Tom

VATER (FATHER) – di Peeping Tom

Siamo in uno scantinato. Nessuna percezione del mondo esterno. Dalle finestre in alto e sul soffitto penetra una luce uniforme, sempre mortalmente uguale. Qui il tempo non passa mai. La moquette rosso vivo e le pareti azzurrognole ricordano un po’ un sogno di David Lynch. Un mondo sospeso per chi non è ancora morto, per chi è già definitivamente escluso dai vivi. Questo luogo è una scalcinata casa di riposo. Qui si sviluppa l’ultima avventura del padre. Abbandonato dal figlio vive tra i ricordi, le proiezioni dei propri desideri e le terribili consuetudini di questa clinica per vecchi, consuetudini portate all’estremo con feroce ironia, consuetudini che non paiono mai innocue.
Più passa il tempo e ci si addentra nella performance, più si comprende che il padre che si staglia sempre più al centro della scena, non è solo un padre, ma incarna Kronos, evirato perché depotenziato, non può fare ciò che vuole non può andarsene da questo Tartaro. Subisce dal figlio lo spodestamento venendo relegato sulla sedia a rotelle in balia di questi assurdi infermieri. Mantiene però suo malgrado la facoltà di ingoiare i figli, di condannarli alla sua stessa condanna, e benché questi lo escludano, lo sfidino, lo combattano, sono fatalmente destinati a subire la stessa fine: farsi cambiare i pannoloni, subire l’oltraggio di essere dipendenti da altri per fare i propri bisogni.
Quella creata da Peeping Tom è una piece di teatro danza piena di domande sospese, questioni irrisolte, di piani di esistenza problematici, di ineluttabili catastrofi affrontate con efferata ironia. In questa danza di corpi molli, schizoidi, incontrollati ci riconosciamo. Agiti come siamo dal tempo che fatalmente ci spinge verso la vecchiaia e alla decadenza del corpo che l’accompagna, avvertiamo il pericolo che si annida laggiù in fondo alla nostra esistenza: vivere di ricordi, aspettare la morte, subire le violenze dei giovani che non si curano di noi, battagliare per riuscire a fare il poco che ancora riusciamo a fare.
È una battaglia frenetica quella che si svolge sulla scena. Soprattutto contro un esercito di scope che costantemente appaiono e spazzano tutto ciò che vive sulla scena, oggetti o corpi che siano, comprese le poche tracce che lasciano. A un certo punto ne appare anche una gigante che pericolosamente minaccia il pubblico e si agita sulle sue teste. Nello spettacolo di Peeping Tom non vi è la rappresentazione della storia di un vecchio padre abbandonato da un figlio, c’è soprattutto l’evocazione di forze mitiche che minacciano la vita di tutti, perché tutti siamo condannati a divenir vecchi e a finire in quello scantinato.
Peeping Tom con ironia feroce evoca forze che vorremmo dimenticare, che si nascondono nell’ombra minacciando il nostro presente e il nostro futuro.

Ph: ©herman_sorgeloos

Pablo Fidalgo

PABLO FIDALGO HABRÁS DE IR A LA GUERRA QUE EMPIEZA HOY

Chiariamo subito una cosa: l’opera del galiziano Pablo Fidalgo non fa certo parte delle nuove tendenze. È un’opera di stampo classico, di quelle che solitamente su queste pagine castigo senza riserve. Eppure questa volta faccio un’eccezione. La faccio volentieri.
Pablo Fidalgo ricostruisce la storia di un lontano parente, Giordano Lareo, e attraverso quest’uomo si tratteggia la storia di Spagna, ma anche la storia di ogni migrante costretto dalla guerra a dover cambiare orizzonte. Giordano Lareo è una figura emblematica, un moderno Ulisse che non tornerà mai in patria. Catturato dai franchisti sfugge per miracolo all’esecuzione, esule in Argentina, traduttore, professore, tesoriere della Repubblica in esilio, patito di origami tanto che pubblicare il primo manuale argentino sull’argomento. La vicenda di Giordano Lareo ricorda per molti versi quella del nostro partigiano Johnny: non si può rimanere indifferenti, bisogna compiere una scelta, bisogna essere di quelli che costruiscono secondo una visione e non essere quelli che subiscono un mondo imposto. Giordano Lareo ce lo dice: io sono quello che sta al di là del vetro. Io ho patito, ma ho conservato la mia libertà. Io posso guardare il dittatore dritto negli occhi perché ho detto no. E voi chi siete? Di quelli che scelgono o di quelli che si voltano dall’altra parte? Bisogna avere un’idea del mondo per tenersi al di qua del cristallo.
Questa visione è ciò che mi fa compiere un’eccezione per quest’opera magistralmente scritta e superbamente interpretata da Claudio Da Silva, attore a sua volta esule dall’Angola, straniero in Africa e straniero nel suo Portogallo.
Ma vi è anche un altro motivo che mi fa apprezzare l’opera di Fidalgo. La vicenda narrata di Giordano Lareo non è chiusa in se stessa. È un paradigma, che permette di veder nella sua singolarità la vicenda di ognuno. L’aria circola tra scena, platea e interprete, tra passato e futuro, tra storia di Spagna e ogni guerra civile. Come il Partigiano Johnny è mito ed è paradigma di una scelta. Un mondo diverso si costruisce a partire da una visione del mondo, dal coraggio di brandire un’immagine e un pensiero costi quello che costi, come Giordano Bruno più volte evocato. Giordano Lareo più volte si chiede: cosa avrà pensato Giordano Bruno entrando quella mattina in Campo dei Fiori mentre lo conducevano al rogo e la folla lo insultava e lo scherniva? Molte cose probabilmente, ma soprattutto che ci sono molti modi di illuminare una piazza. Si può inondarla di luce nonostante il rogo di bruci le carni è la sua risposta. Il proprio dolore, causato dal vivere fino in fondo una scelta, è ciò che illumina il cammino di altri, è ciò che fa si che altri varchino il confine che li costringe dietro al vetro, a non essere come Tonio Kroger tra coloro che guardano dalla finestra la festa della vita, ma essere tra coloro che la vita la possono guardare in faccia, tra coloro che non subiscono, ma tra coloro che agiscono e pagano il fio delle loro visioni.
L’azione sul palco è unica: piccole colombe di carta in un mucchio che piano piano vengono disposte in lunghe file a occupare l’intero palco. Tra queste file infine la danza di Giordano Lareo/Claudio da Silva (ormai le loro storie sono indistinguibili), una danza negli intervalli, tra gli spazi vuoti, una danza di vita tra figure immaginarie.

Jan Lauwers

JAN LAUWERS & NEEDCOMPANY THE BLIND POET

Certo non si può dire che il lavoro di Jan Lauwers e di Needcompany sia minimale. Tutt’altro. Non a caso si sono rispolverati termini wagneriani: gesamtkunstwerk. L’opera d’arte totale. Jan Lauwers più semplicemente usa tutte le frecce al proprio arco per fare dell’opera teatrale un qualcosa che aggredisca il reale con forza reclamando il diritto dell’arte di incidere sulla realtà, di non essere sciocco intrattenimento né stampella del potere. In un periodo di divisioni politiche tra i popoli in cui la migrazione massiccia risveglia temi che si pensavano sepolti, polemiche sterili tra i “puri” e gli “impuri”, Needcompany costruisce sette storie in cui i performers raccontano delle proprie origini risalendo fino al tempo delle crociate. Origini costantemente spurie e non sempre edificanti. Cattolici, protestanti, ebrei e mussulmani, vichinghi, mori, frisoni e fiamminghi. Popoli in movimento da nord a sud e viceversa, accompagnati da guerre, massacri, compravendita di schiavi, avventurieri in cerca di fortuna. Un eterno ritorno dell’uguale in cui le civiltà si scambiano di posto mentre la barbarie resta generata dall’incomprensione e dall’ignoranza degli uomini. E così mentre a Cordoba nell’XI sec. il poeta cieco Wallada Bint Al Mustakfi viveva in una delle città con la più grande biblioteca del tempo, un luogo in cui le donne godevano di pari libertà e il pensiero non era oscurato da integralismi religiosi, Carlomagno era imperatore illetterato in una Europa dominata da paure, invasioni, servitù e ignoranza. Tutto scorre, tutti partecipiamo della medesima eredità, affratellati in questo mondo che respira.
Sul palco convivono tutte le origini e tutte le lingue (a livello linguistico lo spettacolo è un vero scoglio: si parla fiammingo, francese, inglese, tedesco, norvegese, arabo, spagnolo), tutti condividono lo stesso spazio grande quanto l’ampiezza del mondo raccontando le proprie storie. È un mondo possibile, che si può costruire, che si può vivere. Non ci sono utopie in The Blind Poet.
La musica di Maarten Seghers performata dal vivo dagli stessi danzatori è potente, evocativa, commovente. Le scene sono maiuscole, intense. L’uso delle luci sapiente. Uno spettacolo che tiene inchiodati per tutte le due ore e mezza di durata.
Jan Lauwers è un grande maestro del teatro che della sua arte usa tutto il possibile per farne una piattaforma che mette in discussione il mondo e la realtà. Non rifugge i temi scomodi, non rifiuta di prendere posizione e scegliere una visione del mondo.
Come nel distico del poeta cieco siriano Abu Al’ala Al Ma’arri:
Quando la mente è incerta
viene sommersa dal mondo,
come un uomo debole baciato da una puttana.
Quando la mente è ferma
il mondo diviene una donna rispettabile
perché rifiuta i suoi abbracci d’amore.
Jan Lauwers e la sua compagnia hanno uno sguardo fermo di chi sceglie di convivere e condividere il mondo. Nonostante tutto. E il palcoscenico torna a essere il luogo da cui si guarda il mondo, la scacchiera in cui si giocano tutte le possibilità.

El Conde de Torrefiel

EL CONDE DE TORREFIEL

Si prova sempre disagio di fronte all’apparire di altre forme di interiorità. Di fronte alle miserie che giornalmente proviamo nel nostro animo siamo fondamentalmente indulgenti. Scusiamo questi nostri momenti miserabili come passeggeri. Piccole bazzecole, defaillance, perversioni, pensieri osceni che appartengono solo al nostro intimo, di cui ci possiamo, eventualmente, vergognare in privato e di cui nessun altro è testimone.
Altra cosa è quando questo perverso legame con se stessi e le proprie debolezze viene dispiegato e reso evidente come processo comune all’intera specie. Finché le miserie sono solo personali, in qualche modo è facile scusarle, quando è l’intera specie a condividere una condizione di miserabilità, la questione si fa più spessa, ci si sente oppressi, si è costretti a farci i conti.
Gli spettacoli de El Conde de Torrefiel ci portano molto distante dall’assunto umanista di Pico della Mirandola: l’uomo tutto è tranne che un grande miracolo. È solo, impotente, ossessionato dalle sue perversioni, senza progetto. Ecco la possibilità che sparisce di fronte al paesaggio. Se l’uomo singolo può in qualche modo illudersi di essere grande, sciolto nella massa della specie, risulta nient’altro che un cumulo di oscene piccolezze.
In entrambe le piéce viste al TNT festival di Terrassa (Guerrilla e La posibilidad que desaparece frente al paesaje) si assiste ad un medesimo processo. Sulla scena delle azioni. Dei tableaux vivants potremmo dire. Immagini costruite, equilibrate, piene di gusto, a volte ironiche, sempre estetiche. Le azioni nulla hanno a che fare con i fatti narrati. Eppure alcune relazioni si instaurano. Il nostro cervello non può fare altrimenti, ma per ognuno, tale relazione è differente e personale.
Dei testi vengono sovrapposti alle azioni a volte in voice off, altre volte solo proiettati come un sottotitolo. Nel testo momenti vissute, situazioni limite seppur comuni a molti. Nel testo l’apparire del fondo oscuro che grava sull’animo umano. Il voice off racconta cose che non sono in scena, sono appunto oscene. Poco importa che queste storie siano vissute da Michel Houellebecq, che in una camera d’albergo paga una prostituta per parlare e che in questo suo conversare sostenga l’impossibilità delle arti di compiere alcunché di rivoluzionario, né che siano vissute da un anonimo ragazzo che non può astenersi più di quattro ore dal masturbarsi mentre si infila oggetti nell’ano. L’effetto nel pubblico è il medesimo: ci sentiamo un poco presi in causa e soprattutto ci sentiamo dei voyeur che assistono a qualcosa di proibito. La sensazione che si prova è di disagio. In primo luogo perché le storie sono presentate in maniera asettica, senza alcun pathos, sono semplicemente lette o scritte in un silenzio assordante. Non viene espresso giudizio quindi non viene presentata una moralità, una parte buona e una cattiva. Il tutto è amorale, non ci sono giudici, siamo tutti tremendamente uguali. In secondo luogo perché di fronte a questo cumulo di grettezza ci si sente un po’ come se non ci fosse speranza alcuna di veder l’altezza.
Da queste performance si esce scossi, urtati nel profondo e non può essere altrimenti proprio perché si è venuti a contatto con il magma oscuro che opprime il nostro essere umani. Tutti ugualmente immersi in un’oscura mota. Senza scampo.

Intervista a Tanya Beyeler regista de El Conde de Torrefiel

EP: Partiamo da Guerrilla: da una parte un’atmosfera tranquilla dall’altro un fondo oscuro e inquietante che emerge.
TB: Stiamo lavorando sull’idea della contemplazione del paesaggio. Paesaggi interiori, paesaggi esterni. Vogliamo lavorare sulla dicotomia tra mondo individuale e il mondo diluito nella massa. Abbiamo lavorato a diverse Guerrillas, a diversi episodi in cui ci sono parecchie persone in scena che fanno la stessa cosa mentre si proiettano testi in relazione a cose molto intime. Dunque quello che si vede, il paesaggio, è qualcosa di molto tranquillo, ozioso, mentre il testo parla di qualcosa di molto più oscuro, molto più violento. Si parla di esperienze di vita, ricordi, ideologie e forme di pensiero il tutto molto relazionato con la perversione, o con quello che si considera perversione.

EP: Parlando invece de La posibilidad que desaparece frente al paisaje qual è l’intenzione? Come è stato realizzato?
TB: Noi abbiamo cominciato il percorso con Guerrilla e perché volevamo molta gente in scena. Poi per motivi logistici, economici e di produzione non p stato possibile. Quindi la piéce finale, il risultato di questo processo di un anno derivato da tutte queste azioni di Guerrilla è una performance con quattro attori. I temi che si sono lavorati, ciò che si trova nei testi e l’esperienza dello spettatore è un po’ sempre la stessa: contemplare un paesaggio nei suoi vari livelli. Noi volevamo lavorare su questo tipo di contemplazione: star seduti, un po’ voyeur, a guardare qualcosa che normalmente non hai la possibilità di guardare. Normalmente in scena c’è un tipo di conflitto, una tensione, noi abbiamo scelto di mettere il conflitto da un’altra parte. La scena è quindi molto tranquilla, rilassata, non c’è un’urgenza patente. É il testo che mantiene una tensione.

EP: Possiamo dire che in entrambi i lavori si mantengono come due linee differenti: da una parte l’azione, dall’altra il testo che procedono paralleli e indipendenti?
TB: Sì di solito la compagnia lavora in questo modo. Abbiamo cercato di spostare il conflitto all’interno dello spettatore. Tutto succede nell’animo dello spettatore. In scena è tutto molto tranquillo. È assolutamente un’esperienza estetica. Il conflitto risiede tutto nello spettatore che assiste e legge o ascolta i testi.

EP: A partire da questi lavori qual è il processo che intendete realizzare nel futuro?
TB: Avere tanta gente in scena. È questo il nostro obbiettivo. Per ora questo è complicato per ovvi motivi. La Spagna è come l’Italia. La cultura non è al primo posto, né al secondo e né al terzo. Comunque questo è sicuramente il prossimo passo: allestire degli spettacoli con tanta gente in scena.

EP: Qual è secondo te la funzione del teatro nella contemporaneità?
TB: Io penso che il teatro stia ancora cercando un posto nella contemporaneità, nella storia o nell’umanesimo contemporaneo. Quello che io vorrei è assolutamente un ponte, un passaggio, una possibilità di libertà mentale. È questo è importante in un mondo che è abbastanza saturato, che ha bisogno di tante regole, dove tutto è molto compartimentato. È bene avere un luogo di libertà se non fisica almeno mentale.
Il valore comunque delle arti in vivo è che sono, appunto in vivo, dove un gruppo selezionato di persone condivide uno spazio e un tempo e assiste a qualcosa di irripetibile.

LE FOGLIE E IL VENTO di Mariachiara Raviola

All’inizio un piccolo fiore sorge sulla scena. Alla fine un piccolo fiore si schiude prima del buio. La danza di Shiva, che crea e distrugge i mondi, la danza dell’eterno rincorrersi delle forme. La morte, la vita e la metamorfosi delle forme che accompagna il loro gioco a rimpiattino. In questo piccolo spettacolo di Mariachiara Raviola andato in scena il 20 e 21 febbraio presso la Casa del Teatro Ragazzi di Torino, si assiste a un racconto lieve tra lo sbocciar di due fiori: si narra a un pubblico di bambini la storia di un albero e di una foglia, del loro intrecciarsi nelle stagioni, tra il sorgere e il calar degli astri, tra la notte e il giorno, da una primavera di gioco a un inverno che chiude un ciclo. La vita arborea, frutto del ciclo delle stagioni, racconta fin dall’epoca antica l’intrecciarsi inestricabile di morte e vita: l’anemone racconta l’amore della ninfa e di Zefiro, il cui alito di vento bacia la corolla e la schiude; il fiore d’Adone, il cui rosso violento colora i petali col sangue spiccato dal cinghiale e racconta il pianto delle dee che per sempre l’han perduto; e così il bianco narciso, e il giglio di purezza, e il chicco di melograno e il verde scuro dell’alloro. Quante vite arboree raccontano le morte e l’intrecciarsi dell’amore di uomini e dei. La meraviglia della vita e il suo struggente scorrer via come polvere al vento.
Le foglie e il vento è uno spettacolo coraggioso, che con lievità e una certa qual grazia racconta il costante trapassar delle forme ai bambini, ma anche la gioia di questo esserci finché è dato durare, un gioco nel tempo e nello spazio prima che un nuovo fiore apparirà a sostituir quello caduto e reciso.
La scena, gli oggetti, i danzatori son di bianco vestiti, e non a caso la Cina classica e l’India vedica in quel colore ravvisano la morte e il lutto. Eppure quella scena non inquieta, mette gioia e malinconia, rappacifica con la legge che incombe sulle forme, su tutte le forme. Con la leggerezza di un disegno orientale su carta di riso, i paesaggi e le cose passano e vanno, lasciando il posto ad altre stagioni, altri orizzonti prima che un nuovo fiore apparirà sulla scena.
Un delicato racconto, una danza lieve. Un solo difetto, quello di restar troppo fedele a un ritmo costante, laddove qualche scossone avrebbe ravvivato il racconto e la stasi suscitato maggior commozione. Nel complesso una semplicità che accarezza i giovani spiriti a cui è diretto, li accompagna soave alla comprensione dello struggimento che accompagna ogni trasformazione e ogni trapassare, senza scordar la gioia dell’esserci finché dura.

Le foglie e il vento

Ideazione e regia: Mariachiara Raviola
Coreografie: Mariachiara Raviola e Aldo Torta
Interpreti: Francesca Cinalli e Stefano Botti
Tappeto sonoro: Paolo De Santis
Scene e costumi: Elisabetta Ajani
Oggetti di scena: Gianni Cocomazzi
Abiti in carta: Sara Peretti
Produzione: Associazione Didee e Fondazione Teatro Coccia
Progetto La Piattaforma. Nuovi corpi, nuovi sguardi

TRUMPETS IN THE SKY di Collettivo T.I.T.S. (Norvegia)

L’inizio è da film horror. Musica elettronica ossessiva. Una figura allampanata vestita di bianco avanza a scatti inesorabile fino al proscenio nel semibuio della scena. Ondeggia. A destra e a sinistra, impercettibile come un lento metronomo che via via aumenta il ritmo, e scopre una seconda figura dietro alla prima, altrettanto inquietante. Questo Trumpets in the sky gioca insistentemente sull’inquietudine e sull’ansia. Senza pause, continuamente. Tanto che alla fine ci si immunizza, ci si stanca di questo persistere.
Il tema è l’esplorazione dell’Apocalisse, ma sembra un pretesto, per un gioco di visioni, di paesaggi e atmosfere. È un’Apocalisse che sa più di Ragnarok, la battaglia che si consuma nel crepuscolo e dove tutto viene ingoiato nella bocca vorace del lupo Fenrir. L’apocalisse di Giovanni è tutto uno sfavillare di luci abbaglianti, è il fuoco, è il sole bruciante, e l’abbagliante bianco delle vesti dell’Agnello, le stelle cadenti e il cielo che si accartoccia su se stesso. Invece siamo in una penombra da inverno boreale, dove si intravede l’azione, in una luce fredda e glaciale. Perfino nei materiali di scena c’è freddezza: tubi di alluminio, latte di conserva, biglie di vetro. Una continua tendenza al metallico anche nelle flebili luci: il led di una torcia, il neon balbettante, la tinta fredda dei fari al minimo di potenza.
Questo spettacolo del collettivo T.IT.S., giovane gruppo norvegese formato da H.Kornatova, Juli Apponen, Björn Hansson e Ann Sofie Godø, ospitato nella rassegna Permutazioni curata da Zerogrammi e Fondazione Piemonte dal Vivo, punta tutta sulla visione e sull’emozione. Paesaggi evocativi, come il freddo deserto di colonne di alluminio, o la città di barattoli invasa da legioni di biglie mentre una figura in angolo, come un sopravvissuto a una cataclisma, si nutre di pesche in conserva. Il problema di questo spettacolo è che non c’è altro. Le immagini che si specchiano sul pelo dell’acqua non nascondono un lago profondo, ma una pozzanghera creata da un’acquazzone estivo. Manca la profondità. E manca la capacità di cambiare ritmo. Tutto rimane fermo costantemente sul gradiente ansiogeno, spaventoso, come la quinta marcia in un viaggio in autostrada. Non c’è una minima variazione, un sussulto che per un attimo arieggi lo spazio asfittico della scena. Il risultato, ripeto, è che dopo mezz’ora si è stomacati e indifferenti.
Gli spazi sono ben congegnati rivelando quadri e paesaggi si sicuro impatto visivo. La luce è al limite del visibile e a lungo andare infastidisce questo dover scorgere a tutti i costi ciò che pare avvenire sulla scena. Nel complesso un lavoro con più difetti che pregi, nonostante l’ottima fattura dell’insieme, la precisione del gesto e della costruzione. Manca profondità, manca spessore e manca la variazione.

SOSTERRÒ LE RAGIONI DELLA LEGGEREZZA di Francesca Cola

Francesca Cola è un’artista che abbiamo molto seguito perché ha il raro pregio di evocare mondi toccando emozioni forti con delicatezza e raro senso del gusto. Nei suoi lavori l’immagine non si impone mai, non è mai dura, è qualcosa di flebile, debole come un ramo di salice che si piega al vento e alla corrente. Sorge sul palco e dalla scena umile e fragile come un germoglio. Compito dello spettatore è accogliere questa immagine, prendersene cura dentro di sé, lasciarla crescere. Ci vuole uno sguardo attento, accogliente. La sua arte non è un martello che si infrange sull’anima-incudine dello spettatore, è una carezza gentile, un bacio sfiorato, un sorriso sfuggente. In sosterrò le ragioni della leggerezza, per ora un primo studio in residenza nel progetto Permutazioni a cura di Zerogrammi e Fondazione Piemonte dal Vivo, non si smentisce questa attitudine, anzi, se mai, si accentua.
In scena un bambino e un adulto, una danza in erba e una formata. A lato una pietra, rotonda e pesante, grave. È un monito e un pericolo. È presente e minaccia una presenza. È una possibilità a cui sfuggire. Come la morte quella pesantezza può raggiungerci in ogni momento. Solo la fuga leggera, la danza veloce dei piedi che sfiorano la terra può darci la levità che è il sale della vita.
L’adulto e il bambino. La loro danza, l’adulto che fa volare il bambino, lo sostiene, lo libra nell’aria, ma può anche inavvertitamente farlo cadere a terra, tenerlo giù. È il pericolo della pesantezza e della gravità. E allora ci si muove, si danza, si scongiura questo pericolo nel danzare insieme, nell’essere motori di movimento gli uni degli altri, lasciandosi coinvolgere, accogliendo il movimento dell’altro, sostenendosi con leggerezza librandosi in un volo gentile.
Il bambino sta in equilibrio sulla pietra, precario, giocando con la gravità. Il bambino accoglie la pietra, la abbraccia e le sfugge allo stesso tempo. Il bambino consegna la pietra all’adulto. È lui che se ne deve occupare, è lui che deve spingere a lato della scena quel pericolo incombente.
Questa danza, piccolo saggio sull’arte della fuga dalla gravità, è accompagnato da silenzio e da musica, e quest’ultima non è mai accompagnamento ma segno ulteriore di questo gioco a nascondino con la pesantezza, come quando si spandono dolci e feroci le parole della poesia di Robert Pinsky When I had no father I made/ Care my father. When I had/ No mother I embraced order. Certo c’è anche questo nel piccolo studio di Francesca Cola, i genitori e i figli, un rapporto difficile che può far volare come schiacciare a terra. La pietra sulla scena incombe sempre. È il pericolo che sta a lato della vita di ognuno. È lì. Non si può dimenticare, bisogna sfuggirle, sempre in movimento, sempre attenti. Tempo fa intervistai Laurent Chétouane e mi colpì una sua frase:” la tragedia di essere umani si esplica nella guerra continua alla gravità”. Ecco questo è, penso, il senso ultimo del lavoro di Francesca, affrontato con profondo rigore e cura, con lo sguardo sempre rivolto ad evitare la durezza e la forza, in un elogio taoista alla debolezza, strumento principe per lasciar fluire l’azione del Tao.
C’è un solo pericolo in questo lavoro: che nello sviluppo futuro, nella lievitazione, assuma un carattere troppo zuccheroso, come un dolce troppo dolce. Come in un ottimo piatto, il segreto è il bilanciamento dei gusti, acidità e dolcezza, asprezza e salinità. Ma Francesca è un’ottima chef, saprà evitare il pericolo.