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La plaza

Il gran teatro della morte: La plaza de El Conde de Torrefiel

La prima immagine è cimiteriale e agghiacciante: un immenso memoriale di fiori e di di lumini da morto. Così comincia La plaza, ultimo spettacolo de El Conde de Torrefiel, collettivo spagnolo guidato da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert visto al Festival delle Colline Torinesi dopo il debutto italiano alla Triennale di Milano.

Questa prima scena, così semplice nella sua evidenza, è simbolo e provocazione. Quanti memoriali costellano gli eventi di questo tormentato inizio di millennio? Potremmo pensare all’11 settembre 2001 quando l’Occidente ha iniziato il secolo con quanto visto nelle pubbliche commemorazioni di vittime defunte.

Negli spettacoli de El Conde de Torrefiel l’immagine si intreccia con un testo. I due elementi solitamente non hanno se non pallide corrispondenza. È lo spettatore attraverso lo sguardo a costruire sensi e significati. In La plaza l’inizio invece si allaccia strettamente con le immagini proiettate sul fondale. È la descrizione del progetto che stiamo osservando, una nota di regia in iperbole: l’istallazione è parte di uno spettacolo agito in simultanea in trecentosessantacinque città in tutto il mondo e della durata di un anno intero. Semplicemente stiamo ammirando sono gli ultimi istanti. Siamo parte di un pubblico intenti a guardare solo questa scena in cui non succede nulla. Come dice la scritta forse la cultura è diventata la rappresentazione del niente. Ma è una provocazione. In realtà non è così. Tutt’altro. Essa è abitata dalla più ingombrante di tutte le presenze: la morte, Rappresentata, evocata, commemorata. Ma la morte di chi?

Dopo questa lunga introduzione, dove assume il ruolo di interrogarci su cosa stiamo vedendo, sulle sensazioni provate, anzi potremmo dire che si arroga il diritto di affermare con assoluta sicurezza il tipo di pensieri e sensazioni stiamo sperimentando, cala il sipario. È ora di uscire dal teatro. La performance è finita e la voce ci accompagna metaforicamente fuori in strada in un immaginario ritorno a casa.

Il sipario si alza nuovamente. Siamo in una piazza immersa nel grigio. Potrebbe essere un qualche luogo in Medio Oriente, ma anche il quartiere in cui abitiamo. Volutamente vi è una certa ambiguità. Donne con l’hijab attraversano lo spazio, chiacchierano tra loro. Molte sembrano andare a fare la spesa. In primo piano un soldato imbraccia un fucile mitragliatore. I volti dei personaggi sono coperti da una spessa calza bianca che spersonalizza totalmente l’individuo. Si vedono solo a malapena il naso, l’incavo degli occhi e la linea della bocca. Il testo proiettato, questa volta svincolato dall’immagine che si svolge sotto i nostri occhi, continua a raccontarci del nostro ritorno a casa, dei pensieri provati incontrando degli arabi seduti a un tavolino mentre bevono un caffè e fumano sigarette; del fatto che quegli uomini ci fanno paura e sono i più odiati in Occidente. A pensarci bene potrebbero essere oggetto di violenza indiscriminata.

Le immagini scorrono così come i sopratitoli nel raccontare i nostri pensieri. La scena si trasforma, le luci calano e ci conducono in un altro tempo e in un diverso luogo. Tre ragazze ubriache attraversano la piazza. Una perde un foulard e si attarda. Le altre escono di scena. La donna rimasta barcolla, si siede a terra pesantemente, infine si stende prona e si addormenta. O sviene. Non si riesce a capire. Nel mentre alcune persone attraversano lo spazio, passeggiano, non curandosi della donna. Niente più che qualche sguardo indifferente, continuando le proprie conversazioni e attività. Solo due giovani prestano attenzione. Si avvicinano. Uno prende il cellulare e riprende mentre l’altro sfila le mutandine alla donna. Questa sembra risvegliarsi. I giovani le gettano l’indumento sfilato in faccia e se ne vanno. Il testo intanto ci racconta quanto amiamo tornare a casa passeggiando e ascoltando musica dal cellulare e come questa musica modifichi il paesaggio, Gli anonimi che guardano e passano, persino i due giovinastri che si approfittano della donna, potremmo essere noi.

Le scene si susseguono fino a quella finale. Una troupe televisiva sta riprendendo un lettino su cui un telo copre una salma. I tecnici e gli assistenti allestiscono la scena e la videocamera per la ripresa. Gli attori chiacchierano. Quando tutto è pronto, entra il ciak e iniziano le riprese. Una donna si avvicina alla lettiga. Un uomo la raggiunge. Sembrano contriti. La scena si interrompe. Va rigirata da un’altra angolazione. Altro ciak. La donna rientra, la camera con carrello a seguire. L’uomo la raggiunge. Dopo un attimo di raccoglimento sfilano il lenzuolo. Appare il cadavere di una donna giovane nella sua più completa nudità. Il cadavere è l’unico personaggio a volto scoperto, interamente visibile, come se solo la morte ci togliesse dall’anonimato. Oppure il nostro occhio riesce a percepire solo il volto della vittima. Il cadavere è sotto i nostri occhi con l’evidenza plastica delle salme da obitorio nelle fotografie di Andres Serrano. La morte nuovamente riempie la scena. Il corpo viene coperto. La scena è finita e noi nel frattempo siamo giunti a casa. Il testo ha raccontato di come ci siamo seduti davanti al computer, abbiamo visto un filmato porno e masturbati. Dopo l’orgasmo ci siamo accorti che la donna che ci ha eccitato è Linda Lovelace, scomparsa ormai da qualche anno. Abbiamo goduto di un’immagine di una defunta. È ora di andare a dormire. Il sipario può calare, l’esperienza è finita.

Kantor diceva che il vero teatro parla sempre della morte. In La Plaza de El Conde de Torrefiel la Nera Signora è onnipresente, pervade tutta la scena. Fine di una cultura che non sa raccontare la vita, morte della e nella realtà quotidiana, dei rapporti umani, dei sentimenti. Si è presa tutta la scena, spazio grigio e asettico come un obitorio.

El Conde de Torrefiel ha da sempre unito il racconto di una realtà distopica a delle immagini che posseggono in sé una sorta di olimpica serenità. Immagini capaci di accostarsi al testo e deflagrare in una pluralità di sensi e prospettive. In La plaza questo stilema viene in ulteriormente sviluppato innanzitutto nel rapporto con il pubblico: non più un semplice osservatore di esperienze altrui come in Guerrilla o ne La posibilidad que desaparece frente al paisaje, ma è direttamente preso in causa, messo in discussione e costretto a rapportarsi con le esperienze che gli vengono imputate. Inoltre la quiete che pervadeva le immagini negli spettacoli precedenti si colora di una feroce crudeltà per quanto asettica e chirurgica. Il collettivo spagnolo sembra brandire una lama, non d’acciaio ma costruita con il paradosso e l’eccesso, con cui disseziona il nostro occhio, solleva le cataratte che gravano sulla nostra capacità di vedere la realtà.

Quella messa in scena de El Conde è une interpellation, come la chiamerebbe Milo Rau, ossia una domanda posta con urgenza, quasi con brutalità alla comunità riunita in teatro. Ci viene chiesto di prendere coscienza di una realtà, dei suoi possibili sviluppi e ci viene ingiunto di assumere una posizione. È un atto artistico e politico. L’arte scenica torna a essere un luogo in cui si misura il proprio tempo e la società in cui si vive, un teatro nonostante si svolga nello spazio deputato, indirizza il suo sguardo fuori dall’edificio, nella piazza del mondo dove accadono le cose. È nel rapporto con il mondo che il Teatro assume significato. Altrimenti resta teatrino, vuoto intrattenimento, corpo morto separato dalla vita.

Visto il 20 giugno 2019 al Festival delle Colline di Torino

Ph: @Els_De_Nil

El Conde de Torrefiel

EL CONDE DE TORREFIEL

Si prova sempre disagio di fronte all’apparire di altre forme di interiorità. Di fronte alle miserie che giornalmente proviamo nel nostro animo siamo fondamentalmente indulgenti. Scusiamo questi nostri momenti miserabili come passeggeri. Piccole bazzecole, defaillance, perversioni, pensieri osceni che appartengono solo al nostro intimo, di cui ci possiamo, eventualmente, vergognare in privato e di cui nessun altro è testimone.
Altra cosa è quando questo perverso legame con se stessi e le proprie debolezze viene dispiegato e reso evidente come processo comune all’intera specie. Finché le miserie sono solo personali, in qualche modo è facile scusarle, quando è l’intera specie a condividere una condizione di miserabilità, la questione si fa più spessa, ci si sente oppressi, si è costretti a farci i conti.
Gli spettacoli de El Conde de Torrefiel ci portano molto distante dall’assunto umanista di Pico della Mirandola: l’uomo tutto è tranne che un grande miracolo. È solo, impotente, ossessionato dalle sue perversioni, senza progetto. Ecco la possibilità che sparisce di fronte al paesaggio. Se l’uomo singolo può in qualche modo illudersi di essere grande, sciolto nella massa della specie, risulta nient’altro che un cumulo di oscene piccolezze.
In entrambe le piéce viste al TNT festival di Terrassa (Guerrilla e La posibilidad que desaparece frente al paesaje) si assiste ad un medesimo processo. Sulla scena delle azioni. Dei tableaux vivants potremmo dire. Immagini costruite, equilibrate, piene di gusto, a volte ironiche, sempre estetiche. Le azioni nulla hanno a che fare con i fatti narrati. Eppure alcune relazioni si instaurano. Il nostro cervello non può fare altrimenti, ma per ognuno, tale relazione è differente e personale.
Dei testi vengono sovrapposti alle azioni a volte in voice off, altre volte solo proiettati come un sottotitolo. Nel testo momenti vissute, situazioni limite seppur comuni a molti. Nel testo l’apparire del fondo oscuro che grava sull’animo umano. Il voice off racconta cose che non sono in scena, sono appunto oscene. Poco importa che queste storie siano vissute da Michel Houellebecq, che in una camera d’albergo paga una prostituta per parlare e che in questo suo conversare sostenga l’impossibilità delle arti di compiere alcunché di rivoluzionario, né che siano vissute da un anonimo ragazzo che non può astenersi più di quattro ore dal masturbarsi mentre si infila oggetti nell’ano. L’effetto nel pubblico è il medesimo: ci sentiamo un poco presi in causa e soprattutto ci sentiamo dei voyeur che assistono a qualcosa di proibito. La sensazione che si prova è di disagio. In primo luogo perché le storie sono presentate in maniera asettica, senza alcun pathos, sono semplicemente lette o scritte in un silenzio assordante. Non viene espresso giudizio quindi non viene presentata una moralità, una parte buona e una cattiva. Il tutto è amorale, non ci sono giudici, siamo tutti tremendamente uguali. In secondo luogo perché di fronte a questo cumulo di grettezza ci si sente un po’ come se non ci fosse speranza alcuna di veder l’altezza.
Da queste performance si esce scossi, urtati nel profondo e non può essere altrimenti proprio perché si è venuti a contatto con il magma oscuro che opprime il nostro essere umani. Tutti ugualmente immersi in un’oscura mota. Senza scampo.

Intervista a Tanya Beyeler regista de El Conde de Torrefiel

EP: Partiamo da Guerrilla: da una parte un’atmosfera tranquilla dall’altro un fondo oscuro e inquietante che emerge.
TB: Stiamo lavorando sull’idea della contemplazione del paesaggio. Paesaggi interiori, paesaggi esterni. Vogliamo lavorare sulla dicotomia tra mondo individuale e il mondo diluito nella massa. Abbiamo lavorato a diverse Guerrillas, a diversi episodi in cui ci sono parecchie persone in scena che fanno la stessa cosa mentre si proiettano testi in relazione a cose molto intime. Dunque quello che si vede, il paesaggio, è qualcosa di molto tranquillo, ozioso, mentre il testo parla di qualcosa di molto più oscuro, molto più violento. Si parla di esperienze di vita, ricordi, ideologie e forme di pensiero il tutto molto relazionato con la perversione, o con quello che si considera perversione.

EP: Parlando invece de La posibilidad que desaparece frente al paisaje qual è l’intenzione? Come è stato realizzato?
TB: Noi abbiamo cominciato il percorso con Guerrilla e perché volevamo molta gente in scena. Poi per motivi logistici, economici e di produzione non p stato possibile. Quindi la piéce finale, il risultato di questo processo di un anno derivato da tutte queste azioni di Guerrilla è una performance con quattro attori. I temi che si sono lavorati, ciò che si trova nei testi e l’esperienza dello spettatore è un po’ sempre la stessa: contemplare un paesaggio nei suoi vari livelli. Noi volevamo lavorare su questo tipo di contemplazione: star seduti, un po’ voyeur, a guardare qualcosa che normalmente non hai la possibilità di guardare. Normalmente in scena c’è un tipo di conflitto, una tensione, noi abbiamo scelto di mettere il conflitto da un’altra parte. La scena è quindi molto tranquilla, rilassata, non c’è un’urgenza patente. É il testo che mantiene una tensione.

EP: Possiamo dire che in entrambi i lavori si mantengono come due linee differenti: da una parte l’azione, dall’altra il testo che procedono paralleli e indipendenti?
TB: Sì di solito la compagnia lavora in questo modo. Abbiamo cercato di spostare il conflitto all’interno dello spettatore. Tutto succede nell’animo dello spettatore. In scena è tutto molto tranquillo. È assolutamente un’esperienza estetica. Il conflitto risiede tutto nello spettatore che assiste e legge o ascolta i testi.

EP: A partire da questi lavori qual è il processo che intendete realizzare nel futuro?
TB: Avere tanta gente in scena. È questo il nostro obbiettivo. Per ora questo è complicato per ovvi motivi. La Spagna è come l’Italia. La cultura non è al primo posto, né al secondo e né al terzo. Comunque questo è sicuramente il prossimo passo: allestire degli spettacoli con tanta gente in scena.

EP: Qual è secondo te la funzione del teatro nella contemporaneità?
TB: Io penso che il teatro stia ancora cercando un posto nella contemporaneità, nella storia o nell’umanesimo contemporaneo. Quello che io vorrei è assolutamente un ponte, un passaggio, una possibilità di libertà mentale. È questo è importante in un mondo che è abbastanza saturato, che ha bisogno di tante regole, dove tutto è molto compartimentato. È bene avere un luogo di libertà se non fisica almeno mentale.
Il valore comunque delle arti in vivo è che sono, appunto in vivo, dove un gruppo selezionato di persone condivide uno spazio e un tempo e assiste a qualcosa di irripetibile.