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Orestes in Mosul

Orestes in Mosul: il realismo globale di Milo Rau

A Romaeuropa Festival è andato in scena in prima italiana Orestes in Mosul di Milo Rau. L’incontro tra il regista svizzero e la tragedia classica era da tempo atteso e, in un certo senso, inevitabile. L‘Orestea in particolare è stata più volte evocata, se non direttamente citata, nei suoi lavori. Pensiamo ai vari processi (The Moskow Trails, The Zurich Trials, The Congo Tribunal) dove il tribunale diventa la forma teatro necessaria per ricostruire l’agorà, o alla citazione diretta in Empire. Il legame con il teatro tragico greco in realtà risiede soprattutto nel recupero della sua funzione: riunire la comunità per affrontare una crisi e attraverso la rappresentazione tentare di risolverla o semplicemente prenderne coscienza. In un’intervista concessa nel 2014 Milo Rau affermava: “Cerco di ritornare alle radici del teatro: un processo sulla scena davanti a un pubblico, un giudizio su un fatto di importanza morale capitale”. (leggi l’intervista completa su www.psychodreamtheater.org/rivista-passparnous-ndeg-22—teatro—intervista-a-milo-rau—a-cura-di-enrico-pastore.html ).

Questo è decisamente il presupposto a Orestes in Mosul.

Anche il conflitto siriano era da tempo nei suoi interessi fin dal 2016 quando ha compiuto il primo viaggio nell’area durante la creazione di Empire. Non poteva essere altrimenti visto l’impegno di Milo Rau nell’affrontare gli effetti e le conseguenze delle politiche postcolonialiste dell’Occidente di cui la guerra civile in Siria è uno dei più eclatanti esiti. Come riassume all’inizio di questa Orestea l’attrice Susana Abdulmajid, la lotta intorno al controllo di Mosul ha inizio con l’Impero Britannico e giunge fino ai nostri giorni sempre per lo stesso motivo scatenante: il controllo delle risorse petrolifere che abbondano nella regione.

In quest’opera dunque si intrecciano la Storia, le singole biografie degli attori e il mito di Eschilo, e tale viluppo abbraccia passato, presente e futuro non solo di quella martoriata regione del Medio Oriente ma dell’intero Occidente e con esso le sue scelte politiche ed economiche. Il gioco di rimandi tra il vissuto personale, gli eventi di cui si è stati testimoni in prima persona o tramite i mass media, e la sanguinosa vicenda della famiglia di Agamennone è costante, indissolubile, straziante nell’evidenza in cui il ciclo del sangue, della violenza e della vendetta non si sia mai fermato nel corso dei secoli. Gli attori in scena e in video sono dunque triplici specchi nell’essere sia personaggi (Agamennone, Clitennestra, Ifigenia o Cassandra), sia portatori di un vissuto personale e nello stesso tempo pedine sul grande scacchiere della storia. Ciò è soprattutto evidente in Kitham Idris Gamil: è Atena in scena, la dea risolutrice della tragedia nel processo finale, mentre nella realtà della sua vita è una sopravvissuta al conflitto, vedova di un marito ucciso dai miliziani di Al Qaeda, all’inizio sostenitrice del califfato e in seguito profuga in Turchia per proteggere le proprie figlie e ora volontaria della Croce Rossa nei campi profughi nel tentativo di pacificare e aiutare le famiglie dei reduci dell’ISIS. Altro esempio: La Sentinella, colui che attende l’arrivo di Agamennone che segna la fine della guerra, personaggio impersonato da un fotografo che a rischio della propria vita ha continuato, nella speranza di una pace futura, a documentare la vita e le atrocità durante il periodo in cui Mosul era capitale del Daesh o Stato Islamico.

Orestes in Mosul crea anche una tensione dialettica tra il qui e ora sui palcoscenici occidentali, e laggiù tra le rovine dell’antica Ninive. Questo avviene soprattutto a causa del fatto che i governi europei hanno negato il visto di ingresso alla troupe di Mosul. Così in scena abbiamo un legame tra quanto avviene ora davanti ai nostri occhi e ciò che appare in video girato nella città divenuta tristemente famosa come sede del califfato. Occidente e Oriente legati da uno stesso destino tragico, entrambi attori di una vicenda che sembra non avere termine. Il legame però non traspare solo da questa scelta frutto delle contingenze: la storia dell’Atride reggitore di popoli è anche la vicenda di un re greco reduce da un conflitto in Asia dove la città di Troia è stata rasa al suolo. Il suo ritorno riaccende una spirale di sangue iniziata prima della partenza degli eserciti greci con il sacrificio della figlia Ifigenia. Ancora una volta mito e presente storico si intrecciano indissolubilmente: la guerra è oggi come allora l’origine dell’omicidio e della violenza e non sembra esservi rimedio.

In questo contesto si rivela anche la funzione dell’arte teatrale nel pensiero di Milo Rau: l’arte come azione di svelamento attraverso la rappresentazione e il concetto di realismo. Su quest’ultimo aspetto è necessario sgombrare il campo da un fraintendimento comune rispetto ai re-enactment: essi non sono la ricostruzione meiningeriana di ciò che è già avvenuto nella realtà. Non si richiede all’osservatore di credere a un meccanismo di finzione anche perché in un’epoca di deepfakes in cui nulla appare essere autentico e vero, tale pretesa sarebbe quanto meno risibile. Ciò che si ricostruisce in scena e attraverso la scena è invece un’esperienza disvelante. Attraverso una ricostruzione fittizia si comprendono i meccanismi agenti nel fatto storico realmente avvenuto. Come in Hate Radio non ci si trova di fronte a una vera trasmissione di Radio Milles Collines, così alcune scene in questa Orestea non sono identiche a un fatto reale documentato.

Come ha spiegato lo stesso Milo Rau si sperimenta da una parte la meccanica della violenza, ossia si esperisce cosa siano in realtà i sei minuti che necessitano per uno strangolamento, e dall’altra si prova ciò che il regista svizzero chiama “sadismo dell’osservatore” di fronte a un fatto di violenza. Ciò è particolarmente evidente proprio per quanto riguarda le esecuzioni: sia quelle per strangolamento, sia quelle colpo di pistola alla base del collo, sono infatti raccontate da Johan Leysen insieme al fascino e al disgusto provato nel vederne decine in video. Quando avviene la ricostruzione noi già sappiamo quello che sta avvenendo, notiamo i particolari che corrispondono alla descrizione, e immancabilmente cadiamo nella trappola, proviamo anche noi spettatori il medesimo disgusto e fascino, e nello stesso tempo ci chiediamo perché questo avvenga, perché sia necessario. Questa domanda è fondamentale, essa è il pungolo, quell’interpellation di cui parla Milo Rau posta alla base di tutto il suo teatro.

Per concludere rileviamo un altro tratto caratterizzante e distintivo di questo tipo di messa in scena: l’essere “concretamente utopistico”. In Orestes in Mosul, così come in The Congo Tribunal, il tribunale finale, – dove tramite l’intervento di Atena, si stabilisce il ritorno a una pace fittizia tramite l’intervento della legge e dello stato come unico soggetto abilitato a giudicare le colpe -, a Mosul, come a Bukavu, non è ancora una realtà ma qualcosa di nebuloso in un futuro speriamo non lontano ma di certo di là da venire. La guerra è per il momento solo sopita. Sotto le ceneri di una città che cerca di ricostruirsi ardono ancora le braci della violenza, non solo a causa delle centinaia di jihahisti dormienti appartenenti all’ISIS, ma soprattutto nel tragico destino delle loro famiglie imprigionate nei campi profughi di cui nessuno sembra volersi occupare. Nonostante tutto questo il perdono o una pacificazione è non solo evocata ma cercata. Benché gli appartenenti alla giuria siano tutt’ora incapaci sia di perdonare che di condannare senza appello, sorge il desiderio di cambiare la realtà rappresentata. Milo Rau cerca in qualche modo di forzare la realtà, di costringerla a prendere una decisione riguardo a se stessa, e questo proprio tramite un realismo solo superficialmente accostabile a una semplice imitatio naturae. Il regista svizzero sembra dirci con forza che per creare i presupposti di un cambiamento bisogna essere ferocemente crudeli con se stessi, osservare le cause di tanta barbarie e solo allora, dopo questo onesto e disincantato vedere senza veli, operare per ottenerlo.

Visto al festival Romaeuropa il 23 settembre 2019

Ph:@Piero Tauro

Leggi anche: http://www.enricopastore.com/2018/03/09/intervista-milo-rau-la-scena-sguardo-critico-sul-mondo/

Milo Rau

EMPIRE di Milo Rau ovvero la coscienza delle funzioni del teatro

Ho incontrato per la prima volta Milo Rau qualche anno fa al Festival de la Batie a Ginevra. Mi ha subito colpito la sua lucidità e la sua coscienza di cosa fosse il teatro, le sue possibili funzioni, la sua valenza politica e sociale.

Recentemente l’ho incontrato a Venezia nella sede del Consolato Svizzero per la presentazione del suo The Congo Tribunal, in anteprima nazionale, e ancora una volta abbiamo avuto una lunga conversazione sulle funzioni della scena.

Per Milo Rau il teatro è una forma di indagine dei punti critici e focali della nostra civiltà occidentale. Esplorando i limiti della scena sonda le criticità della nostra società. La crisi affrontata dalla scena, con i mezzi propri del teatro, insieme alla comunità/pubblico che è chiamata a prendere posizione.

Questo avviene non solo nei suoi lavori in cui si richiama esplicitamente la forma tribunale, e mi riferisco a The Moskow Trials oltre che a The Congo Tribunal, ma anche in Five Easy Pieces, Hate Radio, The Breivik’s Statement, Le 120 giornate di Sodoma e, ovviamene, in Empire, in questi giorni in scena al Festival delle Colline Torinesi.

Questo utilizzo del teatro come strumento di analisi di una crisi richiama da una parte la tragedia greca (non dimentichiamo che l’Orestea sancisce la nascita di un tribunale) e il teatro antico e rituale, dall’altra la tradizione di teatro politico di matrice tedesca non solo brechtiana.

Certo la formazione sociologica e antropologica di Milo Rau lo indirizza su questa strada, ma nell’adottare la forma teatro cerca di applicare all’etimo antico una funzione attuale e moderna. Il luogo da cui si guarda, il teatro, è un supporto insostituibile di analisi sociale e politica delle crisi. Innovazione che si innesta nella tradizione.

La coscienza di Milo Rau di una funzione fondante del teatro è premessa necessaria alla sua efficacia e qualità. Materiali e tecniche si adoperano per esaltare una funzione che è sempre politica e non solo artistica o estetica. Analisi della realtà per essere in grado di agire sulla realtà. Presa di coscienza della crisi per superare la crisi.

Empire è esattamente questo. A cosa è dovuta la migrazione? Chi è colui che giunge alle nostre frontiere e quali storie porta con sé? Quattro attori, un siro-curdo, un siriano, una rumena di origini ebraiche, un greco e quattro situazioni estreme: la guerra civile in Siria, la Romania di Ceausescu, la Grecia della Dittatura dei Colonnelli. Tutti e quattro sono attori e tutti sono emigrati da una situazione critica, di guerra o di regime dai propri paesi d’origine.

L’esperienza teatrale e l’esperienza di vita dei quattro attori sono lo specchio con cui guardare alla storia e al fenomeno migrazione. Quando una persona lascia il suo paese cosa e chi abbandona? Cosa lo spinge a un gesto estremo di sradicamento? Cosa avviene al suo arrivo in un nuovo contesto che spesso è ostico alla sua integrazione? Cosa trova al ritorno dall’esilio?

Queste le domande che vengono formulate in Empire, questioni che vengono affrontate con i racconti delle proprie esperienze di vita. L’astrattezza della guerra civile siriana che ci appare con immagini di incredibile e insostenibile violenza alla TV sono distanti e digitali. Le vite dei testimoni sulla scena è reale, presente, vera e vitale.

La cella della prigione di Palmira dove Remo è stato incarcerato, la voce dell’ultimo messaggio della madre di Rami, morta senza poter essere abbracciata per un’ultima volta, i ricordi degli spari sulla folla durante la rivoluzione rumena che ha portato alla caduta di Ceausescu, sono elementi di realtà che stanno di fronte a noi e che ci obbligano a una riflessione sul fenomeno dei migranti al di fuori di una pericolosa astrazione.

Ma vi è anche una sorta di distacco brechtiano. Quando Rami ci mostra le foto dei morti torturati nelle prigioni di Bashar Al Assad tra cui gli sembra di riconoscere il fratello Abdo scomparso da anni, avviene una sorta di transfert con il pubblico. Quel fratello non può in fondo essere anche nostro fratello? Quello che è avvenuto a Rami non potrebbe avvenire anche a noi? Quell’incertezza nel riconoscere un congiunto è straziante ma anche significativa. L’esperienza di Rami potrebbe essere anche la nostra.

Così come il ritorno a casa di Agamennone dopo la guerra di Troia, parole tratte dall’Orestea e che chiudono Empire. L’eroe greco ringrazia gli dei per la vittoria e il ritorno, ma non sa che un fosco destino si sta addensando sul suo capo. Dopo quelle parole, inizia la tragedia. Nel lontano passato come oggi il cielo potrebbe caderci in testa in ogni momento. E se non vi è più un fato inviolabile, certo resta la colpa della responsabilità dei crimini e delle guerre, e di come noi trattiamo le vittime dei conflitti che cercano aiuto e asilo dopo aver tutto perduto.

In questi giorni dove sembra che le masse anonime dei migranti non siano altro che un fastidio da eliminare, si perde di vista che una massa è fatta di uomini, che il loro partire è generato da dolore, sofferenza, perdita, distruzione, e che accogliere l’ospite è dovere di ogni uomo perché in lui potrebbe essere nascosto un dio.

Milo Rau esplora la scena sondandone i limiti. Ci conduce verso l’estremo con una delicatezza non priva di fermezza. Ci obbliga a guardare l’orrore, a prenderne coscienza e a prendere partito. Non si può restare indifferenti. Bisogna agire e scegliere.

Il teatro di Milo Rau è teatro del reale che incide sul reale. È uno dei pochi artisti in Europa che ha questa capacità di incidere che deriva da una coscienza delle possibilità e delle funzioni del teatro. Conosce il suo mezzo e sa come assoggettare le sue leggi affinché possa parlare al mondo del mondo in maniera efficace.

La sua non è una fredda analisi. È qualcosa di dirompente che tocca l’animo e porta a una commozione struggente. Quella madre che muore, quel fratello torturato, quella famiglia che si è perduta potrebbe essere la nostra. È la nostra. Ne siamo responsabili. Quei migranti su una nave non sono in crociera. Scappano da un orrore che è causato dal nostro benessere.

In The Congo Tribunal questo è palese. Le miniere di Coltan sono la causa dei conflitti e dei massacri. Ogni volta che mandiamo un messaggino su What’s up dovremmo esserne coscienti. Il rischio è perdere l’umanità. Milo Rau ci porta a riflettere su questo, ci fa prendere coscienza, ci induce a ritrovare l’umanità che stiamo perdendo.

Ph: @Marc Stephan

Milo Rau

INTERVISTA A MILO RAU: la scena come sguardo critico sul mondo

Ho conosciuto Milo Rau al Festival de la Batie a Ginevra nel 2015. Avevo appena visto Hate Radio lo spettacolo dedicato al genocidio in Ruanda. Lo intervistai nella hall del suo albergo e lui si dimostrò molto disponibile e generoso. Avevo mille domande perché il suo teatro ha una forza tale da scuotere l’animo di chi guarda da renderci confusi. Il teatro di Milo Rau interroga le nostre coscienze e lo fa essendo radicalmente prossimo all’etimo della parola: Teatron il luogo da cui si guarda.

Da quel giorno ho seguito il suo lavoro con attenzione particolare convincendomi sempre più della necessità di questo tipo di opere che spesso toccano l’estremo e vengono difficilmente digeriti da pubblico e critica. Faccio soprattutto riferimento al suo ultimo lavoro presentato in Italia per esempio, Five easy pieces, in cui i bambini raccontano la vicenda di Dutroux il mostro di Marcinelle e che ha vinto il premio Ubu per miglior spettacolo straniero.

E sono ancora più curioso di vedere il suo ultimo lavoro Le 120 giornate di Sodoma ispirato dall’ultimo lavoro di Pasolini nonché dall’opera del Marchese De Sade e messo in scena con ragazzi down.

Il teatro di Milo Rau è sempre un’esplorazione dei limiti della scena, di cosa è possibile fare, di cosa ci si può spingere a dire o mostrare attraverso il dispositivo di rappresentazione.

L’incontro con Milo Rau da cui scaturisce questa intervista è avvenuto a Venezia a palazzo Trevisan degli Ulivi sede del Consolato di Svizzera dove si svolgeva la rassegna Cinema Svizzero a Venezia organizzata dall’amico Massimiliano Maltoni all’interno della quale è stato proiettato in anteprima nazionale il film The Congo Tribunal del 2017.

Enrico Pastore: Come si inscrive la tua attività cinematografica nel quadro più complesso del tuo progetto teatrale?

Milo Rau: c’è indubbiamente una relazione ma è presente anche una notevole differenza. Ho già lavorato sia per il cinema che per la TV realizzando dei documentari tratti da miei spettacoli. In particolare The Congo tribunal è nato come un lavoro live realizzato tra il Congo e la Germania nel 2015. Come ben sai una performance teatrale è legata al qui ed ora, si svolge una volta sola o per un tempo limitato. La versione cinematografica del progetto è diventata quindi uno strumento per far sì che coloro che non potevano fisicamente partecipare all’evento potessero in qualche modo accedervi attraverso un documento riproducibile ovunque.

Enrico Pastore: Parlando di The Congo Tribunal: in che modo il film ha interagito o influito sulla realtà dei fatti di questo paese così ricco e così travagliato?

Milo Rau: Il tribunale che prende vita come performance e in seguito come film è simbolico. Benché ci sia un vero giudice della corte dell’Aja, vi sia un vero procuratore e le vittime siano reali, il tribunale non ha un vero potere perché non formalmente istituito. In Congo vengono compiuti decine di massacri legati allo sfruttamento incondizionato delle sue risorse naturali e noi ne abbiamo scelti tre particolarmente significativi perché compiuti proprio a causa di motivi economici. Abbiamo raccolto testimoni e vittime e gli abbiamo chiesto di partecipare alla messinscena di questo tribunale simbolico. Il film realizzato è stato poi fatto vedere varie volte in Congo e ha sempre generato molto scalpore nell’opinione pubblica che ha sempre attribuito le responsabilità di questi crimini alle multinazionali. A causa di queste montanti proteste si sono dimessi due ministri del governo e questo sta a testimoniare l’incredibile potenza e l’enorme impatto che l’arte può avere sulla realtà.

Enrico Pastore: Benché sia un film documentario assume la forma teatro. Vi sono i giurati, i testimoni, la corte e il pubblico: ognuno ha la sua parte e partecipa al rito del teatro e ognuno indossa la maschera che ritiene gli sia confacente. In qualche modo pensi che il tuo film sia anche un documentario sulla forza del teatro come sguardo sul mondo che permette a una comunità riunita di confrontarsi con le crisi che si trova ad affrontare?

Milo Rau: Quello che ho cercato di fare con questo film sono essenzialmente due cose: da un parte cercare di avere un impatto sulla realtà politica ed economica; dall’altra descrivere la realtà. Com’è possibile realizzare un film o una performance che parli delle guerre in Congo? E com’è possibile fare un film che tratti allo stesso tempo anche lo sfruttamento delle miniere in Congo? E come dare in un film spazio alle vittime per raccontare le loro storie? Il Tribunale diventa quindi un format in cui è possibile trattare tutti questi argomenti, farli interagire, vedere come un aspetto sia legato all’altro, perché tutti i protagonisti sono riuniti in un unico luogo: il tribunale/teatro. E questo ovviamente si ricollega alle origini proprie del teatro greco antico dove si può riscontrare la nascita della forma tribunale. Pensiamo a l’Orestea o ad Antigone, dove le vicende degli eroi sono legate indissolubilmente alle questioni che riguardano la legge e la sua applicazione. Il tribunale nasce a braccetto con il teatro in qualche modo.

Enrico Pastore: Nel tuo teatro cerchi sempre in qualche modo di sperimentare i limiti di quello che si può fare in scena e di quello che il pubblico potrebbe sopportare, Penso soprattutto a Five easy pieces e a Le 120 giornate di Sodoma. Cosa ti spinge a forzare questi limiti? Il teatro dee essere un gesto estremo per essere significante?

Milo Rau: Sia Five easy pieces che Le 120 giornate di Sodoma hanno un ruolo chiave nel mio percorso creativo. Sono due lavori che sondano i limiti e si pongono la questione di come superarli, ma soprattutto indagano la questione su cosa sia la catarsi al giorno d’oggi. Ne Le 120 giornate di Sodoma ci sono in scena dodici ragazzi portatori di handicap e affetti dalla sindrome di Down che subiscono delle autentiche torture. Ma questo accade anche nella vita quotidiana in virtù della loro condizione a causa di una società che non considera pienamente i loro diritti e le loro esigenze. Allora sorge una domanda: com’è possibile che non tolleriamo vedere certe cose sulla scena eppure le sopportiamo tranquillamente nella vita di ogni giorno? Cosa dice questo di noi come spettatori e come società civile? Cos’è veramente scandaloso? E lo stesso discorso si può dire anche per Five easy pieces dove sono i bambini a raccontare la vicenda di un noto pedofilo, ma più in generale affronta il tema della violenza che gli adulti esercitano sull’infanzia.

Enrico Pastore: Nei due ultimi tuoi lavori teatrali Five Easy Pieces e le 120 giornate di Sodoma lavori con attori non convenzionali, bambini e ragazzi down, per trattare temi estremamente forti e sconvolgenti. Come hai lavorato con loro durante la creazione, che tecniche hai utilizzato?

Milo Rau: Five easy pieces è stato il mio primo lavoro in cui ho lavorato con dei bambini. Nelle opere precedenti avevo sempre lavorato con attori professionisti o con esperti di procedure legali nel caso dei processi (Es. The Moskow trails). Lavorare con i bambini è molto difficile in quanto fanno fatica a concentrarsi, non sanno veramente cosa sia recitare né che tipo di relazione instaurare con il pubblico. Ci sono voluti mesi di prove molto lunghe nei fine settimana per riuscire a creare un metodo che fosse efficace. E tutto questo lavoro mi ha fatto pensare molto a cosa vuol dire essere un regista, cosa sia una regia teatrale e cosa sia la recitazione. La regia in qualche costruisce relazioni di potere e di abusi per poter raccontare una storia e questo non ricorda in qualche modo ciò che fa un pedofilo? Five easy pieces è un lavoro che pone molte questioni sulla regia e le sue modalità.

Dopo aver affrontato il lavoro con i bambini e in seguito con i ragazzi down ne le 120 giornate di Sodoma penso che il mio modo di dirigere sia cambiato e questo proprio a causa delle domande che mi sono posto durante la lavorazione di queste due opere per me così importanti.

Enrico Pastore: Perché hai deciso di confrontarti con Le 120 giornate di Sodoma? e in che modo ti sei confrontato con l’ultimo lavoro di Pasolini?

Milo Rau: Sono da sempre un grande estimatore dell’opera di Pier Paolo Pasolini. Ricordo quando ho visto il film Le 120 giornate di Sodoma. Ero a Parigi come studente e lo vidi una domenica pomeriggio. Rimasi scioccato dalla sua modalità quasi mistica di raccontare il fascismo.

Pasolini aveva una visione molto democratica della recitazione utilizzando nei suoi lavori attori professionisti come la Magnani o Totò a fianco di attori non professionisti. E in parte è questo che ho cercato di fare.

L’opera di Pasolini descriveva anche una società e le sue modalità, e io nel rapportarmi con il suo ultimo lavoro ho voluto in qualche modo porre la questione di che tipo di società siamo diventati.

Ho deciso di affrontare Le 120 giornate di Sodoma con dei ragazzi down perché nella società borghese svizzera e tedesca sono come dei feticci. Sono adorati quanto sono su un palco o in un film, ma sono sostanzialmente ignorati nella vita reale.