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odio

ODIO Fattoria Vittadini coreografia Daniel Abreu

Una danza stupenda. Ammaliante. A volte immagini di una grazia e purezza struggenti. In certi istanti quelle donne nude velate da quelle lunghe stoffe bianche e pelose come una pelliccia, quelle donne che intrecciano ii loro corpi come serpenti, o combattono feroci come menadi, sono talmente belle da commuovere.

Odio. Questo il titolo dell’opera. Odio? Ci domanda subito dopo lo schermo dopo aver affermato il titolo. E infatti è la domanda che mi pongo all’uscita. Non dovrei provare questo fascino, questa sorta di pace che sempre mi proviene quando vedo una cosa bella. Eppure è quello che provo.

Incominciamo dal principio. Tre capitoli: il cacciatore, il nulla, successo religione e morte. In ogni capitolo si declina l’odio in tutte le sue possibili varianze. Proprio in tutte? Non credo. Sembra quasi che si voglia tralasciare gli estremi. Volutamente. Sembra che l’intenzione sia piuttosto di far trasparire la fascinazione dell’odio, soprattutto in quelle aree di confine, contigue in cui, sul filo sottile di un funambolo, un sentimento può in un istante cadere nel baratro del suo contrario. La fascinazione della caduta, l’attrazione nell lasciarsi cadere nell’abiezione, quello che Poe chiamava il demone della perversione.

E questo è molto evidente nella prima parte: il cacciatore. Il legame tra la caccia, l’assassinio e l’erotismo si potrebbe dire è la cifra del mondo greco antico. Calasso in un suo recente e stupendo libro ne mette in luce gli aspetti con la sua lucida e evocativa scrittura. Ma qui siamo più a un livello di superficie, di evidenza. C’è più sesso e lotta che vera e propria caccia. E un trapassare tra passione e violenza spesso commiste. Abbandono e forza bruta, Rapina, lascivia, sadomasochismo. L’abbandono al dolore che dà piacere ma conferisce il potere di fermare il gioco.

Nella seconda parte, il nulla, sembra più un girare in tondo al problema, mai freccia che colpisce il bersaglio, quasi un perverso e aggraziato girotondo mentre sullo schermo il catalogo delle abiezioni: stupro, violenza, intolleranza, pregiudizio e via dicendo. Non c’è perforazione solo galleggiamento. Ci si sofferma sulla superficie dello specchio affascinati dall’immagine che ne risulta. Quasi uno specchio d’Armida che soggioga la mente. L’ultima parte, quella che si richiama a successo, morte e religione, è quella più affascinante. I tre corpi delle danzatrici si intrecciano come serpi, accordi e sincronie di una trimurti nuda e splendente, in quelle luci basse e soffuse. Nessuna inquietudine, nessun fulmine a scuotere la terra. E la frase di Nietzsche: “le persone che più hanno amato l’uomo sono quelle che più gli hanno fatto danno. Hanno voluto da lui l’impossibile, come tutti gli amanti”.

Sembra un segno di resa. Come a dire che questa è la nostra natura. Odiamo perché è nel nostro DNA. Il lato oscuro della forza ci attrae e ne saremo sempre schiavi. Cioran esprime da sempre un concetto simile. Per lui l’amore e la santità sono delle aberrazioni nell’animo umano. Per raggiungerle bisogna sforzarsi e molto. L’odio è molto più affascinante nella sua semplicità. Questo mi è giunto. E mi chiedo se questo sia la sensazione che doveva arrivarmi da uno spettacolo che parla dell’odio. Non che ci sia qualcosa di giusto o di sbagliato. Anzi. Mi guardo bene dal dire che l’arte, in qualsiasi forma appaia, debba essere giusta o sbagliata o che ci sia in essa del giusto e dello sbagliato. Non è compito dell’arte dare giudizi. Majakovskij scriveva che l’arte non è lo specchio del mondo ma il martello con cui forgiarlo. Ecco in quest’opera, seppur magnifica, seppur minuziosamente cesellata come un bronzo di Donatello, mi è mancato il martello. La fascinazione, l’ammaliamento, mi lasciano distante ammiratore. Ne subisco il fascino distaccandomene subito.

Nel buddismo tibetano le immagini più orrorifiche sono entità benevole perché conducono al distacco e alla verità. Quelle più suadenti e meravigliose sono demoni che conducono alla fascinazione de e per la vita. Ecco, Odio, mi sembra proprio questo tipo di apparizione. Bella, stupenda, persino accattivante, anche quando tocca la perversione. Affascina ma non incide. È come il bacio voluttuoso di un succubo, ti ama fino a sfinirti, lasciandoti vuoto.

nicht schlafen

NICHT SCHLAFEN di Alain Platel

La prima reazione a caldo di fronte a questo lavoro di Platel è stata perplessità. Mi sono chiesto per alcuni giorni da dove derivasse questa sensazione. Mi sono dato alcune risposte. Comincerei da Kandinsky in quale scriveva: “In arte 1 più 1 da 0, non due”. Con queste parole intendeva che ribadire il concetto, dire due volte la stessa cosa, annullava il segnale. Nicht Schlafen mi sembra che ribadisca per tutta la durata dell’opera lo stesso identico messaggio: sotto la patina di civiltà di cui si ammanta l’Europa, si agitano inquietudini, incubi, incertezze che per quanto si cerchi di tenere sotto controllo increspano l’acqua limpida. Sotto la superficie si agitano correnti estremamente pericolose. E questo lo si può sentire fin da subito, dall’inizio cantato, lieve, dolce, estremamente suggestivo seguito da un lungo momento di lotta, dove i danzatori furiosi, si stracciano le vesti a vicenda. E lo si può desumere anche dal continuo utilizzo delle musiche di Mahler, il quale facendo convivere la classicità sinfonica della tradizione viennese, con le dissonanze e le rotture armoniche, esprime più di ogni altro compositore quel lento sgretolarsi della civiltà europea alla soglia della Prima Guerra. Quella dolcezza melanconica di certi movimenti, è costantemente attraversata da segnali di allarme. La musica di Mahler è come il canto di Rutilio Namaziano, il viaggiatore che attraversa l’impero in fiamme e ne canta l’inevitabile decadenza insieme allo struggimento per la sua scomparsa.

Il teatro, ma potremmo allargare il discorso a ogni arte scenica, serve a ricordarci che il cielo può caderci in testa in ogni istante. Così diceva Artaud. E in questo momento storico niente è più importante di quest’aspetto. Se le arti hanno uno scopo, è quello di mettere a nudo il mondo lasciando libero chi guarda di riflettere e prendere decisioni.

Ora però il problema è che questo messaggio resta pressoché costante per tutta la durata dell’opera. Mahler resta costante. La lotta violenta e la dolcezza della danza si alternano in un battito costante che non tocca mai gli estremi. Tribalità e classicità, movimenti di insieme e rotture dell’equilibrio, tutto si alterna come un movimento di metronomo, alla lunga ci si abitua.

Ma non solo questo mi ha creato perplessità. La scena è forte. Cavalli e un bue, riversi, morti, a ricordare la mattanza, quasi una meditazione sul cadavere. Alcune scene sono potenti per violenza. Non solo la lotta, ma anche l’amplesso con il corpo morto del cadavere, o l’infierire sul corpo cristico del danzatore da parte del gruppo. Eppure si trapassa da questo a momenti più distesi come se niente fosse. Il danzatore che si fotte il cadavere, rientra tranquillamente nel gruppo, senza che niente turbi l’insieme. Ora normalmente questo sarebbe un errore di sintassi drammaturgica. Ma è impensabile che un artista del calibro di Platel possa commetterlo. È sicuramente un segno, c’è una volontà. Come in uno zapping televisivo che trapassa dall’immagine della guerra in Siria alla telenovela sdolcinata. Ma la domanda che mi pongo: è efficace? Direi di no. Si perde immantinente l’energia e la potenza dell’immagine. Si scivola, non si trattiene nulla. E forse è questo che si voleva. Ma il tutto diventa come una scatola cinese: non è l’immagine ma il congegno, il dispositivo a essere importante, e quindi tutto diventa indiretto, mediato, estremamente intellettuale.

Questo è quanto mi lascia perplesso del lavoro di Platel: l’essere macchinoso, indiretto, cerebrale, asseverativo. É come un romanzo a tesi. C’è qualcosa da capire, questa cosa non lascia scampo al proprio atto di visione. C’è un imperativo categorico da capire, e di fronte ai messaggi univoci mi trovo sempre troppo a disagio.

sylphidarium

SYLPHIDARIUM di CollettivO CineticO

Sylphidarium e la Sylphide. Modello e variazione del canone. Se uno osserva bene il cavallo centrale in Guernica si può riconoscere il modello lontano: La battaglia di San Romano di Paolo Uccello. C’è una comunanza potente tra le due opere, non solo tecnica, non solo negli occhi allucinati del cavallo che distorce la testa dall’orrore della guerra. Parlo di qualcosa di viscerale, di intimo, come due laghi che si alimentano della stessa acqua, rinvigorendosi, mantenendosi vivi. Persino in John Cage si possono trovare piccoli e vitali frammenti di Mozart.

Questo fluire energetico tra le opere è la linfa che nutre il linguaggio artistico nel tempo. Se non ci fosse come sarebbe il linguaggio dell’arte? Non possiamo saperlo, perché essendo l’arte una lingua essa muta nel tempo, si nutre di vocaboli desueti, di forme arcaiche, di costrutti antichi rilanciandoli in forme nuove, neologismi, generazioni equivoche. Il tutto verso una lingua che ancora non si parla. Ci si limita a balbettarla.

Non c’è niente di strano in questo. È il corso naturale dei linguaggi. Un antico proverbio arabo dice: non si dicono cose nuove, ma cose vecchie in modo nuovo.

Per cui niente di strano che Sylphidarium intessa un dialogo con la lontana Sylphide, quel balletto che portò alla danza il tutù e l’elevarsi sulle punte.

Potremmo citare mille casi simili, negli ultimi tempi le She She Pop hanno fatto uno splendido ibrido con la Sagra della primavera. È una prassi in qualsiasi arte. Quello che mi stupisce di più è che questo venga visto come una sorta di cannibalismo necrofago. Non è un nutrirsi di carogne morte e abbandonate nella savana. È dialogo. È la metamorfosi che affascina Ovidio, questo trascorrere delle forme divine in quelle vegetali, di umani trasformati in animali, di mostri che generano dei. È il processo splendido e tremendo dell’arte.

Quello che mi manca davvero in Sylphidarium è la meraviglia del processo di rivitalizzazione. Questo splendido e tremendo bisbigliare tra le forme. C’è come una volontà freddamente clinica, priva d’amore nel dissezionare il cadavere, nel ricomporlo come un novello Frankenstein. È un nutrirsi come fanno le iene.

Ma c’è anche un disperdersi, un compiacersi nell’ossessivo sfilare di costumi, come in un defilé di moda autunno/inverno. Non che manchino momenti di grande fantasia formale, un creare forme dalle forme. Ma come in una sfilata di moda, queste fantastiche creazioni sono offerte allo sguardo come merci. Passano da una all’altra come in un catalogo. C’è molto freddo. Io almeno l’ho percepito così.

La musica di Francesco Antonioni è il valore aggiunto. Anche in questo caso c’è un rimandare alle forme classiche, soprattutto a Chopin, ma in un dialogo molto più fruttuoso, ibridato con calore. La danza piuttosto si adegua ai ritmi musicali in un assecondare lentezze, densità, frequenze. Non è un vero botta e risposta, quasi più un assentire.

Per tutti questi motivi, nonostante una possente tessitura, in questo lavoro intenso e persin crudele nel voler denudare le forme, ricomporle, rimodellarle, ho avvertito il dolciastro odor di decomposizione e il rumore assordante degli insetti necrofagi. Avrei voluto assaporare lo sbocciar di vita nova da ciò che lontano scompare all’orizzonte, più che un fredda meditazione sul cadavere.