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Premio Scenario

PICCOLE CONSIDERAZIONI SUL PREMIO SCENARIO 2017

Appena conclusa l’edizione del trentennale di Premio Scenario, uscito accaldato dal teatro e con ancora nelle orecchie l’eco degli applausi per i vincitori, passeggiando per le stradine di Santarcangelo di Romagna mi si sono affacciate alla mente alcune considerazioni.

Innanzitutto i vincitori: Valentina Dal Mas con Da dove guardi il mondo? Scenario Infanzia, Shebbab Met Project con I Veryferici per il Premio scenario per Ustica, The Baby Walk con Un eschimese in Amazzonia e Barbara Berti con Bau#2 per il Premio Scenario 2017.

I lavori dei partecipanti a quest’edizione del Premio Scenario si sono distinte per un alto livello sia drammaturgico sia esecutivo/performativo. Lo testimoniano le molte menzioni di merito affiancate ai vincitori dei tre premi previsti (Scenario Infanzia, Scenario per Ustica e Premio Scenario), con un ex equo per il premio principale, per un totale di 8 su 15. E questa è senz’altro una buona notizia. Il proliferare delle menzioni nasce da una volontà della giuria di dar maggior luce possibile ai talenti emersi. Una decisione giusta, e benché una menzione sia solo una medaglia di latta, è pur sempre una medaglia.

Due vincitori su quattro provengono dalla danza (Valentina Dal Mas e Barbara Berti) e questo testimonia la vitalità di un’arte che negli ultimi anni sta sfornando giovani talenti. La danza, a mio avviso, ha un vantaggio: il corpo viene prima della parola, la ricerca sul corpo in movimento nello spazio e nel tempo precede la parola, il voler dire e significare, e questo rende i lavori più potenti, più specificatamente scenici. Il corpo che si muove dice senza asserire, senza proclamare, è canto della presenza, del corpo e del suo dislocarsi nello spazio. Il lavoro di Barbara Berti è un esempio palese. Se la parola affianca il movimento lo fa senza dire niente, avviluppandosi in un nulla fino a scomparire nel nulla e nel buio, dove solo il suono del corpo che si muove rende evidente che qualcosa sta accadendo sulla scena. E al suo riapparire c’è solo movimento, aggraziato e fluido, un movimento che non ha nulla da dire e lo sta dicendo e questa, parafrasando la celebre frase di John Cage, è tutta la poesia che gli serve. Nel lavoro di Valentina Dal Mas è il movimento che genera il processo che porta la bambina di nove anni che non sa scrivere, la bambina dai pezzi mancanti, a poter scrivere il proprio nome. I movimenti che lei preleva dai suoi amici, la precisione di Spigolo, la determinazione di Fischietto, la caoticità di Vortice diventano rette, curve, spirali che portano alla scrittura del nome, le lettere generate dal movimento, la parola nasce dall’agire e dall’imitare.

Un’altra piccola considerazione: il mondo esterno appare nello specifico di due grandi macro argomenti: la minorazione, intesa sia in senso fisico mentale, che in senso di genere sessuale, (Valentina Dal Mas Da dove guardi il mondo? e The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia) e l’immigrazione, l’emarginazione sociale (i Veryferici, ma anche Abu sotto il mare di Pietro Piva, menzione speciale, e L’isola di Teatro dei Frammenti). Per il resto, a parte Ticina de il Teatro del baule di Napoli, che tratta il tema della morte in un lavoro per l’infanzia e vincitore di una menzione speciale, si preferisce l’intimità del sentire e mènage familiari da antico teatro borghese. E nel trattare tali temi si sceglie quasi sempre il tono leggero, ironico, il riso al pianto, il tono comico, quasi da stand up comedy, da teatro di varietà. E questo non è detto che sia un male. Lo riporto come dato: si preferisce la leggerezza allo schiaffo, il sorriso all’urto. Quello che invece un po’ mi preoccupa è la limitatezza dello sguardo, forse anche un po’ pilotato dai temi di call e concorsi che si accavallano nella vita della comunità teatrale italiana e europea. Non si parte più da un’esigenza intima personale, da un’urgenza insopprimibile, quanto da un’occasione per lavorare, per trovare spazio al proprio agire scenico. Ovviamente non voglio generalizzare, non tutti i casi sono uguali (per esempio The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia dove il tema del genere sessuale è sicuramente urgenza personale, come per I Veryferici), il mio è solo un invito alla riflessione.

Per molti lavori, benché ben eseguiti e strutturati drammaturgicamente, e benché ovviamente ancora in work in progress (ricordo che alle finali si presentano solo venti minuti di un lavoro), si denota un deficit di pensiero fondante, di ragionamento sulle funzioni di un lavoro scenico dal vivo, sul perché si fa e perché è necessario farlo. Dai lavori presentati traspare un’urgenza di visibilità, di affermazione, un reclamo all’esistenza e alla considerazione sicuramente dovuto alle difficili, se non proibitive condizioni produttive e distributive, e questo comporta un tralasciare la riflessione sulla funzione del lavoro. Certo è che se affoghi, se tutto minaccia la tua sopravvivenza come artista, quello che importa è salvarsi, non il come salvarsi. Nonostante tutto è necessario tornare a riflettere su questi temi, a elaborare pensiero che investa la funzione delle live arts oggi, in questo contesto, in questo tempo.

Si perché la domanda che sorge è questa: che destino avranno i vincitori? Quelli delle passate edizioni l’hanno detto più volte: vincere è niente, il dopo è più difficile, dopo inizia la vera battaglia, e nel dopo c’è la cronica mancanza di un sistema produttivo e distributivo degno di questo nome. Se il Premio Scenario ha il merito di far emergere nuove generazioni di talenti (e nel passato ne sono stati scoperti di illustri come Babilonia Teatri o Emma Dante per fare due nomi), e di farli emergere dal basso (tra i soci, fondatori e sostenitori, mancano le grandi istituzioni teatrali, il Ministero poi ha abbandonato il progetto e questo è gravissimo), e se è vero che alcuni festival hanno il merito di dar visibilità ai vincitori, Santarcangelo su tutti, è vero anche che dopo c’è l’abisso dell’auto produzione e dell’auto distribuzione. I talenti non vanno solo indicati al pubblico, non basta al seme lo sbocciare dalla terra, è necessario per la sua vita e crescita, che sia costantemente innaffiato e bagnato dal sole e se questo sole si oscura la vita di questi giovani germogli rischia di dimostrarsi drammaticamente breve.

Premio Scenario in questi trentanni di attività ha molti meriti, e in un paese come questo dove tutto sembra degenerare verso un indecoroso menefreghismo, una dolorosissima mancanza di attenzione verso i valori culturali, la sua azione di resistenza è encomiabile. Purtroppo come più volte ribadito tale azione necessita di un sostegno, di un sistema sano o che provi almeno lo sforzo di diventarlo. E non è questa la situazione. Siamo lontani anni luce dal costituire un sistema cultura efficiente. Il talento e la sua emersione non bastano, perché la sua dispersione è il peccato più grave che si possa compiere.