Archivi tag: Yasmina Reza

Emanuele Aldrovandi

Emanuele Aldrovandi: Come sfuggire dal destino del tacchino

Ha debuttato al Teatro Gobetti di Torino L’estinzione della razza umana, il nuovo lavoro, drammaturgico e registico, di Emanuele Aldrovandi. Il titolo inquietante nasconde un’amara commedia su un mondo malato, interiormente ed esteriormente, alle cui ferite non sappiamo dare né una cura né una risposta adeguata.

Tali riflessioni del drammaturgo reggino vengono inserite in una cornice che ricorda a tutti il primo lockdown: si è manifestato un virus con la capacità di trasformare gli esseri umani in tacchini. A causa della velocità dei contagi e della sofferenza del sistema sanitario le persone sono obbligate per decreto a restare chiuse in casa se non per comprovati motivi di lavoro o urgenza. Ad annunciarlo il Presidente della Repubblica consiglio nella voce di Elio De Capitani.

La vista dello spettatore si apre in un interno cortile. Un uomo (Mario) scende al portone per ritirare un pacco per sua moglie (Anna). Nel frattempo un vicino (Andrea) giunge nell’androne con l’intenzione di andare a correre. Il primo uomo vuole impedire all’altro di mettere in atto la sua intenzione in palese violazione della legge. Inizia una questione di principio che trascina, nonostante la volontà di rimanere nel quadro di un confronto civile ed educato, persino le rispettive compagne, il corriere e un medico, anche lui abitante nel palazzo e di ritorno dal lavoro, in un dialogo feroce e ironico in cui si fronteggiano una quantità innumerevole di questioni che la pandemia esaspera: le difficoltà economiche, l’inquinamento globale, le manipolazioni politiche legate alle continue emergenze, la sovrappopolazione, un tenore di vita in grado di desertificare il pianeta.

Un gioco di specchi continuo in cui il male esterno né nasconde uno più intimo e interiore. Ciascun individuo è chiuso nel proprio egoistico soddisfacimento dei bisogni, fattore impedente qualsiasi ascolto dell’altro. Tale chiusura aprioristica è dettata dalla paura e costringe i personaggi a una solitudine senza risposte di fronte alle domande che sorgono dallo sgranare gli occhi sul mondo come su un mistero doloroso di un rosario.


Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi

Emanuele Aldrovandi pesa ogni parola e ogni posizione, si nasconde, come autore, dietro le opinioni di ogni suo personaggio, mettendo in mostra quella che Thomas Mann chiamava visione stereoscopica. Non ci troviamo di fronte quindi a un intento moralistico ma a un interrogarsi insieme agli spettatori intorno a una serie di temi etici a cui nel breve dovremo tutti saper dare una risposta. I personaggi non ci riescono, sono come immobilizzati, incapaci di reagire e nell’impasse finiscono solo per scagliare sugli altri le proprie misere, seppur comprensibilissime, convinzioni.

E così il corriere che pur malato consegna i pacchi per non perdere il lavoro; così Andrea chiuso nel suo cinico egoismo di difesa di fronte a tutto ciò che non è in grado di risolvere; e poi il ferreo attenersi a leggi e principi di Mario utile solo a fare scudo di fronte all’enormità di quello che sta avvenendo e ai suoi problemi di coppia; il maledire la razza umana di Giulia, compagnia di Andrea, e il suo non voler figli per non aumentare la popolazione mondiale e non regalare alla sua creatura un futuro incerto; e infine l’ottimismo fideistico e qualunquista di Anna pronta a esaltare il suo ruolo amorevole di madre, ma così frustrata dalla mancanza di ascolto del compagno da sfogarsi in un continuo e assurdo shopping online. Tutti sono impauriti, reagiscono come possono, e inevitabilmente si scontrano uno contro l’altro non potendo darsi risposte utili o consolatorie,

Il modello evidente di questo nuovo testo di Emanuele Aldrovandi è Carnage di Polanski e dal suo preesistente esito teatrale Il dio del massacro di Yasmina Reza. Modello solo per la situazione di scontro selvaggio nonostante il tentativo di mantenersi civili e perbene destinato a fallire. Non si può osservare con distacco la cornice di questa non troppo fantastica pandemia, e proprio la prossimità porta, rispetto a Carnage la cui vicenda succede ad altri ma non a noi, alla riemersione di un vissuto comune, di qualcosa di irrisolto, per il momento respinto dietro le nostre spalle. Inoltre se in Carnage ci si focalizza più sull’aspetto sociale in cui le classi agiate nascondono la loro violenza primordiale sotto una fragile patina di civiltà, nel testo di Aldrovandi il punto è più etico e rivolto a un’interrogazione comune su come uscire dal cul de sac in cui la razza umana, nella sua interezza, è finita per cadere.

Il disegno registico di Aldrovandi, proprio per questo motivo, è incentrato quasi nella sua totalità nella cura delle singole parole, nel far emergere per loro tramite tutte le possibili sfumature. Durante le prove il lavoro con gli attori (tutti molto bravi) è stato giocato nel far emergere il conflitto senza farsi oscurare dall’emotività. Il giusto tono, la precisa attenzione sul far battere l’accento su una certa parola, vengono continuamente indagati proprio per far sorgere, in maniera più chiara possibile tutte le posizioni in campo e tutte le domande incastonate nella vicenda.

L’estinzione della razza umana di Emanuele Aldrovandi

Una regia delle parole motore dei corpi scenici. Un partire dal verbo, evocatore del conflitto, a cui i corpi si abbandonano. L’ironia è dunque misurata, ben contrapposta al dramma e allo scontro quasi selvaggio che si consuma, garantendo un efficace rimpallo delle posizioni e i giusti alleggerimenti emotivi, benché l’incedere sia sempre crescente verso un culmine esplosivo.

La scenografia più che rappresentare un interno cortile di un palazzo urbano assomiglia a una galera fatta di reti che (ci) escludono da un mondo esterno portatore di pericoli (non a caso ogni volta che suona il campanello a indicare un nuovo ingresso del corriere con i suoi pacchi potenzialmente infetti la scena si illumina di rosso).

Un’ultima riflessione. L’estinzione della razza umana di Emanuele Aldovrandi viola inconsapevolmente un tabù del teatro ossia parlare della peste subito dopo il suo funesto passaggio. Se il cinema e soprattutto la letteratura ci hanno consegnato innumerevoli testi riguardante le epidemie, in teatro si è ossessivamente astenuti dal nominarle. Persino Shakespeare, la cui non lunghissima carriera ha visto ben tre epidemie di peste dilagare a Londra e in Inghilterra, la ha appena nominata. Persino la spagnola ha lasciato pochissime tracce teatrali del suo passaggio funesto. Il perché di questa omissione è difficile da individuare. Forse semplicemente si voleva voltare pagina rispetto a un accadimento gravoso per una professione incerta e per il pubblico felice di tornare alla vita. Aldovrandi non ha avuto paura di affrontare il tema perché è la giusta ambientazione in cui immergere i problemi che la pandemia ha seppellito nell’emergenza: la crisi del pianeta e del sistema capitalistico nella sua globalità. La nuova emergenza legata al conflitto russo-ucraino e la relativa questione energetica ha rimesso in panchina tutte le domande e i problemi. Eppure dobbiamo tornare a riflettere con senso critico sul mondo e niente come il teatro può gettare uno sguardo lucido sul presente che stiamo tutti vivendo.

Questa credo sia la semplice e altissima funzione del nuovo lavoro di Emanuele Aldrovandi: tramite la parola e la narrazione non distogliere lo sguardo da ciò che ci perseguita. Puntare con forza gli occhi sul mondo per non essere tutti trasformati in tacchini buoni solo per il macello.

Alba Porto

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA AD ALBA PORTO

Per la trentaquattresima intervista de Lo stato delle cose torniamo a Torino per parlare con Alba Porto, regista e attrice della compagnia Asterlizze Teatro. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

I lavori più recenti di Alba Porto come regista sono Arte di Yasmina Reza con Christian La Rosa, La bella e la bestia, scritto insieme a Giulia Ottaviano per il Teatro Stabile di Torino, e Something About you con Matilde Vigna.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità della creazione scenica è quella di confrontarsi con la problematicità dello stare al mondo rendendo “vivi” pensieri, sensazioni ed emozioni tramite l’accadimento. Quest’ultimo per verificarsi ed essere registrato ha bisogno di un pubblico che ne sia testimone e, più in generale, la creazione scenica – che è spettacolo dal vivo – non è nient’altro che il tentativo di creare ad ogni performance questo accadimento cercando una connessione e scambio con il pubblico.

Il pubblico quindi è l’ elemento fondamentale affinché essa risulti efficace e, poiché nasce da un interrogativo che riguarda l’uomo,  si rivolge a una comunità che diventa destinatario imprescindibile cui riportare la propria ricerca. Credo che la creazione scenica, per essere efficace, debba in primo luogo imparare a parlare a una comunità con sguardo sincero e tagliente se necessario.

Yasmina Reza
Arte di Yasmina Reza regia Alba Porto

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che un modo per migliorare la situazione esistente possa essere rimettere al centro l’importanza dell’artista. E cioè, che le istituzioni diano la giusta importanza agli artisti – che sono capaci di produrre un beneficio, forse non quantitativamente misurabile ma tangibile – pianificando strategie per sostenerli.

 Festival e bandi a  favore degli under 35  rappresentano sicuramente una una buona opportunità, grazie alla quale io e Asterlizze, la compagnia teatrale per cui lavoro, abbiamo ottenuto appoggio e riconoscimento. Mi riferisco al Bando Ora! della Compagnia di San Paolo e ad alcune possibilità di visibilità dedicate a giovani compagnie e offerte da realtà torinesi come (TST, TPE e Festival delle Colline). Tuttavia questi sostegni, che rappresentano un’occasione di visibilità e un sostegno produttivo, non sono sufficienti per garantire la possibilità a una compagnia teatrale di occuparsi realmente di produzione e più in generale di ricerca.

I requisiti per avere i sostegni ministeriali inoltre sono lontani dalle possibilità delle piccole compagnie – ci siamo accorti in questi giorni di emergenza come molte compagnie restino fuori anche dai parametri dell’Extra FUS e che non vi è una reale conoscenza delle peculiarità e differenze del settore -. Bisognerebbe quindi rivedere i parametri secondo le necessità reali e le differenze, attuando una politica di sostegno che si prenda carico anche delle più piccole e giovani realtà – che spesso sono quelle più attente nei confronti dell’attualità che le circonda – . Si potrebbe pensare a luoghi affidati gratuitamente ad artisti, affiancati da figure professionali che si occupino di valorizzarne l’ operato.

Da qui in avanti inoltre bisognerà pensare a una ripartenza che possa contenere i danni causati dalla pandemia dimostrando una maggiore collaborazione e cura. Mi riferisco a un rinnovato dialogo tra teatri nazionali, tric, regioni, comuni, realtà di vario tipo e gli Artisti.

Mi auguro che nuove forme di abbraccio possano nascere in questo periodo di distanziamento, insieme a una ritrovata fiducia e considerazione degli artisti. Nuove dovranno essere le strade da tracciare. Si tratta di offrire a noi tutti una grande libertà: la libertà della scommessa in percorsi non tracciati, nuovi, idealisti e soprattutto umani. La scommessa è un atto di fede, e potrebbe avere risvolti sorprendenti in molti aspetti della vita comunitaria.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Il discorso sulla distribuzione, argomento spinoso e sicuramente fondamentale per molte compagnie tra cui Asterlizze, dovrebbe essere inserito in una politica di azione più ampia e sinceramente sono d’accordo con quanto detto da Carmelo Rifici, nella tua prima intervista e che qui parafraso: più che soluzioni per la distribuzione, ogni artista dovrebbe avere un proprio luogo, una “casa” in cui poter creare i propri lavori. Certo, bisognerebbe supportare gli artisti cercando di garantire una tenitura distributiva più lunga forse e che permetta loro di circuitare venendo in contatto con  più realtà possibili, ma mi chiedo se questo non sia ancora una ennesima schiavitù.  Inoltre data la situazione critica che si prospetta nei prossimi anni per il teatro e non solo, la distribuzione sarà ancora più cosa ristretta a scambi tra teatri e, in ogni caso, difficilissima. Credo quindi che il problema della distribuzione (cui spesso è legata la principale risorsa di sostenibilità per le compagnie) potrebbe essere arginato e forse non sarebbe più troppo centrale, se ogni gruppo artistico avesse una “casa” in cui creare i propri lavori, dedicandosi soprattutto al contesto circostante e al contatto con il proprio pubblico, avvicinando maggiormente la comunità al teatro. Insomma diventando un fulcro di riferimento all’interno del contesto cittadino e riportando al centro anche un legame con il territorio, di cui l’artista può e deve farsi portavoce.

Alba Porto
Something about you regia Alba Porto Ph:@Andrea Macchia

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Oggi più che mai il valore della creazione scenica come evento a cui assistere e partecipare dal vivo è fondamentale. La creazione scenica impone uno scambio reale tra i partecipanti, provoca emozioni e ci impone di “stare” in connessione con l’altro – privandoci per un momento degli schermi dei telefonini -. Ci porta a recarci in un luogo deputato (spesso il teatro, ma non solo) per assistere a un racconto in qualsiasi forma e farne esperienza. L’esperienza, a mio avviso, è l’unico motore capace di generare comunicazione ed empatia. Tramite l’esperienza possiamo tralasciare i ruoli affidatici dalla società (gli artisti, gli spettatori, i critici) ma essere tutti parte di qualcosa: la nostra contingenza, l’essere umani. Lo spettacolo dal vivo è un luogo di scambio e si modifica a seconda della platea, del pubblico, in maniera sostanziale. Quindi credo che la funzione principale sia quella di produrre scambio e vicinanza allo stesso tempo. In un momento storico  come quello che stiamo vivendo ritengo che tale vicinanza debba trascendere dallo spettacolo dal vivo in sé e manifestarsi in azioni a sostegno della categoria. Questo sarebbe davvero un bello spettacolo cui assistere.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo che il rapporto con il reale consista prima di tutto nell’essere immersi nel reale. Il nostro reale è sicuramente complesso e interpretarlo, in un sistema che ci bombarda di informazioni, non è semplice. E tuttavia l’artista è spugna assorbente del suo tempo, interprete che si allontana dalla frammentarietà delle notizie e riporta l’attenzione su ciò che ci unisce in quanto uomini. Non si tratta per l’artista esclusivamente di valutare la verità o la falsità delle fonti, ma di ricercare con trasparente necessità i meccanismi che governano i rapporti di vario genere. L’artista sente il suo tempo e cerca di “vederci chiaro” formulando delle domande, che attingono al reale e lo trascendono allo stesso tempo. Ecco che partendo dal contemporaneo si ritorna a maneggiare testi classici creando parallelismi nei contraddittori eppure speculari meccanismi del contemporaneo. Perché tutto ciò che viviamo è stato già vissuto, e questi giorni di particolare emergenza ce lo confermano.

Stare nel reale dunque avendo curiosità e aprendosi al dialogo con altre discipline e campi di indagine, ponendosi la domanda se ciò a cui stiamo lavorando possa servire a essere stimolo per gli altri. Che cosa raccontare è il primo punto di partenza e perché. Se il perché include anche gli altri, se ha un senso oltre che personale, pubblico, allora ci stiamo rapportando al reale.

Yasmina Reza

Arte di Yasmina Reza: come un quadro bianco può scatenare una piccola guerra

Il 15 e 16 marzo al Teatro Gobetti va in scena nell’ambito della rassegna Il cielo su Torino, Arte di Yasmina Reza con la regia di Alba Maria Porto e interpretata da Mauro Bernardi, Elio D’Alessandro e Christian La Rosa, (premio UBU under 35 nel 2017 per la sua interpretazione nel Pinocchio di Latella).

Il pretesto è un quadro bianco acquistato a una cifra esorbitante. All’inizio sembra una questione di estetica anche un po’ datata (i Quadri Bianchi di Rauschemberg sono del 1951). Ma presto si comprende che il quadro è solo la scintilla che scatena l’incendio. Yasmina Reza, nelle sue drammaturgie, sembra interessata agli inneschi di piccoli inferni quotidiani, dove la patina di civiltà e buone maniere viene improvvisamente a mancare, le maschere cadono, e quel che resta è la miseria dell’uomo pronto a scatenarsi per niente.

Tre amici di fronte a un quadro bianco. Le loro divergenze o compiacenze in fatto di gusto smuovono piano piano, sassolino dopo sassolino, un’immane valanga che travolge il loro rapporto di stretta amicizia.

Come ne Il dio del massacro, che diventò Carnage di Roman Polanski, i rapporti più stretti degenerano in fretta di fronte al primo dissenso. Le parole diventano clave, armi contundenti pronte a ferire l’altro. E nessuno ha ragione, nessuno si salva. Non esistono i buoni e i cattivi.

Yasmina Reza è una grande osservatrice dell’animo umano, osserva con interesse quasi scientifico lo sgretolarsi dei legami sotto i colpi di piccole banalità quotidiane che vengono utilizzate come scuse per scatenare violenze represse. Come nei vortici che si formano nei romanzi di Gadda, in cui a poco a poco gli avvenimenti si ingarbugliano senza soluzione, così nelle drammaturgie di Yasmina Reza, si rimane ingabbiati dall’accumulo di violenza che presto o tardi dovrà scaricarsi.

Anche in Arte il gioco al massacro parte dalle prime battute, dal momento in cui viene mostrato il quadro e l’amico ride dell’amico. Come puoi comprare questa merda? Chi ti ha concesso il diritto di giudicare me e il quadro?

Bravi i tre attori ha costruire un percorso credibile, composto di lento accumulo di frustrazioni e incomprensioni, che sfociano poco a poco in una furiosa lotta che distrugge i legami fino a giungere a un finale falsamente consolatorio. Dietro alla riappacificazione resta l’incombere di una nuova crisi.

La regia della giovane Alba Maria Porto è semplice e lineare ma efficace. Forse si poteva fare qualcosa di più nel costruire una partitura di azioni meno ripetitiva e didascalica, lasciando che anche il corpo esprimesse un percorso di contrappunto alle parole. La partitura corporea resta un po’ troppo imbrigliata in una ripetitività non veramente significante. Il tempo e l’esperienza porterà a questa giovane regista una maggiore complessità di linguaggio.

Buono il ritmo dell’incedere dell’azione. Nessuna pausa superflua, il percorso di accumulo di tensione è inarrestabile e avvincente. Si rimane ammaliato e nello stesso agghiacciati nel riconoscimento che sulla scena ci siamo anche noi. Quel meccanismo di distruzione ci appartiene e presto o tardi si manifesterà nuovamente per quanti sforzi noi si faccia.

In fondo è questo il teatro, uno specchio che rimanda la nostra immagine così com’è. Un infingimento da cui scaturisce la verità su noi stessi. È lo sguardo che guarda il mondo e senza pietà lo disegna.