Archivio mensile:Febbraio 2016

SOSTERRÒ LE RAGIONI DELLA LEGGEREZZA di Francesca Cola

Francesca Cola è un’artista che abbiamo molto seguito perché ha il raro pregio di evocare mondi toccando emozioni forti con delicatezza e raro senso del gusto. Nei suoi lavori l’immagine non si impone mai, non è mai dura, è qualcosa di flebile, debole come un ramo di salice che si piega al vento e alla corrente. Sorge sul palco e dalla scena umile e fragile come un germoglio. Compito dello spettatore è accogliere questa immagine, prendersene cura dentro di sé, lasciarla crescere. Ci vuole uno sguardo attento, accogliente. La sua arte non è un martello che si infrange sull’anima-incudine dello spettatore, è una carezza gentile, un bacio sfiorato, un sorriso sfuggente. In sosterrò le ragioni della leggerezza, per ora un primo studio in residenza nel progetto Permutazioni a cura di Zerogrammi e Fondazione Piemonte dal Vivo, non si smentisce questa attitudine, anzi, se mai, si accentua.
In scena un bambino e un adulto, una danza in erba e una formata. A lato una pietra, rotonda e pesante, grave. È un monito e un pericolo. È presente e minaccia una presenza. È una possibilità a cui sfuggire. Come la morte quella pesantezza può raggiungerci in ogni momento. Solo la fuga leggera, la danza veloce dei piedi che sfiorano la terra può darci la levità che è il sale della vita.
L’adulto e il bambino. La loro danza, l’adulto che fa volare il bambino, lo sostiene, lo libra nell’aria, ma può anche inavvertitamente farlo cadere a terra, tenerlo giù. È il pericolo della pesantezza e della gravità. E allora ci si muove, si danza, si scongiura questo pericolo nel danzare insieme, nell’essere motori di movimento gli uni degli altri, lasciandosi coinvolgere, accogliendo il movimento dell’altro, sostenendosi con leggerezza librandosi in un volo gentile.
Il bambino sta in equilibrio sulla pietra, precario, giocando con la gravità. Il bambino accoglie la pietra, la abbraccia e le sfugge allo stesso tempo. Il bambino consegna la pietra all’adulto. È lui che se ne deve occupare, è lui che deve spingere a lato della scena quel pericolo incombente.
Questa danza, piccolo saggio sull’arte della fuga dalla gravità, è accompagnato da silenzio e da musica, e quest’ultima non è mai accompagnamento ma segno ulteriore di questo gioco a nascondino con la pesantezza, come quando si spandono dolci e feroci le parole della poesia di Robert Pinsky When I had no father I made/ Care my father. When I had/ No mother I embraced order. Certo c’è anche questo nel piccolo studio di Francesca Cola, i genitori e i figli, un rapporto difficile che può far volare come schiacciare a terra. La pietra sulla scena incombe sempre. È il pericolo che sta a lato della vita di ognuno. È lì. Non si può dimenticare, bisogna sfuggirle, sempre in movimento, sempre attenti. Tempo fa intervistai Laurent Chétouane e mi colpì una sua frase:” la tragedia di essere umani si esplica nella guerra continua alla gravità”. Ecco questo è, penso, il senso ultimo del lavoro di Francesca, affrontato con profondo rigore e cura, con lo sguardo sempre rivolto ad evitare la durezza e la forza, in un elogio taoista alla debolezza, strumento principe per lasciar fluire l’azione del Tao.
C’è un solo pericolo in questo lavoro: che nello sviluppo futuro, nella lievitazione, assuma un carattere troppo zuccheroso, come un dolce troppo dolce. Come in un ottimo piatto, il segreto è il bilanciamento dei gusti, acidità e dolcezza, asprezza e salinità. Ma Francesca è un’ottima chef, saprà evitare il pericolo.

Uovo Festival si interrompe!

Una nuova e  ferale notizia si abbatte sulla fragile cultura italiana: anche Uovo Festival interrompe la sua programmazione. Speriamo che questa sia solo una sospensione, un inciampo nel percorso, perché la sparizione di questo festival, che in tredici anni di vita si era segnalato come un punto di riferimento nelle Live Arts contemporanee in Italia, sarebbe molto grave.

In forma di solidarietà con Uovo festival, a cui auguro di sopravvivere a questo momento buio, ripubblico la recensione e l’intervista a Michele Di Stefano fatta durante la scorsa edizione in occasione della ripresa dello storico spettacolo della compagnia MK E-ink.

E-ink di Mk
e
Sub di MK, Roberta Mosca, Margherita Morgantin, Lorenzo Bianchi Hoesch e Luca Trevisani
con intervista a Michele Di Stefano Leone d’argento alla Biennale Danza 2014

E-ink è uno spettacolo stupefacente. Pensare che ha ormai sedici anni, lo rende ancora più disorientante. Debutta nel 1999 e appare subito come uno dei lavori più innovativi della scena italiana e non solo. Oggi viene ripresentato a Uovo Festival sollecitato dalla sua recente ricostruzione per RIC.Ci Reconstrunction Italian Contemporary Choreography, e questo è un dono al pubblico che non ha potuto assistere, come me, al debutto. Trame sottilissime di gesti, che diventano icone, ideogrammi viventi in perenne formazione/trasformazione/metamorfosi. Proteiche soluzioni e dissoluzioni di gesti, ritmi, figure che disegnano lo spazio con precisione impeccabile. Ma non è un lavoro astratto, è pieno di vita, di forza, di capacità di comunicare anche se non si coglie il senso voluto dagli autori. È un’opera aperta nel senso che libera la mente dello spettatore invogliandolo a cogliere associazioni, a nutrirsi di immagini, a lasciarsi coinvolgere dalla scrittura segniche che i corpi disegnano sul palco. La musica di Paolo Sinigaglia è altrettanto potente, e si lascia tessere con agilità alle forme della danza. È autonoma ma perfetto partner per i due danzatori in scena. Un valore aggiunto.
E-ink è dunque un piccolo gioiello nella recente storia della danza italiana che giustamente viene riproposto. Certe opere è giusto che vengano conosciute dalle giovani generazioni, come è giusto ricordare ciò che di valente è stato fatto. Lo spettacolo oggi ha vita breve, se non brevissimo. Le cose appaiono come meteore e non sempre si è pronti a vederne il volo, seppur luminosissimo, perché le occasioni per osservare corpi celesti sono sempre più rare. Si fa fatica a vedere e a essere visti. Questa riproposta è preziosa perché propone alla memoria e alla conoscenza qualcosa di importante che è giusto tenere presente al fine di creare cose nuove che posseggano il rigore e la maestria di questo piccolo gioiello.
MK come compagnia presenta inoltre un’altra occasione di incontro con la propria attività alla Fondazione Adolfo Pini. Il progetto si chiama Sub ed è una forma di coesistenza performativa di diversi artisti e arti differenti in un contesto urbano decisamente borghese, uno spazio privato sebbene ospitale. In Sub Biagio Caravano, Roberta Mosca, Luca Trevisani e Lorenzo Bianchi condividono un luogo sebbene in spazi diversi. Permettono al pubblico di navigare in uno spazio sperimentando un percorso, farro di segni, di suoni e di corpi danzanti. Di molto impatto emotivo la coreografia di Roberta Mosca. Un danza piena di tensioni, di gesti secchi, di scatti anche violenti, di torsioni innaturali, di ritmi frenetici anche nella staticità sempre convulsa, mai riposante. Un esperimento non nuovissimo ma sempre interessante, perché porta a esperire in modo non passivo la performance. Quando si esplora, bisogna scegliere. Il viaggio costringe al montaggio della visione, dell’esperienza. Per ognuno è diversa, sicuramente più libera perché manca un punto di vista dominante è imposto.

Intervista a Michele Di Stefano
EP: Mi parli dell’origini di questo lavoro? Com’è nato? Quale è stato lo stimolo che ti ha portato a immaginare questa scrittura scenica?
MDS: Il lavoro è nato nel 1999 ed è stato il primo lavoro della compagnia che si è presentato ad un pubblico vasto. In realtà c’erano stati dei tentativi per elaborare dei sistema coreografico preciso e autonomo. E-ink nasce da questo desiderio di inventare un linguaggio. É stato costruito con un ricerca minuziosa dei dettagli corporei che potessero produrre dei sistemi di equilibri dinamici interni diversi da sistemi già preesistenti. Non si fa riferimento a nessun codice si cerca di inventarne uno. É stato un lavoro molto lungo anche se il pezzo dura 12 min. In realtà la costruzione è durata dei mesi e ci sono veri segreti nella composizione, ci sono anche delle vere e proprie tradizioni di frasi ritmiche, delle elaborazioni del rapporto dei due corpi che si intersecano in segni molto precisi. C’è bisogno quindi di un’esattezza e di una precisione molto spietata. Il contrasto è col fatto che il corpo in questo lavoro è immerso in un’energia pulsante che produce spaesamento. Il lavoro nasce proprio dal contrasto con questo desiderio di dettaglio e il desiderio di uscire in maniera sregolata nel corpo, e fa riferimento a un’immagine quella degli oracoli antichi, delle Pizie, delle Sibille che vaticinavano possedute dagli effetti di sostanze psicotrope, e in realtà quando producevano il vaticinio esso appariva metricamente esatto. Un contrasto quindi tra un bisogno di esattezza formale e un desiderio di perdita di controllo.
Ed è un lavoro che quando ha avuto il suo incontro con il pubblico ha scoperto la sua vena comica, per altro non voluta. È stata una sorpresa anche per noi. É una coreografia che ha lanciato il gruppo. È stato un lavoro seminale e ha avuto la fortuna di girare tanto. Ultimamente Marinella Guatterini con il progetto RIC.Ci Reconstrunction Italian Contemporary Choreography ci ha proposto di ricostruire il lavoro e io e Biagio Caravano abbiamo riscoperto nel corpo la stessa esattezza di allora che è riaffiorata in maniera naturalissima. Così abbiamo deciso che era il caso di riproporla almeno una volta. Il caso poi ha voluto che questo avvenisse nello stesso teatro (Il Franco Parenti Ndr.) dove avvenne il debutto, quindi con la stessa carica emotiva. Non ci interessa veramente un ritorno al passato perché non siamo veramente interessati a creare un repertorio, però era interessante riproporre il lavoro e farlo conoscere alle nuove generazioni.

EP: Adesso su cosa state lavorando? Quali sono i progetti che vi intrigano attualmente?
MDS: Adesso abbiamo deciso di lavorare su sistemi performativi che sono fuori dai teatri. È il caso di questa performance che facciamo qui a Milano (Sub I, II, III tenuta sempre in occasione di Uovo alla Fondazione Adolfo Pini ndr.) e del lavoro che faremo a Bologna alla prossima Live Arts Week. Sono lavori che di fatto sono una collezione di lavori di artisti differenti che rientrano in un discorso più ampio che formerà il film che sta girando Luca Trevisani. Ci muoviamo in un territorio molto ampio in cui ci sono delle emersioni performative, non dei veri e propri spettacoli, anche se poi la compagnia tirerà le somme di tutti questo periodo più informale per produrre una coreografia che debutterà qua a Milano al teatro dell’Elfo in ottobre.

EP: Ti pongo ora, come ultima domanda, una questione che ho sottoposto anche ad altri artisti presenti a Uovo: alcune pratiche performative tendono a riformulare, a ridefinire il rapporto tradizionale con il pubblico, a sovvertire la dinamica io agisco/tu osservi, affinché il pubblico possa fare esperienza dell’opera in maniera altra rispetto alle consuetudini. Tu pensi che si utile porre in questione questo rapporto?
MDS: É interessante. In ambito prettamente coreografico, che è il mio specifico, è interessante riuscire a creare una prossimità molto forte che non sia soltanto estetica, nel senso che il corpo, la qualità dello stare e dello stato, si riflette anche nello sguardo del danzatore nei confronti di chi lo guarda. È un oggetto molto interessante. Non a caso questa performance di Roberta Mosca è costruita su un tappeto con il pubblico seduto tutto intorno in un’estrema chiarezza di contatto, di sguardo nello sguardo. Questo tipo di intenzione prossemica mi interessa molto. Non mi interessa portare il pubblico in maniera didattica verso un nuovo modo di fruire. Il pubblico sa come fruire, sa benissimo che desideri vuole. A me interessa dargli delle possibilità. Delle possibilità di stare e di attraversare dei posti, di avvicinarsi molto al performer o di guardarlo da molto lontano. Quello che cerco è un tipo di fruizione più immersivo. Non a caso il lavoro che presentiamo qui alla Fondazione Pini, si chiama appunto Sub a richiamare una possibilità più immersiva. Il teatro, la danza, la performance si compie nell’appuntamento con il pubblico, quello è l’unico oggetto che abbiamo in comune: la durata, il tempo che stabiliamo per stare insieme. Trovare delle forme di arrotondamento dei reciproci desideri del pubblico e del performer è un’indagine molto interessante. Il tipo di spettacolarità creata e pensata fuori dai teatri pone immediatamente la questione del come, dove e cosa fare, ti porta a pensare a come fruire e far fruire la cosa. Troveremo delle risposte possibilmente a queste domande, spero.

M!M di Laurent Chétouane

Quella di Chétouane è una danza in cui protagonista è l’ambigua insita in ogni prossimità. Quanto poco ci vuole perché l’amicizia si trasformi nel suo contrario? Quanto sottile il confine tra amore e odia? Se si spezza il legame che tiene insieme un atomo, l’energia che si libera può essere devastante. M!M con delicatezza e grazia lascia intravedere il sorgere di tutte queste tensioni inerenti all’amicizia, non solo a livello di sentimenti, anche a livello pratico. Come condividere un spazio insieme? L’occupare uno spazio è gesto carico di tensioni. Un gesto semplice che porta con sé gravi implicazioni. Ogni volta che si muove un passo nello spazio che condividiamo con gli altri, corriamo un rischio: guerra e pace sono sempre dietro l’angolo.
Nato come una commissione all’interno delle celebrazioni dell’amicizia franco-tedesca, M!M riesce ad andare al di là dell’occasione istituzionale, insinuando, quasi con tenerezza, le gravi ombre che si nascondono dietro a un termine, amicizia, usato ed abusato. Le dinamiche tra i due bravissimi danzatori sono estremamente sottili nel camminare sul bordo, sulla linea del confine in cui ciò che è chiamato amico, può, da un momento all’altro tramutarsi nel suo contrario. Un camminare su un filo sottile, per la pericolosità, più una lama di un rasoio, dove un gesto un po’ più carico, un superare, anche di poco la soglia, produrrebbe un lavoro di cattivo gusto, esagerato, retorico. Invece Chétouane, con garbo e grazia, fa danzare letteralmente le tensioni, facendole apparire lievemente dietro il velo, quel tanto da percepirle e restarne turbati, senza calcare la mano e rendere il tutto evidente e scontato. Come negli affreschi del Tiepolo, campione dell’opera d’arte su commissione, l’essere tutto abbagliante di luce, l’essere tutto gloriosamente abbracciato da una luce meridiana e onnipresente non impediva di palesare l’ombra, l’inquieto agitarsi delle cose, così Chétouane diffonde su un paesaggio, quasi sereno, leggere increspature che fanno intravedere come sotto la superficie s’annidino i mostri.
Una danza a tratti ariosa e maestosa, a volte delicata, lievemente sentimentale, che dimostra, quando mai ce ne fosse il bisogno, che il gesto leggero, usato con maestria, è più potente dell’urlo e del grido. Come dicevano gli antichi taoisti, l’acqua è il più morbido degli elementi, ma frantuma la roccia più dura e resistente.

Intervista a Laurent Chétouane

EP: Che tipo di spettacolo è M!M? Qual’è lo stimolo che l’ha fatto nascere?
LC: M!M è un pezzo sull’amicizia, sulla relazione amicale tra Mikael e Matthieu (Matthieu Burner e Mikael Marklund, i due interpreti di M!M ndr.) non a livello privato ma in quanto uomini. E questo nasce in parallelo alla commissione che mi è stata proposta di creare un lavoro sulla relazione franco-tedesca nell’occasione del cinquantesimo anniversario della riconciliazione tra questi due paesi. M!M quindi nasce dalla coincidenza di un lavoro di commissione con un percorso di ricerca che volevo affrontare con i miei due danzatori. Amicizia tra due uomini, amicizia a un livello più politico, dunque un pezzo su amici, nemici, che cosa è prossimo? Che cos’è un amico? Il nemico è un amico con cui si è sbagliato qualcosa? Riflessioni che che fa Derrida nel suo libro Politiche dell’amicizia, opera che mi ha fortemente ispirato nella creazione di M!M.
Amico è un termine molto chiaro ma che allo stesso tempo è molto fragile.

EP: Ho visto una tua intervista rilasciata durante l’ultima Biennale Danza a Venezia durante la quale tu dici una frase che mi ha molto colpito: la tragedia di essere umani si esplica nella guerra continua alla gravità. È questa, forse, la natura della danza?
LC: Ma diciamo che la danza mi permette di confrontarmi con la gravità, una cosa essenziale contro cui ci si batte tutto il tempo senza saperlo. Si è sempre a un passo ma qualcosa vi impedisce di cadere, e poi, voilà, si cade. I vostri muscoli vi sostengono perché hanno imparato da soli le leggi e così, senza saperlo, siamo immersi in un conflitto costante con la gravità. Per me dunque la danza è un modo di relazionarmi con la gravità. D’altra parte è una cosa che è già stata fatta da sempre, la danza classica ha, in qualche modo, dominato la gravità, una danza più postmoderna come quella di Thisha Brown si diletta con la gravità, William Forsythe da parte sua dirà che è tutta questione di cadute, che danzare è, in effetti, un gioco con la gravità. É un modo di considerare la caduta nella sua totalità. Nel senso che non bisogna considerare la caduta come una decisione del corpo, della parte del corpo che controlla ancora ma sentirla a livello della verticale, quando siete giusto all’inizio: la caduta. Dunque ci sono sempre due direzioni nel corpo che danza. Ed è interessante questo non solo a livello estetico ma anche politico, nel pensare il movimento come un riparare alla caduta, come dire che il movimento è una reazione alla caduta.

EP: Questo tuo lavoro può essere considerato un lavoro politico? Oppure tutta l’azione artistica in fondo può considerarsi come un’azione anche politica?
LC: Io credo che l’arte e la politica siano due cose che si incontrano ma che sono, in effetti, separate. Credo, come Jean-Luc Nancy, che la politica sia l’arte che crea gli spazi dove l’arte può arrivare, e l’arte, ovviamente, deve interrogare la politica. L’arte deve disturbare e scombussolare la politica, il che non vuol dire assolutamente che l’arte fa della politica.

Sulla seconda edizione della Venice International Performance Art Week

In principio era il verbo? In principio fu il luogo.
Prajapati circondato dalle vampe ardenti delle acque e della mente che fluivano senza sosta, impermanenti, decise che “ciò che era” aveva necessità di un fondamento.
Così fu la terra, su cui poi si distese.
Ecce scena.
In principio fu il luogo. Questo per gli uomini vedici, che non persero tempo a costruire città, templi e monumenti, ma edificarono con un’accuratezza estrema l’edificio del rito attraverso cui si giungeva alla conoscenza e si emendava il male del mondo. Di loro restano solo edifici scritti, città di parole che con dovizia di particolari descrivono ciò che per loro era più importante: il rito, il luogo dove l’azione e la parola efficace portavano l’uomo a diventare come gli dei. Ma come doveva essere il luogo?
Un luogo neutro. Apparentemente. Una spoglia radura su una collina, lievemente inclinata verso est. Niente di cui stupirsi. Essendo supporto all’azione a venire non doveva essere invasivo. Doveva solo essere tela bianca su cui dipingere.
Perché per parlare della Venice International Performance Art Week scomodare addirittura i ritualisti vedici? Ancora un poco di pazienza e arriverò al nocciolo della questione.
Il 27 aprile 1910 Marinetti lanciava la sua sfida a Venezia: “Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamità dello snobismo e dell’imbecillità universale, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite, cloaca massima del passatismo”. Parole forti. Dette in un periodo storico in cui cominciava a consolidarsi l’immagine di Venezia turistica, luogo del pittoresco a buon mercato, del facile romanticismo per tutti. Forse è per questo che le parole accese di Marinetti oggi, di fronte al progredire della mercificazione esponenziale di quell’immagine, risultano più deboli e sfocate, anch’esse assorbite dal cliché.
Venezia è il luogo ed è quanto di più lontano possibile dalla neutralità. Venezia è un caleidoscopio di immagini tutte preconfezionate, disposte in piena luce e in bella vista come tante cartoline. Venezia è come una vecchia prostituta stanca di tanto esercizio delle proprie funzioni, sepolta da chili di belletto che pur applicato con tanto estro e perizia non riesce a nascondere i segni dell’età. Venezia puttana che ha perduto la sua anima infranta nelle mille immagini piacenti ai suoi clienti. Per ritrovar l’anima sua afflitta bisogna scavare a fondo, sollevare coltri di veli resi pesanti e impenetrabili dal perdurare dell’immagine sulle nostre retine, ricomporre i frammenti sparsi sparpagliati nelle mille false immagini di se stessa.
La cornice all’evento è dunque complessa, frastagliata, esigente, pacchiana. Quanto di più lontano dal neutro invocato dall’origine. Quanto dunque dovrà essere forte l’immagine racchiusa da tale invadente cornice per superare l’ovvietà della cornice stessa? Inquinamento visivo e concettuale.
All’interno della cornice, come in una scatola cinese, ecco una seconda cornice suggestiva, evocativa eppure altrettanto ingombrante: Palazzo Mora. Un vecchio palazzo veneziano a metà di Strada Nova nei pressi della Ca’ D’oro. Un palazzo affascinante, nel suo essere un po’ scalcinato, corroso dal tempo, pieno di storia e senza un presente. Nelle sue stanze affrescate, ricoperte da soffitti a cassettoni da cui pendevano, ingombranti, lampadari di vetro di Murano si dipanava un percorso in un certo qual modo onirico come d’altra realtà o dimensione rispetto a ciò che avveniva in calle dove, normale, scorreva il flusso abitudinario della città. In quasi ogni stanza un avvenimento che si appropriava dello spazio creando un mondo con il suo ritmo e la sua velocità, totalmente separato da ciò che avveniva nelle altre stanze. E il pubblico passava da un mondo all’altro, pronto all’esperienza ma anche leggermente inquietato dall’essere sempre estraneo e quasi invasore. Si entra in punta di piedi, con timore di disturbare, si cerca un posto per vedere e osservare ma come se non si fosse presenti: ci si accorge che quanto avviene davanti ai nostri occhi potrebbe avvenire anche senza la nostra presenza.
Le performance, l’azione dell’artista nel presente, è dunque racchiuso da due imponenti cornici di passato. Il luogo dell’apparire del nuovo, inscatolato da due immagini potenti, dipendenti una dall’altra e che l’una dall’altra traggono forza. Il visitatore, il pubblico, è anch’esso stritolato nel mezzo da due immagini che proverò a descrivere.
Da una parte ciò che chiameremo Sindrome da Carteggio Aspern, l’essere cioè come il protagonista del celebre racconto di Henry James, visitatori interessati, vogliosi di scoprire i segreti dell’arte, rapaci, pronti a tutto, capaci di ogni nefandezza pur di raggiungere i nostri fini, per mettere a nudo l’arte e la sua verità, spogliarla della sua opacità per renderla al mondo senza segreti e priva di asperità che ci mettano in crisi. Lo sguardo normalizzatore.
Dall’altra la sindrome da bordello/museo, una chimera una volta sognata da Baudelaire. Nel sogno il poeta si recava con una certa urgenza a recapitare un suo libro osceno alla tenutaria di una grande casa di prostituzione. Baudelaire, alla ricerca della maitresse si avventura in questo grande palazzo pieno di stanze e cunicoli in cui le ragazze intrattengono ogni genere di clienti. Dopo un po’ l’attenzione di Baudelaire è attratta dai quadri alle pareti. Oltre alle consuete immagini oscene, sono presenti in grande quantità anche figure egizie, ardite architetture, immagini scientifiche, aborti esposti assieme alla data di concepimento e al nome della madre, probabilmente qualcuna delle ragazze che fanno la vita nella grande casa.
Baudelaire mentre attende vagola per il museo/bordello catturato dalle immagini finché giunge in una sala dove su un piedistallo è assiso una sorta di mostro vivente i cui capelli formano una lunga coda di caucciù. Baudelaire intrattiene con il mostro una leggera conversazione sul dolore e sulla noia finché non viene svegliato dalla moglie.
Il sogno del bordello/museo mi appariva di continuo mentre anch’io mi aggiravo nelle stanze di Palazzo Mora. La ragione per qualche giorno mi è sfuggita poi ho cominciato a capire. Nel mostrarsi, nel compiere azioni così davanti a un pubblico, come in una fiera, vi era qualcosa che avvicinava al mondo della prostituzione. E con questo badate bene non sottendo alcun senso moralistico o bigotto. Constato che nell’offrirsi allo sguardo, nel mettersi in “mostra” vi è un che di lubrico, indecente, a suo modo osceno che Baudelaire aveva compreso benissimo seppur in sogno. In fondo lui pure era andato a offrire il suo libro definito osceno alla proprietaria del bordello/museo. Il sottoporsi allo sguardo altrui ha un che di perverso. Qualcuno mi dirà che anche il teatro si pone sotto lo sguardo del pubblico e io rispondo che proprio per questo l’attore è sempre stato circondato da un’aura di cattiva fama, come se provenisse dai bassifondi, da luoghi equivoci frequentati da ogni genere di vizio.
Eppure questo esporsi è un obbligo, un bisogno a cui non ci si può sottrarre. Fare e farsi vedere. L’azione e il gesto diviene potente solo se visto dall’occhio altrui. Un occhio che scruta in ogni dove, un occhio che fruga e cerca di penetrare l’opacità dell’essere per comprendere. C’è un intento come di stupro quando si guarda intensamente l’azione che si svolge davanti a noi. Per questo si prova sempre un po’ di vergogna da entrambe le parti. Eppure ciò è necessario se si vuole affrontare la realtà.
Ed è necessario ancor di più con la performance art perché è arte che deperisce nel suo farsi. Creata e distrutta nel tempo del suo compiersi di fronte all’occhio che la guarda e prova a interpretarla (a volte non è nemmeno contemplata la ripetizione, le cose si fanno site specific, svanito il luogo e il tempo, svanisce l’opera).
Questo guardare e essere guardati diviene il teatro dell’esperienza che pubblico e performance fanno insieme. Nasce una sorta di relazione e di comprensione anche quando questa sfugge completamente. Si è fatto un’esperienza insieme, per quanto inutile. Questo è quanto. E tale esperienza non ha niente a che vedere con l’estetica. E nemmeno con il risultato. Siamo di fronte a dei processi il cui intento è quello di affrontare la realtà, per esorcizzarla, comprenderla oppure denunciarla e tale processo avviene tramite il corpo, un corpo che si mostra di fronte a altri corpi. Ciò non ha più niente a che fare con l’estetica. Ha a che fare con il mistero della realtà e della vita. Come nel caso di Baudelaire e della sua conversazione con il mostro (una sorta di performer ante litteram posto continuamente su un piedistallo, creatura nata nel e per il bordello/museo) ciò di cui si parla è di noia e dolore. La vita, la morte, il tempo. Niente a che fare con l’estetica. Si riflette sulla realtà e sulla vita. E questo senza alcuna ansia di tecnica e di risultato. Si fa. Si procede. Si guarda. Il tutto svincolato dall’utile e a volte persino dal significato.
Immagini dunque dentro altre immagini in un caleidoscopio senza fine. Si rischia quello che Canetti chiamava accecamento.
Ma le immagini sono anche ciò che a noi moderni serve per tenere insieme la realtà. Non siamo più uomini vedici alla ricerca della tela bianca su cui far apparire l’insondabile che erano pronti ad accogliere. Noi moderni, uomini impossibilitati a ritrovarsi nudi senza le vesti che la civiltà ha approntato per noi, ci nutriamo di immagini e di rimandi. Tutto è rappresentazione. La sfida vera è trovare un equilibrio, una connessione e una presenza. :”Le immagini ci servono per tenere insieme la realtà” diceva Canetti che continua: “[…] l’immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi. Così si spiega che certe immagini rimangono assopite per generazioni: nessuno è stato capace di guardarle con l’esperienza che avrebbe dovuto ridestarle”. La nostra esperienza. Lo sguardo che noi pubblico e critica lanciamo verso ciò che guardiamo, la nostra delicatezza o la nostra superficialità devono superare lo stereotipo che grava sulle cornici e sull’evento. Sta a noi. È una nostra responsabilità. Ai curatori il merito di averci sottoposto un mondo variegato sfidando ciò che ci si aspetta da Venezia, dal luogo, dall’arte stessa. A noi la sfida di sfrondare il consueto, separare il grano dal loglio, recuperare la capacità di visione personale senza lasciarsi sopraffare, non clienti del bordello museo, né cercatori di tesori sepolti, semplicemente osservatori che dissezionano ciò che vedono per trovare i semi nascosti dell’essere che pur ci circonda sepolto dai cliché. Se riusciremo in questo molto di noi non andrà perduto.

I’LL BE YOUR MIRROR di Francesca Cola

” Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum “.

S. Paolo 1° lettera ai Corinzi 13, 12

“Per vedere chiaramente la nostra immagine, dobbiamo solamente pulire lo specchio”.

Detto Zen

La questione è urgente. Pressante. Le arti performative sono costrette ad un approccio diretto alla realtà? L’azione politica deve essere strettamente intrecciata all’azione artistica affinché la società/pubblico le riconosca un valore? Oppure è ancora possibile una manifestazione della creatività più intima, che abbia per oggetto i meandri più o meno oscuri dell’animo umano? E ancora: la bellezza è un valore superato? Una bella immagine è depotenziata dalla diffusione dell’estetico? Oppure ciò che è bello può avere ancora una funzione rivelatrice della natura della realtà?
Non di questo parla lo spettacolo di Francesca Cola, ma queste sono le domande che ha sollevato nel pubblico e tra gli addetti ai lavori.
Due donne. Opposte sulla diagonale del palco. Uguali e diverse. Sensualmente vestite come damine anni ’50, con una chitarra in mano. Questo il punto di partenza. Due corpi identici, vestiti con gli orpelli della civiltà, a cominciare un gioco di riflessi, sfasature e sfocature, differenze e ripetizioni in un processo di progressiva spogliazione dei corpi attraverso la metamorfosi delle immagini sempre o quasi sempre duplici. Alla fine, nella luce, due corpi nudi, quasi identici, che sfiorandosi appena, per un momento, diventano uno, e dopo quel breve attimo, intenso e struggente, quasi un sogno, si allontanano per sempre nell’oscurità. Un viaggio. Mistico e alchemico. Dove le immagini dispiegano la loro potenza evocativa. Apparizioni. Dove l’intimo diventa mitico, dove l’esperienza personale da cui l’artista attinge le immagini diventa in qualche modo universale.
Il processo a cui si assiste ricorda lo sforzo di Menelao che lotta con Proteo per ottenere che il dio dica la verità. Menelao affronta le metamorfosi, avendo il coraggio di afferrare il dio, costringendolo a terra per ottenere infine la verità su sé stesso. Lo specchio che rifrange le immagini contiene un mondo dentro di sé, ciò che riflette è il risultato di ciò che è riflesso. Ma è anche pericolo. Laddove il perdersi nelle immagini diventa perdita di se. Cadere nel mondo oltre lo specchio.
La qualità del lavoro è altissima. Ogni immagine è curata, la musica è potente alleata di ogni apparizione. Certo c’è qualche punto farraginoso, qualche imperfezione sempre presente in una prima assoluta, ma questo lavoro prodotto dal Performa Festival, è assolutamente da vedere e merita un destino roseo.
Certo è un lavoro che si pone in maniera scomoda per il modo in cui tratta l’approccio con ciò che è reale. Molti oggi intendono avantgard solo ciò che la affronta in maniera diretta e i problemi che essa pone. Arte come azione politica, come intervento diretto sul reale. Theatre documentaire, theatre du reél, ritorno all’agit-prop. Sembra che lavorare di cesello, in maniera laterale, su immagini evocate dalla realtà, non proprio direttamente attinenti alla contingenza politico/sociologica, trasformare ciò che è in un’icona mitica e mitizzante sia da considerarsi vecchio, superato, qualcosa di legato al mondo classico di concepire l’arte performativa. Certo la realtà di oggi,in questo momento in cui la civiltà occidentale si sfalda e niente ancora appare pronto a sostituirla, in questo momento tutto sembra spingerci a prendere posizione e partito. A scendere in piazza. Ma esiste solo quest’approccio? O è ancora possibile, perfino utile, una riflessione più distaccata, un pensiero artistico più concentrato grazie al potere evocativo dell’immagine/quadro? La Grande Bellezza può essere un atto di rivolta politica? Certo per anni si è cercato di uscire dalla rappresentazione, ma ci si è circondati di rovine, dopo aver profuso sforzi inutili, logorandosi e senza trovare alternativa. Ora è il momento di ricostruire. Ma come?
Io non so rispondere a questo. Come artista e come critico sono portato a credere che sì, oggi, ci sia bisogno di un approccio più diretto, più violento con la realtà, perché la realtà stessa ci aggredisce con immagini e situazioni di una violenza senza precedenti nella loro naturale e comune ricorrenza. Ma credo anche che ci sia bisogno di un necessario distacco, di una riflessione che allontani l’immediato/oggi su uno sfondo di ricorrenze mitiche, come a dire che ciò che accade oggi, è già accaduto in passato e sempre ritornerà. Un’ allontanamento dell’oggi, attraverso un’immagine/supporto, proiettata su uno sfondo, su un velo sottile là dove il trapassar dentro è leggiero. Un po’ come un cielo stellato: informe, eppure pieno di forme che raccontano l’eterna lotte delle forze che agitano l’universo.
I’ll be your mirror. La verità sta nel titolo: sarò il tuo specchio. La scena è specchio, doppio a sua volta. Riflette non proietta. Ciò che vedo all’interno sta a me. Mi dona la libertà di vedere. In questo c’è già un’azione politica: la libertà di vedere o non vedere alcunché. Forse non esiste azione politica più diretta di questa.

Ivo Dimchev

IVO DIMCHEV – P PROJECT

Pochi semplici passi. Cinque candidi piccoli quadri. Ma attenzione Ivo Dimchev non si occupa di ciò che viene disegnato all’interno, a lui interessa costruire una robusta cornice capace di contenere qualsiasi cosa possa apparire. Non siamo nel campo dell’autoralità né in quello dell’estetica. Quello che si manifesta è un piano di consistenza dove ci sono tutte le condizioni affinché alcuni accadimenti possano manifestarsi. Il come e il cosa, non sono nella premessa.
Due computer, una tastiera e un Ipad. Nient’altro.
L’inizio è volutamente fuorviante. Un uomo in tacchi a spillo vestito solo di un’esile tanga bianco e di un trasparente velo color mandarino. Parrucca e rossetto. Si siede alla tastiera. Ringrazia Dio per essere qui riuniti (come a voler insinuare che vi sia, in tutto quello che seguirà, un pizzico di ritualità) e infine da inizio agli avvenimenti. Con garbo grazioso, leggero spinge noi tutti a scivolare sul piano inclinato che lui a preparato per noi.
Vengono invitate due persone del pubblico a salire sul palco, sedersi di fronte ai computer e scrivere due poesie. “Don’t worry”, rassicura sornione “I’m not looking for a professional poets”. All’ovvia riluttanza a divenir partecipi, come incentivo, offre una piccola ricompensa – 20 franchi – Ancora un po’ di incertezza, poi la girandola parte. Un piccolo amo, un’esca, e la pesca può cominciare.
Un paio di giri in questo modo, giusto per prendere confidenza, poi si incomincia, sempre con leggerezza, quasi a voler dire: “tranquilli non c’è problema, niente di male vi può accadere”, si comincia ad alzare la posta. Chi di voi vuole salire sul pubblico e improvvisare, per cinque minuti, una piccola danza? :”Don’t worry, I’m not looking for a professional dancer?”
La posta si alza ancora, ma come al texas hold’em, il bluff si scopre solo alla fine.
Chi di voi vuole salire sul palco e baciarsi per cinque minuti, mentre io canto le poesie?
Tutto molto semplice. I poeti scrivono, i due si baciano mentre Ivo Dimchev canta sciocche canzonette. Niente è stato detto sul contenuto. Sul come baciarsi o cosa scrivere. Tutto è lecito. Ovviamente aumentata la difficoltà, aumenta anche la ricompensa: 80 franchi per un bacio.
Ma non siamo ancora giunti al culmine. Chi è ora disposto, mentre i poeti scrivono e Ivo Dimchev canta, a simulare, nudi, un atto sessuale? Duecentocinquanta franchi a testa per chi si offre. La riluttanza aumenta. Alcuni sono tentati, altri imbarazzati, alcuni perfino un po’ scandalizzati. Ivo in tutto questo è imperturbabile. Lui non va avanti finché qualcosa non accade. Lui non è l’autore, è il costruttore della cornice. Cerca solo, con un pizzico di artigiana abilità, di oliare il motore quanto basta per farlo funzionare. Alla fine, i volontari si trovano. In un nano secondo sono nudi e distesi sul materasso, pronti ad ardite posizioni da Kamasutra. Il loro compito, badate, era solamente simulare un atto d’amore. Dietro le parole interi mondi si aprono. Dal romantico sfiorarsi al porno violento. La scelta di ciò che appare e di quali forze evocare è in mano al pubblico. Un intero universo di valori prende corpo, attraverso la simulazione di una semplice azione. Ecco finalmente siamo giunti all’apice. L’atto è consumato, gli amanti vengono pagati.
Ora non resta che concludere, serenamente. Ultimo step.
Due persone del pubblico devono salire sul palco e scrivere due recensioni: la più brutta e la più bella possibile. Ovviamente: gratis. Qui si fa più in fretta a trovare i volontari. I partiti si sono formati già da tempo. Entrambe vengono lette. Gli estremi si manifestano, la cornice agli eventi è completa. Tutto ciò che poteva apparire esiste tra questi due estremi, e ciò che appare è del pubblico non è dell’autore, che non c’è. Forse esiste solo un deus ex machina in tanga e tacchi a spillo. Il contenuto, squallido o meraviglioso che sia, è determinato dalle scelte del pubblico. I compiti che vengono suggeriti sono semplici, ma dietro la semplicità si nasconde il pericolo della scelta.
Anche il compito di una critica risulta inutile. Qualsiasi cosa si possa dire su questa performance è già stato evocato tra gli estremi. Tutto è come se fosse già stato detto. Quello che si può forse dire, è che in una certa forma, con questa piéce, si è raggiunto un grado zero di autoralità, un zero che non è un nulla, ma la possibilità di un tutto. E se ciò che si concretizza in questo tutto non piace? Non resta che dire mea culpa. Ciò che appare è in noi. Se l’immagine che si rifrange nello specchio risulta orribile, la colpa non è dello specchio. Teatron è solo il luogo da cui si guarda. Nulla è specificato, come nei compiti di Ivo.

DRIVE IN di Gruppo Strasse

Un viaggio. In macchina. Nessuna narrazione, solo il viaggio e il paesaggio. La cornice è sufficientemente ampia per contenere ogni avvenimento, previsto e imprevisto. La città o, meglio, il paesaggio urbano, è la scena. Lo spettatore, unico, ha la possibilità di redimere il suo sguardo dall’indifferenza che grava sulla sua quotidiana osservazione della scena. Gli avvenimenti, le immagini si susseguono: statiche e e dinamiche ma cosa è voluto? Non importa, la domanda è oziosa: tutto rientra nella cornice purché lo sguardo sia pronto a coglierlo, osservarlo. Lo sguardo è il vero protagonista. L’osservatore modifica la realtà e ne è modificato. L’intreccio è avvincente:delicati interventi, frammenti d’azione che attivano il paesaggio, piccoli tocchi che costringono lo sguardo a osservare tutto, anche l’imprevisto che grazie alla cornice è come nobilitato: la signora che esce col cane con quello strano foulard in testa l’avrei osservata lo stesso? E il ragazzo che corre? La roulotte posteggiata male? Qualcosa è avvenuto durante il percorso: il paesaggio urbano è mutato, o forse sono i nostri occhi? Entrambi forse.
Questo giovane collettivo milanese, il Gruppo Strasse, composto da Francesca De Isabella e Sara Leghissa, ha ideato una piéce decisamente intelligente, un intervento urbano radicale seppur delicato, pieno di grazia, non dimentico delle regole di una severa composizione (la partitura di tempi e incontri è molto serrata, inoltre la colonna sonora alternata a silenzi evocativi arricchisce la visione).
Sono sempre stato un po’ scettico sulle operazioni performative per uno spettatore per lo più site specific, ma in questo caso devo ricredermi in quanto l’azione di allargare la scena a tutta una città, la proposizione di un viaggio di esplorazione del consueto così insolitamente esperito rende le scelte operate assolutamente giustificate. Lo spettatore non è forzato, non è passivo, è semplicemente condotto per mano a una scoperta della realtà: a lui la scelta se approfittarne, vedere o non vedere, fare o meno il proprio montaggio delle immagini raccolte da questa stana camera car.

L’intervista che segue è avvenuta venerdì 3 ottobre 2014 a Locarno durante il Performa Festival (Per brevità si è scelto di abbreviar i nomi alle sole iniziali)

EP: Qual’è stata la vostra intenzione nel concepire una performance come Drive in?
SL: L’intenzione era quella di fare un video. Abbiamo montato una videocamera sull’auto e abbiamo cominciato a girare per le strade facendo delle azioni fuori dalla macchina e usando la vettura come strumento per inquadrare. Il passaggio successivo è stato togliere la camera e mettere uno spettatore continuando quindi a usare la macchina come una camera car però avendo anche la relazione con lo spettatore. Drive in quindi è una sorta di sintesi tra il linguaggio cinematografico e quello del teatro, con un rapporto quindi tra chi guarda e chi agisce. Drive in è diventato quindi un viaggio in macchina dentro la città della durata di circa mezz’ora. C’è un autista, uno spettatore, una macchina che inquadra ed è in movimento, che da un ritmo al lavoro, che usa le luci e le musiche per modificare la temperatura del lavoro e poi delle azioni che avvengono al di fuori della macchina agite da performer che lavorano con noi, azioni che si svolgono in maniera molto sottile, che ogni tanto appaiono e fanno delle piccole azioni.
FDI: Le cose che succedono, gli avvenimenti sono situazioni che abbiamo incontrato durante la lavorazione, oppure sono azioni legate al quotidiano. Niente di eclatante quindi. Niente che vada a sconvolgere il paesaggio urbano. A Losone (paese della Svizzera italiana nei pressi di Ascona dove durante il Performa Festival è avvenuta la performance ndr.) in verità le cose sono state un po’ diverse perché abbiamo inserito anche delle azioni che si discostano dalla quotidianità in maniera un po’ più marcata del solito. Questo forse è dovuto al fatto che a Losone abbiamo lavorato in un contesto praticamente vuoto, nel senso che quando iniziavamo la performance non c’era già più gente per strada, a parte i primi giri dove magari incontravamo qualcuno che portava a passeggio il cane. Abbiamo lavorato su contesto vuoto contrariamente ai paesaggi urbani cittadini dove gli interventi si mischiano di più con quanto avviene nelle strade.

EP: Drive in possiamo quindi dire che è un tentativo di commistione di linguaggio tra cinema e teatro?
FDI: Sì esatto. E questo rispecchia la nostra formazione nel senso che Sara viene dal teatro e ha lavorato con la Compagnia Valdoca, mentre io ho studiato cinema. Di fatto Drive In per lo spettatore è come se stesse girando un film, dietro una macchina da presa. La macchina diventa una sorta di regia mobile. C’è il suono, il movimento, le luci. Una commistione tra le due arti, una ricerca di un linguaggio che metta insieme queste due arti.

EP: La strada, la città si può dire che sia il vostro teatro?
SL: Il tutto nasce dalla necessità di mettere e metterci in relazione, di agire delle cose con delle persone. Queste azioni diventano un prodotto artistico ma il nostro bisogno nasce da un intento anche politico, di voler trovare un modo per incontrare le persone, metterci in relazione, in comunicazione. Questo nasce per strada, non nasce dentro un teatro, dentro alla scatola del cinema. La città quindi è uno strumento di incontro. Non assume una valenza di potenza architettonica o paesaggistica, anche se ovviamente, entra nel lavoro in maniera molto forte. La città, o il paesaggio urbano, non è il punto di partenza ma, lavorando in strada, è solo il luogo in cui accadono le cose.
FDI: Si parte dal bisogno di restare in un luogo che attraversiamo quotidianamente. Il nostro è il tentativo di costruire uno sguardo diverso da quello che abbiamo tutti i giorni, un po’ indifferente, magari a causa della fretta. Questo modo di lavorare per strada ci permette anche di essere molto vicini e attinenti a quello che veramente accade nella realtà e che non si modifica con il nostro passaggio.

EP: C’è una commistione tra evento casuale e evento previsto? C’è possibilità di interazione tra le due categorie di eventi?
SL: Sì certo. Noi siamo molto aperte da questo punto di vista. Gli eventi casuali entrano e modificano molto spesso il lavoro.
EP: Ne modificano anche la durata?
SL: Dentro a un meccanismo in cui gli eventi e le azioni si ripetono con una cadenza prestabilita c’è sempre una mediazione tra quello incontri e non è previsto e quello che hai deciso che deve essere. Tutto deve rientrare un po’ in quella griglia, però dentro a questa decisione c’è un’apertura che rende possibile l’ingresso di ciò che accade casualmente.
FDI: Molte delle azioni che decidiamo di fare durante il lavoro nascono molto spesso da un incontro casuale durante i sopralluoghi. Dall’esperienza casuale che facciamo nella conoscenza dello spazio in cui andremo a lavorare, Per esempio qui a Losone, entrando in una stradina, abbiamo incontrato un anziano che saliva con una bicicletta molto, molto lentamente e questa ci è parsa subito un’immagine molto forte che è entrata a far parte del lavoro. Quest’incontro ci ha aperto a una possibilità di lavorare su quell’immagine.

EP: Avete uno spazio a Milano dove lavorare?
SL: No. Attualmente no. Anche se ogni tanto siamo ospitati dal Macao, lo spazio per le arti occupato, che non è proprio una residenza teatrale. È più un luogo dove magari facciamo dei laboratori o usiamo quando lavoriamo al chiuso, ma per lo più lavoriamo in strada.
FDI: Sì siamo ospitati da Macao che però, bisogna dirlo, non è un teatro ma un luogo continuamente attraversato da chi lo vive. È una sorta di via di mezzo tra la strada e un luogo chiuso. È un ambiente vivo, in movimento. Non è uno spazio chiuso come un cinema o un teatro.

INTERVISTA A IRENE RUSSOLILLO

La prima volta che ho visto Irene Russolillo sono rimasto affascinato dalla sua danza graffiante, esuberante, in un certo senso istintiva. Oserei dire che in lei si realizza magnificamente l’ideale di “sprezzatura” definito da Baldassare Castiglioni: ”Da ciò credo io che derivi la grazia, perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficoltà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia…”.
Nei lavori di Irene Russolillo nulla è sforzato, tutto porta a una certa divina grazia, la grazia di una ninfa o di una menade, qualcosa da maneggiare con cura perché contiene in sé una parte oscura, inquietante che appena appare come un’ombra sotto la superficie di uno specchio d’acqua montano. E questa sorta di inquietudine nasce, a mio avviso, dal trovarsi sempre di fronte a qualcosa di veramente intimo, come di confessione segreta, qualcosa da udire con rispetto e conservare nel cuore. È il personale che si riversa e si apre verso il mondo in tutta la sua dirompente fragilità. Ma questo dato autobiografico è sempre distanziato da chi danza, c’è sempre uno scarto come fosse un doppio alchemico: è Irene ma non Irene (Le parrucche, la calotta che nasconde i capelli). Questo distanziarsi da sé, quasi farsi maschera del danzatore, permette che questo universo personale sia avvertito come proprio anche dallo spettatore. In qualche modo si riesce a condividere e a parteciparvi.
Per questo motivo ho deciso questo mese di dedicare una lunga intervista a Irene Russolillo, per parlare dei suoi lavori, dei suoi progetti e delle profonde motivazioni che si annidano nei suoi lavori.

EP: Cos’è per te la danza? E quale pensi sia oggi la sua funzione seppur ne ha una? E quale rapporto ti piacerebbe si instaurasse con il pubblico o un pubblico?
IR: Per me è danza potenzialmente qualunque situazione dinamica che abbia uno sguardo dall’esterno. Lavorare (con) la danza mi pone di fronte molti più elementi oltre al movimento e, rivelandone infiniti aspetti, complica inevitabilmente il significato stesso della parola e il concetto che esprime. La danza può facilitare lo scambio di sguardi e di pensieri tra persone. Inoltre fa venir voglia di accedere più volentieri al (con)tatto. Questo insieme di sguardo, pensiero e contatto può anche emozionare. In generale, attraverso le sue varie declinazioni, la danza può nutrire la ricerca personale e intellettuale di ciascuno, come individuo e come parte di una comunità.

EP: Quando hai capito che la danza poteva essere la tua vita?
IR: Finita l’università, completata in tutt’altro ambito, ho deciso di “provare”; durante l’adolescenza e fino a tutti gli anni universitari, il più delle emozioni provenienti dalla sala di balletto erano state frustrazione e sfiducia. L’incontro con la danza contemporanea e le sue sfumature, il fatto che avessi facilità ad entrare in connessione con certi maestri e che piano piano mi si formasse un gusto e una prerogativa professionale, mi hanno convinto a insistere ma è solo riscuotendo risultati positivi nelle audizioni e piano piano all’interno dei lavori che mi sono “ritrovata” danzatrice.

EP: Quale è stato l’incontro artistico che reputi essere stato il più importante nella tua formazione? C’è un artista che ti ispira, che è il tuo nume tutelare nascosto?
IR: Non ho mai avuto un nume tutelare ma prima di considerarlo un dato di fatto, mi è sempre dispiaciuto non avere un riferimento, un maestro, un “mito” . in seguito ho avuto molti maestri, dai libri e dai video, molti. dal vivo, tre incontri hanno segnato il mio percorso per ragioni molto diverse tra loro, quello con micha van hoecke, cesar brie e roberto castello. ma devo dire che ho avuto “rivelazioni” anche in incontri brevissimi.

EP: Qual’è il lavoro a cui ti senti più legata? E qual’è invece quello che ti ha fatto credere nelle tue capacità espressive?
IR: Il lavoro a cui sono più legata è il mio solo strascichi. c’è un prima e un dopo strascichi per me come artista e per me come persona. il lavoro che invece definisco la “psicoterapia” più efficace nella mia esperienza è stato carne trita di roberto castello, in cui ho “liberato la bestia” (soprattutto con l’uso della voce) e sono andata in territori espressivi ampi e per me nuovi.

EP: Parlando di Strascichi, un lavoro che ritengo molto toccante e graffiante nello stesso tempo, sembra, ma magari è una mia impressione, che l’autobiografia sia il motore importante del lavoro. E’ corretto? e se si, tale motore si limita a quel lavoro o parti sempre da elementi autobiografici che poi in qualche modo diventano opera e si distanziano da te?
IR: Non che abbia ancora un repertorio così vasto, tutt’altro. ho all’attivo 3 soli concepiti e realizzati; al momento sto lavorando su due progetti molto diversi tra loro, in collaborazione con altri artisti. per questi ultimi due andiamo a “pescare” ovunque, fuori e dentro di noi. a posteriori posso dire invece che tutti e tre i soli sono nati da spinte interne “vomitatrici” e inopponibili, quindi sì, decisamente autobiografici almeno nel loro punto di partenza.

EP: Qual è il ruolo che attribuisci alla voce e al canto nel tuo lavoro?
IR: La voce è uno degli elementi della scena. È un mezzo che amplifica possibilmente l’espressività e il senso di quello che faccio. Come strumento a sé e nel suo coesistere al movimento, è un terreno in cui indago e compongo con l’entusiasmo di una principiante, con molta curiosità e stimoli. Il canto è un desiderio, un piacere.

EP: Da quali elementi la natura del tuo movimento trae forza e nutrimento?
IR: Il mio movimento nasce dalla forza anche rituale che la scena mi da, dal momento in cui sono presente sulla scena e ho un pubblico. Da quando ho smesso di seguire un ideale di esecuzione, la mia danza è diventata la mia danza. Durante le prove ripeto le azioni ma è solo in scena che il movimento si nutre e si espande oltre me stessa e, talvolta, malgrado me stessa.

EP: vedendo i tuoi lavori ho sempre avuto l’impressione che l’autobiografia sia un punto di partenza, un elemento portante: se è così in che modo diventa materia nel tuo lavoro artistico? e come riesci a distanziare un elemento così vicino e incandescente?
IR: Nei soli Strascichi e A loan è stata molto importante la scelta dei costumi e del trucco. Cerco di far venire fuori un’immagine sostanzialmente distante dall’ “irene quotidiana”. È un “mascheramento” che serve innanzitutto ad “ingannare” me stessa, altrimenti imbrigliata in drammi esistenziali a cui rimarrei appiccicata. In altre parole, cerco di mettere a punto un piano formale rigoroso – oltre ai costumi, la musica, la danza, le luci, i testi – che faccia da “filtro” e diventi esso stesso contenuto. In seguito cercherò di capire come un mio punto di partenza personale possa stimolare anche altre persone.

EP: Mi parli di Ebollizione? com’è nato? Quale è stata la genesi e la sua fortuna e quale è stata la sua importanza nel tuo percorso artistico?
IR: Ebollizione è nato da una spinta esterna, a creare qualcosa di mio. Io che da tanto ormai stavo stretta nei soli panni dell’interprete, ho messo nel pezzo diverse delle cose che già da tempo avrei voluto fare. Ebollizione è nato nella totale solitudine, non avevo ancora il coraggio di coinvolgere qualcun altro. ne è venuto fuori uno sfogo anche divertente ma al quanto acerbo.

EP: Parliamo di A Loan. da cosa nasce l’esigenza di affrontare questo viaggio nell’oscuro e nella debolezza? E in cosa consiste “il prestito”?
IR: Rifletto spesso su quanto non ci sia scelta nelle relazioni umane se non accettare le parti oscure di ciascuno per stare in dialogo con gli altri, in primis le persone che ci stanno più vicine, anche se non le “capiamo”. Ho voluto dialogare con queste parti oscure che sono giudizi, desideri, paure, intenzioni, ricordi e a cui ho dato il nome comune di “fantasmi” ; nel farlo mi sono ritrovata di passaggio su strade probabilmente già tracciate o da risolcare che, in sostanza, non sentivo di possedere. Le parole di alcuni sonetti di Shakespeare sono state il motore scatenante di tutto il lavoro perché risuonano profondamente in me, non avrei potuto trovare altre parole e quindi mi sono concessa questo prestito dal Poeta.

EP: A Loan mi è sembrato un lavoro molto meno istintivo rispetto a Strascichi o a Ebollizione, un lavoro molto ponderato, riflessivo, solido ma fluido, come se per affrontare l’oscuro tu abbia in qualche modo messo un freno alla tua vitalità esuberante, come se ci volesse più circospezione, più prudenza. é una considerazione che vorrei che tu possa commentare, se lo vuoi.
IR: Ho cercato di comporre una formula con i vari elementi, in un lavoro al cesello. Parlando di “ciò che c’è, anche se non si vede” (v. fantasmi della domanda precedente) non potevo liberare l’energia né avere un potere liberatore su chi mi guarda. I movimenti sono muscolari e compressi, la calotta nasconde i capelli, la luce e la musica sono ipnotici. Per parlare di assenza avevo bisogno di nascondermi un po’.

EP: Verso quali orizzonti ti sta portando la tua ricerca?
IR: Non mi pongo grossi limiti, per me la danza ha molti sensi e varie misure. E, in generale, ho molti desideri.

Milo Rau

Intervista a Milo Rau

Questa inteervista a Milo Rau è avvenuta a Ginevra nell’Agosto 2014 durante il Festival de la Batie

EP: devo fare una confessione: non ho ancora visto un delle tue istallazioni performative o azioni teatrali, lo vedrò stasera (Hate Radio Giovedì 4 settembre 2014 a Ginevra nella Salle des fetes du Lignon nda.) ma c’è qualcosa che mi intriga per come affronti direttamente la realtà contemporanea. Mi piacerebbe quindi comprendere meglio come si sviluppa e nasce il tuo theatre du reél. Ma partiamo dall’inizio: cos’è il theatre du reél?
MR: non credo che il mio sia propriamente Theatre du reél. Il mio teatro ha forti legami con la realtà ma non è Teatro documentario. Il mio non è un teatro che documenta la realtà, che la rappresenta è più il tentativo di fare una rappresentazione che ha una realtà essa stessa.
A questo proposito amo molto citare Jean-Luc Godard. Lui non parlava propriamente di teatro ma di realismo e diceva: ”Il cinema realista non è quello che rappresenta la realtà ma quello che si occupa della realtà della rappresentazione”, il che vuol dire che ciascun momento sulla scena deve essere reale. Questo è il Theatre du reél. Un teatro che ha un impatto forte come il reale, che è un intrusione forte nella società contemporanea. Alla fine credo sia questo che cerco.
EP: Per i Greci antichi Teatron era il luogo da cui si guarda il mondo, potremmo quindi dire che il Theatre du reél è un tentativo di recuperare l’etimo originario?
MR: È giusto. Ho sempre pensato al mio lavoro come a una risposta al teatro postmoderno che si interessa a decostruire la realtà e a dire che la rappresentazione è impossibile. Ecco io mi ritengo profondamente conservatore. Cerco di ritornare alle radici del teatro: un processo sulla scena davanti a un pubblico, un giudizio su un fatto di importanza morale capitale. Non non tentativo di rappresentare qualche cosa che è assente ma un tentativo di creare un qualcosa di poetico. E cerco di farlo attraverso differenti forme di rappresentazione. Cerco di fare dei processi sulla scena per esempio, un processo della durata di tre giorni (il processo di Mosca nda.) dove c’è una giuria e un verdetto, come nel teatro antico, una giuria che dice alla fine qual’è l’opinione pubblica. Con un finale aperto quindi. D’altra parte cerco anche di trovare un linguaggio che sia un po’ mitico a partire dall’autobiografia degli attori (Civil Wars l’ultimo spettacolo di Milo Rau nda.). Oppure in Hate Radio che è un tentativo di rappresentare una cosa che diviene in qualche modo mitica, ma non alla maniera surrealista, ma in modo molto chiaro, molto puro, molto semplice. È una cosa che quando ho cominciato, e ora sono più di dieci anni, tutti mi dicevano che non si poteva fare. All’inizio del XXI secolo non puoi fare un realismo di questo genere. Devi decostruire mi dicevano e questo è in effetti quello che ho imparato a scuola: a criticare e decostruire. Ma alla fine io credo che a furia di decostruire ci troviamo circondati da rovine e bisogna ricominciare a costruire qualche cosa. Ed è quello che cerco di fare con il mio teatro o nei miei film: di fare un’estetica molto semplice, che si occupa delle questioni fondamentali come la guerra, l’amore, la decisione. Ecco io credo che il teatro antico sia stato un teatro di decisione, dove si prendevano delle decisioni, un teatro di antagonismo.
EP: In effetti all’origine dell’Occidente c’è la guerra, il tribunale, pensiamo all’Orestea, e la violenza quella familiare e quella dello stato, della guerra.
MR: Sì esatto. La guerra. E la fatalità che introduce nella fatti umani qualche cosa come un ordine. Ecco io cerco di fare un ordine. È questo che cerco di fare. All’origine del teatro c’è il processo ma c’è anche il rito, un rito politico ma non nel senso fascista di oggi con un po’ di luci e di suoni che ci mette di fronte a qualcosa che dobbiamo sognare, ma un rito in piena coscienza un rito razionalista. Ecco cos’è il teatro per me: un rito razionalista.
EP: Mi puoi spiegare il concetto di reenactment? Leggendone la definizione mi sembra un applicazione teatrale del metodo scientifico dove si cerca di riprodurre il laboratorio qualcosa che è già avvenuto altrove per scoprirne il funzionamento. Riprodurre un avvenimento staccato dal flusso della storia è un modo per carpire e comprendere la verità nascosta? Qual è l’obbiettivo di un reenactment?
MR: Credo che in parte hai già dato una risposta. In un reenactment ci sono tre cose: la prima è la mia risposta all’estetica teatrale, dove c’è un’interdizione alla rappresentazione e al naturalismo che viene da Brecht. È un’idea molto tedesca, una paura del fascismo, una paura di fare un rito sulla scena ed è per questo che il teatro tedesco è così accademico. Ecco io quindi mi sono detto voglio fare il proibito per eccellenza: voglio fare del naturalismo puro che ricostruisca la verità. Allora sono arrivati e mi hanno detto che la verità non esiste, che Derrida ha detto questo e Foucault ha detto quell’altro, ma io ho deciso di farlo lo stesso come se in effetti ci fosse una verità. Questa è stata la mia prima idea. La seconda è che voglio comprendere, per esempio sull’esecuzione di Ceausescu (Les derniers jours de Nicolaj Ceausescu nda), voglio comprendere perché queste immagini che sono così importanti nella nostra società, come le immagini delle decapitazioni in Siria, dov’è la forza di queste immagini, che cosa c’è la dentro, come comunicano queste immagini, come comunicano i media e gli uomini. La terza questione è evidentemente politica: ripetere una situazione che la prima volta è stata fatale, ma che nella seconda è aperta per esempio il processo contro le Pussy Riot (Les proces de Moscou nda.) dove c’era una giuria popolare, l’accusa etc. E quando ho domandato all’avvocato delle Pussy Riot che era l’avvocato anche nel vero processo perché volesse partecipare al mio reenactment e lui mi ha risposto:” Sai perrché? Perchè è la prima volta che faccio quello che faccio in teatro”. In effetti in un vero processo si fa del teatro. Si sa da dove si parte ma non si sa come va a finire. Ed è questo che è sempre frainteso a proposito del reenactment che non è la rappresentazione di una verità storica ma è una riproduzione di una situazione, un situazione aperta. Come ha detto Clausewitz, nel momento in cui inizia la battaglia anche i piani più accurati vanno all’aria. Il teatro è così, e come una campagna militare, si fanno dei piani molto chiari e accurati e quando si comincia con le prove… Io comincio, metto un titolo, scrivo un soggetto, scrivo un copione e poi straccio tutto il primo giorno quando incominciano le prove. È sempre così.
EP: Visto il confronto così diretto con la realtà e il realismo, perché il teatro e non il cinema o, meglio, non solo il cinema?
MR: Il teatro è sempre un azzardo. E io stesso sono arrivato al teatro per caso. Io sono veramente interessato a scoprire in quale maniera si possa entrare in contatto con il pubblico. E poi bisogna dire che in Germania e nei paesi germanofoni più che in Francia o in Italia, il Teatro è l’arte numero uno. Il cinema tedesco è discutibile, la letteratura tedesca esiste, ma se tu vuoi fare veramente dell’arte, allora fai il teatro. Da noi è così, è qualcosa che è nella società, perché c’è dentro tutto il mondo e tutte le cose. Nel teatro tu hai la possibilità di fare della filosofia, dell’azione politica e il dramma, puoi fare tutto nel medesimo tempo. È per questo che c’è stata così tanta discussione sulle mie piecès, e non credo, o per lo meno non ne sono sicuro, che in un altro paese ci sarebbe stato così tanto dibattito su una piece teatrale.
Quello che amo veramente del teatro è che alla fine di ogni serata tu puoi veramente incontrare il pubblico, parlare con loro, cosa che ad esempio nel cinema non succede a meno che non si presenzi alla premiere. E poi c’è l’incertezza, ogni sera c’è sempre un po’ di terrore. Per esempio Hate Radio è stato rappresentato in quattro anni più di duecento volte eppure a ogni nuova serata non sai mai se tutto andrà bene, se qualcosa nella tecnica può non funzionare, se nel pubblico ci sarà gente a cui non piacerà lo spettacolo. Ecco il teatro è qualcosa che ricomincia tutti i giorni da capo. È terrorizzante ma nello stesso tempo è qualcosa che ti risveglia. Mi piace questo, di confrontarsi tutti giorni con qualcosa di nuovo e differente. Anche se quando hai finito le prove ti sei detto: “ecco è finito”, non è mai finito perché gli attori recitano ogni sera in una maniera differente, tu stesso cambi delle cose nel corso del tempo. È questo che mi piace del teatro.
EP: Un’azione artistica o teatrale non è sempre politica anche se non si occupa direttamente, palesemente di politica? Per esempio quando Duchamp crea il suo primo readymade mette in questione la totalità della realtà, era un’azione rivoluzionaria, era un’azione politica senza esserlo in maniera evidente. Lo stesso potremmo dire per il pezzo silenzioso di John Cage: integrare i suoni esclusi nel linguaggio musicale, far sì che ogni suono sia musica era un’azione fortemente politica anche se a essere messo in gioco era soltanto il linguaggio musicale. Perché quindi mettere in discussione la realtà in maniera così frontale?
MR: Potrei dirti che queste sono le cose che mi interessano. Per esempio le immagini dell’esecuzione di Ceausescu sono qualcosa che mi ha colpito da bambino in maniera indelebile e che sono tornate vent’anni più tardi. Per il Processo di Mosca ero più che altro interessato a portare un tribunale sulla scena, a fare un processo sulla scena e cercavo qualcosa che scatenasse un antagonismo forte. E questo forse un po’ il senso dell’azione politica così come io la concepisco: quando e se si crea un antagonismo. Sulla scena appaiono due cose che si considerano dalla loro parte entrambe come l’ortodossia. Da una parte e dall’altra, gli ortodossi e i dissidenti. È qualcosa di molto forte nella società russa e che non si possono riunire. Come nelle tragedie greche di cui abbiamo parlato prima. C’era la legge degli uomini e c’era la legge degli dei in perenne antagonismo, due forze che non si potevano conciliare. Due etiche inconciliabili. Come in Antigone c’è lei che vuol fare qualcosa per suo fratello perché vuole obbedire alle leggi degli dei e alle leggi delle emozioni, e c’è però la legge degli uomini che glielo impedisce. Ecco lì c’è un antagonismo che diviene fatale. È questo che mi interessa. Creare delle piece dove in effetti si scateni un antagonismo fatale. Per esempio in Hate Radio c’è la mondializzazione che è estremamente positiva, c’è un emissione radiofonica estremamente seguita e nello stesso tempo è un genocidio. Un genocidio in sé non è qualcosa che mi interessa perché è soltanto grande assassinio, è follia umana. Così come della musica divertente che ascolti alla radio. Ma quando metti le due cose insieme ecco lì c’è un antagonismo, un qualcosa che non va. È questo che mi interessa. E a ben pensarci in effetti c’è qualcosa dell’orinatoio di Duchamp in questo, dell’antagonismo nella realtà. C’è però da dire che il teatro non è un arte plastica, è un arte vivente e così io cerco l’antagonismo nell’umano. Non so se sia politico, o populista questo cercare a tutti i costi il confronto, ma io credo che quando si crea un antagonismo lì c’è qualcosa che nasce. È questo che mi interessa. Quando ci sono delle persone che non possono mettersi d’accordo lì c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che non va quando si mette Breivik sulla scena (The Breivik’s statement nda.) ma è questo che mi interessa: quando c’è qualcosa di veramente, profondamente discutibile. Quando si fa di un genocidio uno spettacolo radiofonico questo è qualcosa di assolutamente discutibile. Di fronte a queste cose veramente ci si domanda: “ma perché?”.

Milo Rau è nato a Berna nel 1977 ed è uno degli esponenti più rappresentativi di quello che è chiamato teatro documentario o Theatre du reel. Tra i suoi lavori che sono stati presentati nei più prestigiosi teatri e festival teatrali europei ricordiamo: Les derniers jours de Ceausescu, City of Changes che ha creato grande scalpore in Svizzera trattando il tema dell’immigrazione, Hate Radio, il processo di Mosca, Breivik’s Statement, e l’ultimo suo lavoro Civil Wars.
Noi l’abbiamo incontrato a Ginevra durante il festival de la Batie dove ci ha concesso questa piccola ma interessante intervista. In Italia verrà per la prima volta il prossimo 19 e 20 settembre 2014 a Terni.

LA MERDA di Cristian Ceresoli con Silvia Gallerano

Recensire uno spettacolo così acclamato, di cui si è parlato così tanto e molto bene, è un’impresa improba. Cosa si può dire d’altro quando così tanto è stato detto? Se si uscisse dal coro sembra che uno voglia fare il diverso, distinguersi per forza, fare il poser che vuole dire la sua a tutti i costi. Se ci si accoda al coro unanime? A che servirebbe? Diventa quasi impossibile, è come se la critica di fatto venisse disinnescata, impossibilitata a fare il suo mestiere. Eppure proverò a raccontare le mie impressioni di fronte a questo spettacolo.
Partiamo dall’ovvio: la Gallerano è un mostro di bravura. Tra tanti premi dati a vanvera, lei sicuramente se ne meriterebbe uno. È una grande attrice, che interpreta un testo non facile, nuda sul palco, messa in mostra, sul trespolo come il mostro sognato da Baudelaire nel sogno del bordello-museo. E lei racconta, con quella voce acuta, in qualche modo timida e dimessa nel suo squillare, che nel raccontare si trasforma in altre voce, assume altre voci, e grida la sua sottomissione allo schifo che ci inonda e che dobbiamo ingoiare, e resistere a non vomitare, perché questo in fondo il paese costruito dalla e sulla resistenza, e quindi mangiamola ‘sta merda, abituiamoci. Ripeto: impressionante la sua bravura. Questo è quello che mi ha colpito come un sasso in fronte.
La donna nuda in scena? Il chiacchiericcio da teatro, gli sguardi al telefonino per l’ultimo messaggio o un controllo veloce su facebook non ne viene disturbato. Quasi il pubblico non la nota, procede tranquillo nelle sue occupazioni. E poi le solite tossi da teatro, le carte di caramelle. Insomma la donna nuda in scena lì sul trespolo non attira più che tanto gli sguardi. Siamo abituati a ben altro che una normale donna nuda in scena non sconquassa più di tanto.
Il testo è forte, ma non fortissimo. Non mi sento di gridare al capolavoro. É un ottimo testo, graffiante, a volte ironico, uno straparlare e sproloquiare che avvince ma non rivolge l’animo. Trovo che le performances di Ivo Dimtchev siano molto più ficcanti nel corrodere i meccanismi della società-spettacolo. Certo viene molto da pensare all’effetto Black Mirror, dove ogni oscenità come ogni rivolta all’oscenità siano ormai totalmente inserite nel sistema, quindi inefficaci. Forse ci siamo veramente abituati a tutto, forse non siamo più capaci di sconvolgerci e noi italiani più di altri oppressi come siamo dallo scandalo quotidiano.
Mi sono posto però due domande? Perché una donna? Non una donna nuda, proprio una donna. Forse che un uomo non potrebbe dare un’idea di schifo così profonda, perché la donna ne subisce di più, è costretta ad accollarsi quelle delle donne più quello che gli uomini riversano su di loro. Su questo punto non riesco a trovare una posizione.
L’altra perplessità riguarda il continuo accenno a una velata censura riguardo a questo spettacolo. Non capisco il perché dovrebbe esserci. Lo spettacolo gira tantissimo, la stampa tutta ne ha tessuto le lodi. Ha girato in Europa e nel mondo. Non mi sembra nemmeno che un potere politico possa impressionarsi di fronte a questo j’accuse, anche perché non è mica l’unico e nemmeno il più efficace. Mi sembra invece proprio che il sistema e la società sia pronto ad accoglierlo, a guardarlo e ascoltarlo senza paura come i clienti del bordello-museo non sono sconvolti dal mostro sul trespolo mentre conversano e fottono. Mi stupirebbe la censura.
Certo ci sono casi beceri come il caso della GTT, l’azienda di trasporti torinese, che si rifiuta di pubblicizzare uno spettacolo con un nome simile perché contrario alla sua policy. E uno vien da chiedersi ma proprio la parola merda vi fa così scalpore nel paese dell’osceno perenne? Ma poi invece uno ci pensa e dice che ‘sto scandaletto alla fine ha fatto più pubblicità che altro e infatti il teatro era strapieno.
Insomma se devo esser sincero quello che mi ha colpito veramente è la bravura sopraffina della Gallerano. Chapeau! Davvero! Ma per il resto devo dire che siamo nel teatro quello che racconta, distante, che non scatena processi di autocoscienza, come il citato Ivo Dimtchev. Si ascolta passivi, che se fosse stato un radiodramma poco o nulla cambiava. Non so. Devo dire che sono perplesso. È sicuramente un lavoro di ottima fattura, con un’interprete straordinaria, che però non mi convince appieno.