Jesus

JESUS di Babilonia Teatri

Potrei dirvi che questo lavoro di Babilonia Teatri mi è piaciuto. Ma siamo nel campo del gusto, dove tutto è aleatorio e possibile. Potrei dirvi che il Jesus tratteggiato con forza espressiva notevole mi trova d’accordo. Vorrei un Jesus così! Ma siamo nel campo delle opinioni. Un integralista cattolico probabilmente urlerebbe all’eresia. Ci troveremmo nel campo in cui in qualche modo, forzatamente, ci si schiera. Io vorrei muovermi nel campo della critica, parlare di linguaggio teatrale, parlare di materiali, tecniche e funzioni del teatro a partire da questo Jesus presentato da Babilonia Teatri. Lo spettacolo, Jesus, per un momento, lo lasciamo da parte.

Inizierò un po’ alla maniera dei matematici. Facendo un discorso che parte da un assunto assurdo.

Se qualcuno presentasse una sinfonia composta secondo i dettami del classicismo viennese, in quattro movimenti, con due temi, esposizione sviluppo e ripresa, con assunti armonici, melodici e contrappuntistici dell’epoca di Mozart, come la prenderemmo? Urleremmo all’avanguardia? Attenzione non sto parlando di un neoclassicismo in cui i modelli storici vengono ripresi e riformulati in un contesto contemporaneo (anche questo peraltro già fatto ampiamente). Sto parlando proprio di un calco. Probabilmente, di fronte a un fenomeno di questo tipo, scrolleremmo le spalle e prenderemmo la cosa come una curiosità, un sorta di fenomeno eccentrico, oppure ignoreremmo l’accaduto.

Eppure quando vado a teatro, sempre più di frequente, mi trovo di fronte a lavori il cui impianto formale, compositivo e strutturale, non è molto diverso da quello dell’epoca di D’annunzio o Stanislavskij: testo preesistente composto più o meno ad hoc; scene chiuse che preludono a uno sviluppo lineare che conduce a un esito definito con intenti morali, educativi, didascalici, frutto delle riflessioni dell’artista che ci fornisce la sua idea su questo o quel problema; attori che imparano un testo a memoria, lo interpretano, e lo manifestano sulla scena attraverso una performance prettamente vocale più che corporea; visione frontale di un’unica azione il cui punto di vista ancora è dominato da una focale prospettica. Certo questo fenomeno non è monolitico. Ci sono degli sfasamenti, degli inserti di contemporaneo ma la struttura compositiva è di fatto dominata da questi elementi. Strumenti vecchi che mantengono intatta la macchina della rappresentazione teatrale inchiodata sulla croce della tradizione consolidata.

Dunque se il linguaggio è vecchio e obsoleto, se si rimane tutto sommato inquadrati in un canone acquisito e non messo in discussione, che importa se l’immagine un po’ alla Cattelan dell’agnello appeso per le gambe che sovrasta un cumulo di patate sotto un lampadario antico è forte e potente? Che importa se la figura di Gesù tratteggiata sulla scena, un’immagine che tenta una sua rivalutazione nonostante la mercificazione a cui è sottoposta, è convincente e auspicabile? Non siamo di fronte alla vittoria della tradizione teatrale consolidata nel momento che utilizziamo strutture formali che dimenticano le dolorose battaglie affrontate dal contemporaneo per affrancarsi proprio da tali fardelli strutturali?

Che fine hanno fatto le visioni utopiche di un teatro che si affranchi dal dire, che si liberi dal testo, che scardini la visione frontale, che affronti il pubblico in modo che la sua passività venga in qualche modo bypassata, che rivaluti l’attore come corpo in movimento che faccia segni all’interno di un rogo? E che fine hanno fatto i discorsi riguardanti il montaggio delle attrazioni, la simultaneità, la sorpresa, la velocità di flusso, lo sfasamento della percezione di tempo e di luogo, i punti di vista multipli e spiazzanti? Se ci si muove in strutture compositive, formali e produttive obsolete come è possibile che nasca un fenomeno nuovo che faccia rinascere il teatro come arte autonoma e attiva all’interno di un contesto sociale contemporaneo?

Oggi come oggi la danza sembra aver acquisito le rivolte del teatro. La danza sembra muoversi, non gravata dalla schiavitù della parola e del dire, in un contesto che rivaluti il corpo in movimento che crea immagini evocate, potenti e significanti. Così come la performance meno sottoposta ai gravami formali di una tradizione, più libera di creare e sviluppare situazioni inconsuete. In Italia il futuro del nuovo teatro si scorge più in altri contesti, sviluppato da altre arti. E questo appare ovvio visto che in fondo le strutture critiche e produttive sono rimaste quelle del tempo di Pirandello. Se non si cambia tutto il sistema difficilmente scorgeremo sulle scene opere che facciano intravedere nuovi orizzonti. Saremo costretti ad applaudire un vecchio decrepito travestito da novità. È sul linguaggio che bisogna lavorare, sulle funzioni. Se non si ripensa a tutto questo, se non si rimette tutto in discussione si rischia di accontentarsi di quel che c’è. E io personalmente sono un po’ stufo di accontentarmi del meno peggio, anche perché, come diceva Carmelo Bene, il meglio del peggio è il pessimo.

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