Non è una novità che fin dal primo ingresso della calura estiva, spesso talmente insopportabile da rendere persino la pelle un vestito troppo pesante da portarsi addosso, la cara “mamma Emilia” si sia abituata ormai da molti anni alla metamorfosi del suo teatro, lasciandolo libero di tornare tardi alla sera e di scorrazzare un po’ dappertutto, finalmente affrancato dalla supervisione matriarcale delle stagioni invernali: è il tempo dei festival, dei parchi popolati di voci, delle strade che si riprendono tutti i diritti del palcoscenico, delle colline dagli occhi “spettatori”. Non è una novità neanche che accanto agli appuntamenti culturali più frequentati e attesi, la cui notabilità e popolarità raggiunta negli anni continua comunque a conservare qualcosa di singolarmente ed elettricamente esaltante (e non siamo forse nell’epoca della giusta quanto continua lamentazione sulla scarsa partecipazione pubblica alla vita teatrale e culturale in genere?), proliferino ancora lungo tutto il territorio occasioni magari più piccole, ma che con la loro minima quanto necessaria, e spesso difficoltosa, presenza danno una testimonianza spesso qualitativamente molto valida di una inesausta volontà di resistenza. Per essere, esserci. Nell’accelerazione delle organizzazioni festivaliere, dei programmi da controllarsi ogni giorno, degli appuntamenti – quelli “imperdibili, eh!” –, una certa modalità di incontro “ristretta”, attraverso borghi e luoghi lontani dalle tentacolari proposte culturali metropolitane, conserva ancora un certo sapore fresco, un gusto leggero: specie se diventa lo sfondo per ulteriori necessità, ulteriori urgenze. E allora non sorprende che alcune illuminazioni e alcune visioni possano comparire proprio in queste occasioni. Il caso della compagnia teatrale bolognese ReSpirale Teatro rientra esattamente in questi canoni.
Attiva dal 2007, vincitrice del premio Scenario nel 2010 e ancora “a piede libero”, la compagnia ha salutato l’inizio dell’estate con due diversi spettacoli che, fosse anche solo per il rapporto di diversità “interna” che intrattengono fra loro, cosa del resto mai del tutto immediata per una comunità teatrale, meritano di sicuro una menzione; per tutto il resto, basti e avanzi l’insegnamento grotowskiano: nessun teatro è indispensabile. Serve solo ad attraversare le frontiere fra l’uomo e l’uomo.
Lasciando la verifica dell’assunto direttamente al pubblico che verrà, partiamo dallo spettacolo più “anziano”, Again/ By now, vincitore del premio Scintille di Torino nel 2014, e in replica lo scorso 17 giugno alla Rocca di Cento, per Contemplazioni – Festa del Teatro e delle Arti. Lo spettatore di sicuro è accolto nel migliore dei modi: rotoli di carta igienica lasciati sopra ogni poltrona. Una piccola forma di benvenuto da interpretare a piacere, qualsiasi forma di sghignazzata è bene accetta. Ergo, volenti o nolenti, in questo spettacolo si ride.
Una piccola parentesi si potrebbe adesso riservare per la gioia di quanti fra i più assidui frequentatori di teatro siano vittime di una forma speciale e compulsiva di arricciamento di naso, nel trattare della questione della risata all’interno di uno spettacolo: la commedia sì, va bene, ma nei suoi binari, il teatro è un’altra cosa. Scegliamo però di far nascere questa parentesi già chiusa: con Again/By now ReSpirale non ci mette molto a trascinare lo spettatore all’interno del suo sistema. E in tale struttura si ride, sì, e si ha l’impressione di giocare, sì, ma con regole ben precise. Pop puro. Lo sfondo che c’è e non si vede è una realtà da bestie: a riempirla ci sono Berta e Boxer, coppia a tinte fluo, figli della metamorfosi degli infaticabili cavalli orwelliani, e ingranaggi di un’estetica fin troppo riconoscibile e kitsch. Estetica che riconosce se stessa e si nega, che si afferma mentre si distrugge. Che, così facendo, si rinchiude in una gabbia di ripetizione senza fine. A poco val chiedersi “quando è iniziata?”. Cominciare significa finire, finire senza sosta, per tutta la durata di uno spettacolo che non è tale. I due attori e performer Giulia Olivari e Michele Pagliai, col puntello di una drammaturgia brillante, un gioco di scatole identiche con nastri sempre diversi, sono fin troppo incisivi nel trasformare a poco a poco questa agrodolce e indiscutibilmente grottesca ripetizione delle medesime dinamiche – di coppia, sempre e solo di coppia, nucleo di base in cui cercare relazione, contatto e stabilità, salvo poi trincerarsi in una sempre più discutibile autoaffermazione di singolarità e soggettività, ed è qui che la riflessione di ReSpirale affiora in tutta la sua leggera potenza pop – in un meccanismo ominoso, in uno spettrale personaggio a tutti gli effetti, che opera e agisce sulla scena. La sensazione è innegabile: vuoi per il sapiente utilizzo delle luci, didascaliche mai, comunicative sì, nella loro essenzialità di marcatori della ripetizione; vuoi per la scelta musicale, che fa costantemente eco a se stessa nella differenza; vuoi per l’incursione di un ulteriore sottolivello di ripetizione che diventa il rapporto dei due personaggi con uno schermo che proietta spezzoni di Via col vento: tutto diventa in un attimo l’azione e la parodia dell’azione stessa. Non servirà dover grattare così tanto sulla superficie di questa scatola apparentemente perfetta per riscontrarne la natura inquietante. Qualche perplessità permane rispetto alla modalità scelta nel finale (il grande paradosso di dover trovare una fine a uno spettacolo composto solo di finali), che vede i due protagonisti scendere in platea assieme agli spettatori, nel tentativo di un primo ipotetico “inizio”. Va detto però che questo né si pone come definitivo (strano, eh?) né è alla ricerca pretenziosa di una sintesi, che palesemente non c’è.
Di questi ordigni infernali, di un teatro che diventa un gioco da giocare, e giocare bene, con il suo carico da novanta di regole e limitazioni, ReSpirale sembra averne fatto una cifra stilistica, se è vero che il neo-nato studio, dal titolo IOhERO, presentato agli inizi di giugno al Teatro Cortazar nel corso del Totem Arti Festival di Pontelagoscuro, conferma sotto certi punti di vista le stesse costanti “strutturali” già osservate, ma operando una sostanziale variazione a livello di linguaggio: se prima un certo tipo di immaginario stereotipico da indigestione massmediatica e social veniva riprodotto, vestito, e in qualche modo anche svestito, nello spettacolo precedente, qui ci troviamo di fronte a un canto, una ricerca vocale e sonora delle più fini.
Cantami, o Diva… Questa volta a essere tirato per le orecchie è nientemeno che Omero e la sua Iliade. Perché? Perché l’Iliade, “social”, sotto tutti gli aspetti lo è già. Ero, sono, sarò. L’eroe omerico non è altro che il frutto di una spinta interna e, classicamente, passionale verso la fama, la realizzazione, il raggiungimento, di cosa o chi non ha importanza, importante è stare al gioco, fino in fondo. Sulla scena vediamo Debora Binci, Michele Pagliai ed Emanuele Tumolo, sotto la direzione di Veronica Capozzoli, optare ancora una volta per il riverbero, attraverso i sentieri a tratti cupi di una drammaturgia intelligentemente rubata al linguaggio “da piattaforma”: una santa trinità di microfoni riempie lo spazio scenico di echi guerreschi. Battaglia effettiva: il suolo è solcato dallo schema del gioco della battaglia navale, che costringe nel punto centrale dello studio i due contendenti Paride e Achille a fronteggiarsi da casella a casella, sotto lo sguardo di una Elena perfetta conduttrice da reality-show; e battaglia interna: chi sono questi eroi? Che tipo di epica incarnano?
Manca qualsiasi volontà di retorica, ancora una volta. Ci si riconosce e basta. Si prova ad affermare il sé, e si salta a piè pari lo scalino del “cosa”: cosa volere? Cosa guardare? A cosa tendere? Un nuovo “mondo bestiale” viene riproposto con una maestria ironicamente tragica. I tre attori, tutti su tacchi vertiginosamente alti, evocano e riproducono con straordinaria precisione un trotto da cavalli – un plauso all’utilizzo mai puramente estetico o stilistico dei mezzi scelti, così come alla continuità tematica instaurata con i predecessori Berta e Boxer – e chiamano lo spettatore ad assistere a quello che di nuovo è un mondo chiuso in sé. Solo che il passaggio, la rottura, la si tenta qui attraverso una guerra di status su facebook, di visibilità on-line, scontro costruito sulle insicurezze, utilizzando la freddezza di una voce distante, metallica.
È una macchina scenica potente, quella creata da ReSpirale, funziona come una camera oscura particolarmente angusta, dalla quale sviluppare istantanee del mondo presente con sempre una leggera sfocatura. Tuttavia è proprio quando la struttura si chiude che il tempo proprio al teatro, quello di extra-quotidianità, di contatto e relazione fra l’uomo e l’uomo, viene a schiudersi, e il pubblico questo lo sente in maniera forte. Anche in questo caso, qualche perplessità sulla scelta, a livello iconografico, di trasformare il corpo di Achille in un Cristo morente, molte meno su quella di costringergli mani e testa nella morsa dei microfoni. Questi ultimi, però, mancano poi di esplodere in un grido, si mantengono muti. Tuttavia, trattandosi di uno studio presentato nella sua forma ancora embrionale, interrogarsi ora sul finale scelto è forse prematuro. Piuttosto, rispetto alla qualità del risultato di questa prima fase di ricerca e quella della presenza scenica degli attori l’unica cosa che si potrebbe dire è: “to be continued”.
Di Maria D’Ugo