Armando Punzo

PROGETTO HYBRYS: LE PAROLE LIEVI di Armando Punzo

Una nota singolare, specie all’ingresso in un carcere: quella che accoglie il pubblico all’interno della Fortezza Medicea di Volterra, per i cinque giorni di presentazione de Le parole lievi, preludio di un lavoro più lungo che approderà a compiutezza da parte di Armando Punzo e degli attori tutti della Compagnia della Fortezza soltanto il prossimo anno, è un’architettura di potente, ma leggera, delicatezza. Due colonne di uomini, gli attori detenuti della Fortezza, in due schiere ordinate l’una di fronte all’altra; in mano lunghe canne di bambù leggermente inclinate in avanti, da muovere ritmicamente; al termine di questo varco sottilmente proteso in avanti, muovendosi attraverso un’ipotetica e geometrica triangolarità di due file di drappi rossi e volti pesantemente truccati a colori brillanti, il pubblico segue la figura di un bambino che si muove con una sfera bianca in mano. Lento, nello spiazzo di fronte al cortile, conduce a un cumulo di libri ammonticchiati in colonne, fra i quali donne in tacchi anni venti e metodica cura fluttuano con costanza leggera, muovendo, spostando, aprendo pagine. Un uomo dal corpo dipinto con simboli d’oro sembra dirigere il vento stesso con un bastone puntato verso l’alto, mentre una musica nasce dal pianoforte accostato sotto un albero, a lato. Una donna dai capelli biondi riversi sulle pagine di un libro illustrato, unico elemento immobile. C’è tutto il tempo per osservare, per lasciarsi guidare. Prima ancora che dalle “parole lievi” – quelle di Borges, sulle quali quest’ultimo lavoro di Armando Punzo trova il suo puntello – dalla loro diretta traduzione in pure, e potentemente lievi, immagini.

Il pubblico affezionato agli spettacoli della Compagnia della Fortezza è già più che abituato al pensiero che quello del carcere sia un palcoscenico già di per sé espressivo e potente, specialmente nella comprensione di Volterra nella sua interezza di borgo medievale dalla identità profonda, la memoria della città-fortezza, città- “panettone” che si sviluppa verso l’alto lievitando sopra alle colline, che crea già nella sua geografia un grado di separazione e alterità particolari di cui la Fortezza Medicea non è stata – storicamente – altro che un segno particolare.

Evidentemente però quella di continuare a ricollocare degli spazi attraverso una parola che fa e che costruisce (non serve scomodare troppa filosofia o diritto giuridico per ricordarci l’intrinseco valore performativo delle parole) resta una necessità che comunque non smette di rinnovarsi, anno dopo anno: per il bisogno di non sentirsi soli, come da preghiera dello stesso Punzo; per denunciare che altro è il fiume che si sta cercando, come da parafrasi borghesiana.

Quello dell’argentino è notoriamente un delicato intarsio di simboli, di varchi che si squarciano continuamente nel tessuto di razionali ossessioni e geometriche corrispondenze, di proliferazione infinita della ripetizione, memoria che nasce sempre eternamente nuova. Quello che si apre oltre le sbarre del cortile del carcere, dove la schiera conduce il pubblico, è una bolla che restituisce in atto la totalità di quel “sacro disordine”. Lo sentiamo parlare, lo vediamo accadere.

Tre vasche rettangolari, molto basse e inizialmente coperte con teli cerati che solo dopo un tempo le riveleranno piene d’acqua, sono disposte nel perimetro visibile; la musica arriva da dietro le sbarre, la sensazione che il limite oltre il quale il pubblico non possa spingersi – delimitato a terra da una linea nera – non sia un mero fatto logistico è dovuta forse più alla suggestione, soprattutto inizialmente. Ma tant’è, ragionare su un “reale della rappresentazione”, poste le basi concettuali dell’intero progetto, del resto esemplificato attraverso una documentazione informativa di una esaustività impeccabile, qui diventerebbe piuttosto un reale tradimento allo suo spirito e nucleo profondo.

Eccezion fatta per le vasche, e per il tavolo sul fondo sul quale sono posati i libri da cui attingere le parole, di fisso resta la ricorsività del simbolo e della figura, cangiante senza strepiti e obbediente alla voce di Armando Punzo, che denuncia in scena la funzione registica. Bisognerà aspettare un po’, una corsa della schiera intorno alle vasche a formare il simbolo dell’infinito, un abbandonarsi dell’uomo sopra alla tera cerata, ai piedi di una figura (il dio? Il Mago che crea l’uomo modellandolo in sogno fra le rovine circolari?) che in inglese allude alla Genesi, mentre il bambino scuote la tela come acqua creando movimento ondulatorio, la corsa interrotta della schiera di due in due all’indirizzo del pubblico, l’apparizione del “grande architetto” (con tanto di barchetta di carta in testa e pantaloni a macchie di colore) che porta previa lunga meditazione i primi simboli tridimensionali in scena, il triangolo, la sfera, il cubo, e l’apparizione di molte altre immagini, parole, sospiri, fruscii, prima che si possa affermare: ok, possiamo cominciare.

E allora ricompaiono i carcerati con in mano sfere bianche con le quali farsi guidare lungo il perimetro, appare un uomo con la valigia e il vestito grigio, l’uomo tutto bianco, una donna completamente velata di rosso, il bambino, il drappello in perenne corsa e movimento, la donna con l’impermeabile, l’uomo con l’ombrello verde, l’uomo col gilet che porta con sé un nido e finirà immobile in uno dei rettangoli d’acqua, quello che balla con le scarpe imbottite di carta (“bisogna immaginare il battito del cuore”, urla, e il ritmo è quello di danza gioiosa); e i focus proliferano come proliferano i passaggi e i valichi fra l’asfalto e l’acqua, come le sfere che nella benedizione di un pomeriggio ventoso riescono a rotolare libere e spesso a raggiungere anche il pubblico, ancora separato tuttavia da uno spazio che si sveste, ricompone e levita pian piano sempre in forme altre, nella frammentarietà dei racconti borghesiani particolari e nella suggestività più generale dello spettacolo.

Venite più vicino, viene allora detto al pubblico. E ci si avvicina a nuove figure, il “lampionaio” dal viso coperto di giallo, Asterione coperto invece da pittura rossa, nel racconto così ravvicinato e presente della sua casa infinita, si possono toccare gli oggetti e, cosa che è una costante fin dal primo ingresso nel carcere, incontrare gli sguardi. Certo è che se in un carcere lo sguardo è così libero di vagare all’interno degli elementi di una stessa rappresentazione, lo sguardo si apre all’incontro. Ed è questo l’elemento più potente che si rincorre durante tutte le quasi due ore di spettacolo. Su questo incontro, fra Punzo e l’uomo che con voce inferma e occhi bassi aveva precedentemente raccontato la sua storia, sull’Aleph da cui guardare tutti i punti che esistono e quelli che non esistono ancora, punto di inizio, fine e movimento, su questa nota luminosa e umanamente densa, si chiude lo spettacolo.

C’è sempre una qualche forma di verità e volontà di resistenza nel desiderio di portare l’invisibile al livello del visibile, da non limitarsi necessariamente alla speculazione artistica, sia essa letteraria o teatrale, ma anche a livello scientifico o bio-etico: ciò che è libertà, ricordano Stefano Canestrari e Gianluca Fiorentini nella discussione immediatamente successiva allo spettacolo del 27 luglio, è cosa lecita, ma non costituisce diritto. La Compagnia della Fortezza, arrivata all’anticamera del suo trentennale, sulla sovversione di quel mancato diritto è riuscita a costruire qui un frammento – ma farlo attraverso la scrittura di Borges equivale a farlo con frammenti di natura “alephiana”, diventa immediatamente uno scorcio che racchiude una biblioteca infinita – non meramente verbale, ma attivamente agente e, di nuovo, dalla straordinaria e (paradossalmente) muta potenza, attraverso un ritmo drammaturgico che lascia spazio all’aria, allo spazio e all’uomo, che coglie qualcosa di profondo e vivo, pulsante dentro a questa foresta di simboli che più che monoliti sono marcatori di direzione, frecce verso qualcosa che è ancora al di là da venire ma è presente. Quel tema di cui non si può fare esperienza ma che si sente, come viene detto nello spettacolo. E parteciparvi, in questo anno così complesso per le sorti del connubio di Armando Punzo con Volterrateatro, ha di sicuro ancora un suo valore intrinseco.

Si è discusso a lungo sul titolo, Le parole lievi, paradigma di una levità che è tutta azione, forza non più del corpo dell’attore, del carcerato, dell’uomo, ma dello spazio che questo corpo abita e di quanto potenziale ancora ne possa scaturire. Una nuova hybris, forse? L’idea, del resto, è precisamente questa. Ma quanto ancora da poter lasciar nascere, quanto da dire. Dunque meglio piuttosto per il momento sospendere un ragionamento che nel caso di Volterra aspetta ancora un altro anno per concludersi e chiamare in causa altre parole, che pure con Borges avevano qualche affinità, se nel 1983 Italo Calvino poteva scrivere: “Nel momento in cui la mia attenzione si sposta dall’ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione”.

di Maria D’Ugo

ph. di Stefano Vaja

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