Con lo spettacolo Il Minotauro, in cammino lungo il Cimitero Germanico del Passo della Futa fino al venti di agosto, la Compagnia Archivio Zeta tenta come da annuale tradizione di ridestare le voci nascoste di un luogo votato al silenzio e alla memoria per trascinarlo dentro allo spazio del mito: e lo fa sfruttando il testo Los Reyes dell’argentino Cortázar, del 1949.
Il Cimitero Germanico è un luogo che già di per sé parla e racconta una storia: non fosse altro che per la sua organizzazione “piramidale”, che invita lo sguardo a spaziare seguendo un percorso, partendo dalle colline circostanti dall’indiscutibile suggestività, per arrivare al suo culmine architettonico centrale, una struttura obliquamente angolare che punta verso l’alto. Il pubblico è invitato a seguire la cinta in pietra alla base per arrivare a una delle piattaforme circolari in legno che si ripetono all’interno del Cimitero, nella prima della quale troviamo il re greco Minosse: proteso verso quella stessa struttura, prigione del mostro mitologico dalla testa taurina, il re lamenta con accenti più che caricati la presenza viva e assente, ominosa quanto invisibile, del figlio della colpa, di quel “silenzio in agguato”.
Il testo di Cortázar è presentato integralmente, senza particolari variazioni; si passa successivamente al confronto fra il re di Cnosso e la figlia Arianna, separati da una lamina in metallo arrugginito che all’occorrenza viene utilizzata per produrre sonorità distorte – la presenza della musica a sottolineatura di un testo già di per sé denso di significazione sarà tratto costante di tutto il percorso – che ne impedisce la reciproca visione diretta; lungo il rettilineo delle scale centrali che conducono verso il virtuale ingresso del labirinto viene presentato l’eroe Teseo (che con molte parole ci informa della sua natura di “eroe dalle poche parole”); ci si volta di nuovo verso le colline per ritrovare Arianna e il suo mitologico gomitolo, seguendo lo sguardo dell’eroe; si accede finalmente al centro del “labirinto” per lo scontro finale, che non vediamo ma udiamo, in accordo filologicamente pedissequo con la tradizione, e il “poema drammatico” cortazariano viene chiuso con le ultime parole del Minotauro, “signore dei giochi” finalmente visibile agli occhi del pubblico.
C’è decisamente poco lasciato all’immaginazione nel lavoro dell’Archivio Zeta: la stessa volontà di mutare il titolo originale è segnale di un’attenzione che la compagnia ripone in un soggetto già molto chiaro nello stesso dipanarsi dell’azione verbale – del resto, nel ’49 le influenze cortazariane erano eredi non solo di uno studio della tradizione classica e debitrici del lavoro poetico di Keats, ma anche delle riscritture di André Gide, dunque di un teatro che ancora si puntella sulla sola parola, separato alla nascita da una vita scenica propriamente intesa. E c’è qualcosa che si perde, a livello di un nucleo teatrale più intenso: la Compagnia Archivio Zeta prova ad agire visivamente a livello geometrico, nel confronto fra le figure che si contrappongono sempre in maniera simmetrica, e utilizza lo spazio cimiteriale in maniera sapientemente scientifica. A partire da questo, la maestria sta nella creazione di immagini fortemente suggestive, come nel caso dello sguardo ad Arianna lanciato da Teseo con la luce del tramonto esattamente alle loro spalle, o nel finale, con la immobilità delle figure appoggiate al muro di pietra mentre al centro la voce del Minotauro-bambina lascia il suo “testamento” dall’interno di una struttura a maglie di metallo che la ingabbiano. Complici però proprio questa razionalizzazione estrema dei pochi movimenti che si sono voluti attaccare a un testo non propriamente scenico e non propriamente mitico (e non si dimentichi che l’argentino pubblica “I Re” solo due anni dopo la più famosa “Casa di Asterione” del contemporaneo Jorge Luis Borges, le esigenze del mito virano con lo scorrere dei tempi) unita a una scelta interpretativa dai toni decisamente carichi, rimane qualche perplessità rispetto a che grado effettivo di eloquenza rimanga a questo Minotauro: forse troppo poca poiché troppa, nel voler rispondere “con la parola all’opera della parola”.
Quella di sprigionare il genius loci è una necessità che il teatro non ha mai ignorato, e che anzi specie nelle sue manifestazioni di comunità persegue con vigore, come è auspicabile nella volontà di dare rilievo sempre al contesto in maniera concomitante al testo. Ma quest’ultimo, e qui sorgono le domande che daranno direzioni future, in che modo può essere più efficacemente avvicinato?
L’Archivio Zeta dimostra una mai scontata attenzione nella scelta del materiale drammaturgico da affrontare e da attraversare, e in questo caso ci troviamo di fronte a un lirismo estremo, a necessità profonde ma, allo stesso tempo, espresse attraverso modalità profondamente testuali: tratto distintivo della Compagnia, indubbiamente, e scelta di lavoro. Nello spazio del palcoscenico però, in special modo se questo è già, in sé, memoria, il dubbio è se tale tipo di attenzione non rischi per contro di cadere in archeologia cieca, lasciando in ombra un mostro, un Minotauro, nascosto più in profondità che ancora cerca una strada per uscire.
Maria D’Ugo