Archivio mensile:Marzo 2018

Tommaso Monza

TOMMASO MONZA – COMPAGNIA NATISCALZI: Lo Schiaccianoci

Ieri sera alle Lavanderie a Vapore di Collegno è andato in scena per Toghether we dance Lo schiaccianoci di Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli fondatori della compagnia Natiscalzi.

Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli si mettono in relazione con un classico del balletto ibridandolo con il linguaggio del contemporaneo. Lo schiaccianoci viene evocato, citato, trasformato, rielaborato per e con il presente.

La storia si mescola con il ricordo d’infanzia, con il Natale passato per rilanciarsi ed essere materiale per il presente. E la spinta avviene tramite il desiderio di diventare adulti che si confronta con l’oggi in cui l’adulto è diventato qualcosa di diverso dal progetto infantile.

Questo gioco tra passato e presente mosso dal ricordo e dal desiderio si manifesta attraverso un dispiego ampio di linguaggi: il video, il circo, la danza, il teatro. Un caleidoscopio fin troppo ricco, addirittura bizantino ed esorbitante.

L’operazione guidata e diretta da Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli tende anche ad implementare tecniche di audience engagement: nel progetto vengono coinvolte le scuole di danza del territorio e per una volta si assiste ad un vero e proprio balletto di massa con grandi movimenti d’insieme.

Questo aspetto però finisce per fagocitare l’operazione. Se la drammaturgia regge fino a metà dell’opera, cioè fino a quando il coro dei bambini fa il suo ingresso in scena, la seconda parte tende a essere niente altro che un profluvio di numeri d’insieme in cui tutti hanno la loro piccola parte. La crescita debordante del materiale travalica la sua necessità.

E quindi rispetto a questo tema ora molto pressante di recupero di affezione da parte del pubblico se non addirittura la creazione di uno nuovo e mai avvicinato, le tecniche e i metodi legati alla creazione si prospettano come armi a doppio taglio. Se da una parte coinvolgere il tessuto della comunità in cui si opera diviene necessario resta il rischio di farsi prendere la mano e soggiacere ai meccanismi di engagement.

Il caso de Lo Schiaccianoci di Tommaso Monza, è indubbiamente interessante anche se necessita di una revisione delle priorità. Nella seconda parte dell’opera si è rasentato fin troppo spesso la versione di un saggio di fine anno in cui tutti partecipano al di là della reale necessità di questa presenza.

L’opera e le sue esigenze restano l’ago della bussola attraverso cui orientare il lavoro di creazione in cui possono indubbiamente rientrare le tecniche e le modalità di engagement ma nel rispetto del lavoro artistico che non deve esserne fagocitato.

Esperimento dunque interessante, che si affianca ad altri consimili come quello messo in atto dal progetto Teatro Agorà promosso da Elena Di Gioia nel bolognese, così come analoghi del festival di Vignale Monferrato promosso sempre dalla Fondazione Piemonte Dal Vivo.

Occorre proseguire negli esperimenti, riorientarli e ricalibrarli in modo da trovare un giusto equilibrio in cui l’opera, le funzioni della scena, le sue tecniche e i suoi materiali possano coagularsi con i bisogni e le necessità della comunità che la ospita.

Silvia Battaglio

SILVIA BATTAGLIO: Lolita

Silvia Battaglio è una Lolita adulta e bambina. È lo sguardo di oggi a quello di ieri e, come due immagini trasparenti, il tempo passato e quello presente si sfocano, travalicano, si sovraincidono.

Quanto della donna di oggi è la bambina di ieri? E quanto della bambina passata era già donna anzitempo, controvoglia, forzatamente costretta a indossare i panni dell’adulta? L’innocenza strappata porta a galla una vittima che sa trasformarsi in carnefice, la debolezza violata cangia in dispotica capacità di sedurre e il signor Humbert, lupo cattivo pronto a mangiare Cappuccetto Rosso è a sua volta intrappolato nelle malie di quella sensualità scatenata e prematura.

Ma chi è Humbert? A chi si rivolge la Lolita sulla scena? Humbert è nascosto tra il pubblico, nell’occhio di chi guarda e brama e rinnova il mito di Ade e Persefone, il vecchio dio dei morti che rapisce la fanciulla Kore per farne la sua sposa. Kore diventa essere ibrido, tra la vita e la morte, perpetuamente divisa a segnare il tempo delle stagioni.

Ma Kore è anche la pupilla che in sé riflette l’occhio del rapitore, come la scena riflette l’occhio del pubblico convenuto e nascosto nell’ombra della platea.

Silvia Battaglio è Lolita, in un giardino ricoperto di mele cadute, il frutto proibito del peccato, il frutto avvelenato di ogni favola. Violata e violenta, infantile e crudelmente adulta, vittima e carnefice, Cappuccetto Rosso che sbrana il lupo cattivo dopo esser stata a sua volta mangiata. L’azione perversa e imperdonabile del male sta nella corruzione dell’innocenza incapace di conservare se stessa. Come in Addiction di Abel Ferrara se il male entra in noi ci corrode e rende complici: per sempre vampiri, complici e vittime insieme.

Silvia Battaglio, in questa sua Lolita, primo capitolo della Trilogia dell’identità, intaglia nella carne e nel sangue una figura di donna/bambina in perenne ricerca di un sé che sfugge alla presa dopo l’azione di Humbert, ma disegna anche un carnefice incapace di vivere il proprio tempo e la propria età, invidioso di una gioventù e una purezza che non sarà più mai e la insozza con le proprie brame perverse.

Silvia Battaglio costruisce una drammaturgia intensa, fondendo le fonti letterarie (Nabokov, Pia Pera e Perrault) in una riscrittura agile, intensa e perversamente potente che si fonde con un’azione scenica in cui la corporeità è predominante. Coreografia di gesti che rende superflua al questione attore danzatore o performer. Il corpo scenico è tutto e niente. Utilizza i mezzi che abbisogna per essere efficace.

Questa Lolita di Silvia Battaglio, opera che apre il sipario su temi che vogliamo seppellire sotto il tappeto della civiltà, additando il mostro nel peccatore scoperto in flagrante dimenticando che l’orrore si annida nell’animo di tutti, ricorda qualora ce ne fossimo dimenticati che la funzione della scena è parlare al mondo del mondo, sollevare i veli, scuotere l’artificiale sicurezza del vivere civile. Il teatro quando si esprime con la sua vera forza non rassicura per niente: è uno sguardo lucido sulla durezza del vivere, sulla vita bella e crudele.

Lolita di Silvia Battaglio è in scena nel bellissimo spazio del Caffé Müller ancora stasera 3 febbraio.

Antonio Latella

Attore e/o Performer: Riflessione in forma scenica nella Biennale di Antonio Latella

Antonio Latella ha presentato il programma della Biennale Teatro 2018. Dopo aver dedicato il primo atto della sua direzione alla regia declinata al femminile, in questo secondo le luci della ribalta sono concentrate sull’attore e il performer.

Lo stesso Antonio Latella afferma che i confini delle arti si fanno sempre più labili tanto da risultare confusi, annebbiati, sbiaditi. Molti già adottano il termine onnicomprensivo Live Arts, soluzione che tendenzialmente mi trova favorevole.

Eppure se sulla convergenza dei linguaggi delle arti dal vivo pochi hanno da obiettare, molto più dibattito accende la questione dell’attore performer.

Cosa è uno e cosa è l’altro? Possono travalicare i rispettivi ambiti? L’attore è performer e viceversa? Domande queste che possono non solo moltiplicarsi ma che per molti versi non hanno risposta univoca, sempre che ne abbiano una.

All’origine le cose erano chiare: rappresentazione da un lato, pensiero non rappresentativo in azione dall’altro. Ma anche qui le cose si sono confuse. Spesso assisto a eventi denominati performance che potrebbero essere tranquillamente altro, così come l’azione degli artisti coinvolti potrebbe benissimo essere l’azione di un danzatore o di un attore.

Il Leone d’oro dato alla coppia Rezza/Mastrella va proprio in questo senso: quello di Rezza è teatro? E lui è un attore? Onestamente la tensione a definire mi è abbastanza estranea. Ritengo che l’artista usi quello che necessita in base a quello che vuole dire. Se un coreografo per un lavoro necessita anche di attori e performer: buon per lui, soprattutto se il risultato del lavoro gli da ragione.

In una recente conversazione con Roberto Castello (Cfr. http://www.enricopastore.com/2017/10/20/intervista-roberto-castello/ ) si parlava proprio di questo e della possibilità, per necessità espressive, che l’artista usi qualsiasi strumento e qualsiasi registro possibile.

Il problema infatti, a mio modo di vedere, non è tanto nella questione attore e/o performer quanto piuttosto nell’interazione tra arte dal vivo e comunità/pubblico e nella funzione che le Live arts assumono nel contesto in cui operano.

La relazione tra la scena, nel senso più ampio del termine, e la comunità che assiste (pubblico è parola che mi repelle) si sta deteriorando, in quanto molto spesso si suppone che il transito di senso sia dato come acquisito anche quanto non lo è. E come diceva Artaud :”Se per esempio la folla contemporanea non capisce più Edipo Re, oserei dire che è di Edipo Re la colpa, non della folla”,

Quello che non è per nulla chiaro non è tanto se abbiamo di fronte un attore o un performer, cosa che interessa più che altro gli addetti ai lavori, ma quale sia la funzione della scena, qualsiasi declinazione essa abbia, rispetto alla comunità che si convoca e quale relazione debba sussistere tra i due ambiti. Qui le cose si fanno veramente confuse.

Certo da studioso di teatro mi interessa alquanto scoprire le diverse manifestazioni, le tecniche e i materiali che distinguono o accomunano l’attore e il performer, ma per il pubblico queste sono questioni di lana caprina. A quest’ultimo interessa che la scena lo tocchi, gli dica qualcosa, scuota il suo mondo o lo rafforzi, cerca risposta alle sue domande e alle sue ansie o per lo meno ricerca un rispecchiamento tra la propria vita e quanto avviene di fronte a sé. Cerca, in ultima istanza, una relazione. Se manca tale connessione, se tra azione scenica e comunità/pubblico non c’è dialogo, importa poco che ad agire sia un attore o un performer.

Per esempio: rispetto a Educazione sentimentale di Kronoteatro presente in una delle mini personali in programma e visto l’anno scorso al Festival delle Colline Torinesi, poco mi importa che in scena ci siano semidilettanti, importa che in lavoro non funzioni e si dibatta, senza risolversi, in bieche banalità. Ora questo lo dico non perché mi voglia scagliare contro Kronoteatro che è un gruppo che agisce nel panorama italiano con intensa onestà, ma solo perché, secondo la mia opinione di studioso di teatro, il lavoro, quel lavoro. non funziona per niente. Non sono i performer ma la concezione e composizione del lavoro, così come il registro e il linguaggio usato.

Lo stesso si potrebbe dire di molte performance viste a Santarcangelo nella scorsa edizione. Certi lavori mancano di struttura, di funzione e, peggio di tutto, non cercano di instaurare una relazione con la comunità /pubblico che si raccoglie intorno al lavoro.

Ci si pone sempre più spesso il problema del pubblico e di come riportarlo a teatro e ci si interroga molto meno intensamente sul perché questi si disaffezioni dalla scena cosa che forse dovrebbe essere al centro del dibattito. E così magari si risolverebbe rebus tanto in voga in questi ultimi anni dell’audience engagement.

Ma forse questo sarà argomento del terzo atto della direzione artistica di Antonio Latella e stiamo solo anticipando i tempi.

Dopo questa premessa, a mio modo di vedere necessaria e prima di concludere, diamo una scorsa al programma che appare interessante e di alto livello, come nella scorsa edizione della Biennale Teatro.

Innanzitutto tornano le mini-personali, piccoli trittici che attraversano trasversalmente alcuni autori invitati (Oltre a Rezza/Mastella, Vincent Thomasset, Clement Leyes, Giselle Vienne, Thom Luz, Jakop Ahlbom e i già citati Kronoteatro); in seconda battuta si può notare una panoramica trasversale nelle più diverse branche delle Live Arts: circo, burattini, giocoleria, performance art, teatro e danza. Così come un occhieggiare al genere soprattutto noir e crime.

Si segnalano i lavori dello svizzero Thom Luz che a suo modo sperimenta nuovi percorsi nel teatro musicale, così come quelli del francese Clement Layes che naviga sui confini tra circo e coreografia. L’olandese Devy Pieters invece esplora l’interazione tra scena e video in una crime story in cui coinvolge esperti forensi della polizia; Giselle Vienne intesse la storia del serial killer americano Dean Corll con i suoi inquietanti burattini. E poi ovviamente i Leoni d’argento Anagoor con la loro versione dell’Orestea. Questo solo per accennare alcuni degli artisti che animeranno il programma del festival. Per il programma completo rimando al sito della Biennale http://www.labiennale.org/it/teatro/2018 ).

Questa edizione della Biennale Teatro in scena a Venezia dal 20 luglio al 5 agosto sotto la direzione di Antonio Latella si prospetta dunque curiosa e di alto livello e porta all’attenzione del pubblico italiano artisti poco conosciuti sulle scene nazionali. Allargare i confini dello sguardo e ampliare un confronto con la scena europea è un merito indubbio di un grande festival. Ora tocca ai lavori parlare e scoprire in che modo sapranno relazionarsi con il pubblico, ma per questo non resta che attendere la prossima estate.