Archivio mensile:Maggio 2020

Compagnia Ragli

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A COMPAGNIA RAGLI

Per la trentasettesima intervista de Lo stato delle cose torniamo a Roma per incontrare la Compagnia Ragli. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Compagnia Ragli si occupa di teatro civile e sociale ed è stata fondata da Rosario Mastrota, Dalila Cozzolino e Andrea Cappadona. Ospite dei importanti festival e più volte finalista al Premio Hystrio ha prodotto numerosi lavori tra cui: Salve Reggina!, L’Italia s’è desta, Panenostro, Ficcasoldi, Border Line.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La risposta ad entrambe le domande è: il gruppo di lavoro. Attori, registi, scenografi e tecnici fanno parte della creazione artistica allo stesso modo. Ognuno accresce lo sviluppo con la propria tecnica trasformandola in arte. L’efficacia è corale e appartiene a tutti. Il pubblico stesso deve far parte di questa squadra. Non è importante che comprenda tutto immediatamente ma è essenziale che sappia interrogarsi. Le risposte non sempre servono. Ogni percorso di creazione scenica richiede, a mio avviso, un concatenarsi di relazioni essenziali che determinano la calibratura necessaria, per chi partecipa a questo rito, a soddisfare le personali urgenze

di ciascuno. La propositività determina l’evoluzione. Poi ci sono le storie, indispensabili altrettanto. Noi (Compagnia Ragli) lavoriamo in team, la maggior parte del tempo la dedichiamo all’esplorazione delle possibilità che possono derivare dall’allestimento. Attori e regista si muovono in relazione costruttiva per spianare il campo a scenografi e tecnici. Il risultato finale (lo spettacolo) seppur definito e strutturato ci riserva sempre diversi sentori e diverse reazioni del pubblico. Infatti è sempre costruttivo cogliere alcune letture recepite da un punto di vista inatteso. È capitato, per esempio, durante alcune repliche de L’Italia s’è desta. Al Nord c’era una diversa reazione rispetto al Sud, un tema arcaico come il rapimento (nello spettacolo raccontavamo, mediante l’escamotage della fake news, che la ‘ndrangheta rapisse la Nazionale di calcio a due mesi dall’inizio dei Mondiali) ha visto ilarità spensierata nelle repliche lombarde e timore e imbarazzo in quelle in Calabria.

Compagnia Ragli
  1. Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Istituire una valutazione delle proposte artistiche più pluralista. Libertà e verità dovrebbero essere metro di giudizio inequivocabili, invece troppi vincoli o cavilli tecnici rendono alcuni percorsi più complicati se non impossibili. I tecnicismi non possono valutare l’arte.

In alcuni stati esteri c’è meno settorialismo e all’Artista vengono concesse più libertà per sviluppare l’idee o la poetica, senza il vincolo di parametri o celle di Excel. In alcuni casi di questo processo produttivo italiano si punta alla celebrazione di “nomi” anziché “attori” o di “firme” anziché “storie”. Le residenze creative dovrebbero essere la normalità, un processo del sistema produttivo Italiano, come le fabbriche. Festival e concorsi idem, come Sanremo (in senso di importanza mediatica). Per migliorare il processo, sempre a mio avviso, potrebbe essere funzionale educare la gente al Teatro e alla sua importanza, non all’ammirazione della vetrina che può scintillare se in scena ci sta “quello famoso della tele…” . Da due anni, in collaborazione con Dasud e ÀP Accademia, ci occupiamo del Premio Mauro Rostagno, una manifestazione per spettacoli a tema diritti umani. Non valutiamo su criteri matematici, valutiamo l’energia dedicata dalle Compagnie alla trattazione di temi così delicati. Il nostro riconoscimento (1000 euro) è un atto simbolico per sostenere quelle volontà e legittimarne il coraggio.

Macbeth aut idola theatri, Dalila Cozzolino
  1. La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Non può esserci la distribuzione di un prodotto (creativo) se il prodotto stesso è reputato inferiore a quello di altre arti. Bravi o meno bravi non dovrebbe dirsi degli artisti. Professionisti o non-professionisti nemmeno. L’artista è libero. Chi può dire se è più bravo Van Gogh di Picasso o Carmelo Bene di Vittorio Gassman? Di certo non chi organizza, non chi gestisce la Cultura, non il numero dei C1.

La Critica si avvicina a qualcosa che sta in mezzo a questa decisione ma la missione è troppo nobile, delicata, ardua. Ce ne sono tracce in Italia, per fortuna.

Io cambierei la parola distribuzione con opportunità. Opportunità per la gente di vedere linguaggi di artisti differenti. Le tournée, che bellissimo ricordo di un periodo di grandi sperimentazioni; si arrivava un po’ dappertutto, certo non tutti erano noti ma tutti riuscivano a moltiplicare le opportunità.

  1. La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Per coerenza con quanto detto prima non posso dire cosa è unico e irripetibile e cosa, invece, è sciatto e da evitare. I linguaggi adoperati mutano, è naturale, l’arte si adegua, racconta il presente, vede il futuro e parte sempre dal passato. Uno spettacolo “da remoto”, senza corpi, con occhiali tridimensionali o proiezioni olografiche non andrei a vederlo, ma è un gusto personale. Ma è un’espressione anche quella, non so se è moda o impigrimento o addirittura necessità ma è qualcosa. Tranciare una tela o appendere una banana è un’idea artistica, una visione, esattamente come dipingere la Monna Lisa o creare Amleto. Però io mi ricorderei più nitidamente l’ebbrezza procurata dal monologo della non-follia di Ofelia, di uno spettacolo interattivo; per quel tipo di emozioni posso anche andare in sala giochi o usare una Playstation. Il teatro è fatto di carne. L’unicità della replica (ossimoro per antonomasia) è reale. Seppur ciclico, il teatro vive ogni sera di differenze: emozioni, tecniche, sociali. Il teatro è vivo per questo motivo: perché respira come le persone.

Panenostro, Andrea Cappadona
  1. Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Post -verità, per me, è sinonimo di immaginazione. Io posso immaginare un cavallo con un corno sulla fronte, posso disegnarlo, posso anche mettergli le scarpe e farti credere che esista nel mio garage e ogni sera mangia sushi fino a scoppiare. Ma non è dell’unicorno che ti sto parlando ma di un politico. Trasfigurare la Natura è un’arma innocua che detiene ogni regista, si parte da lì non c’è scampo. L’oggi e il racconto del reale potrebbero sfiduciare se raccontati solo in senso distruttivo, caotico o ipercritico. L’oggi è lì, fuori, alla portata di tutti, raccontarlo in maniera naturalistica non è teatro, diventa reportage. La critica al reale, in senso democratico, spetta alla politica, quella vera. Il teatro non è politico. La resistenza è un atto umano, la guerra è un atto politico. Spero di aver reso il concetto.

Noi (Compagnia Ragli) ci occupiamo di un teatro civile che non ha l’ambizione di educare o modificare le percezioni di nessuno. Proviamo a idealizzare alcuni atti reazionari o di opposizione di personaggi realmente esistiti e li reinventiamo nello spirito dei nostri personaggi. A volte, durante le ricorrenze per esempio, quando si ricorda qualcuno che è stato ucciso o che non c’è più, la pietà prende il sopravvento. Ci si impietosisce, si commemora, si ricorda solo l’affezione spesso dimenticando l’azione. Noi proviamo a scivolare via dal sentimentalismo e, immaginando altri mondi possibili, ricamiamo storie eccezionali a vite o personaggi invisibili.

  • l’atto che ci interessa investigare. La possibilità. La forza che ognuno ha. A volte emoziona tantissimo, altre volte interroga, spesso alimenta discussione, altre volte non piace. Sono solo quattro esempi di possibilità di reagire, ce ne sono altre. Questo ci interessa scoprire.

Uno dei nostri personaggi, Carla, de L’Italia s’è desta, per esempio, vive nel mondo reale ma è capace di vedere molti più mondi possibili, nella sua meravigliosa folle libertà.

Dellavalle/Petris

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A DELLAVALLE/PETRIS

Per la trentaseiesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Thea Dellavalle e Irene Petris della Compagnia Dellavalle/Petris. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

La Compagnia Dellavalle/Petris nel 2013 realizza Un ballo (adattamento da Irène Némirowsky), nel 2014 Suzannah di Jon Fosse e nel 2018 con lo spettacolo The Dead Dogs dal testo di Jon Fosse ha vinto la seconda edizione di Forever Young. A febbraio 2020 collabora allo spettacoloEuthalia della scrittrice Luisa Stella che debutta allo Spazio Franco di Palermo.

D: Qual è per voi la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La creazione scenica nasce sempre in un incontro tra più soggetti artistici; per quanto si possa progettare, predisporre e programmare, l’idea o il desiderio che la muove deve incarnarsi e attraversare diversi materiali, ma per primo il materiale umano, è soggetta al tempo e allo spazio e deve essere aperta a quello che l’incontro può portare e aggiungere, anche attraverso la crisi. Spesso accade, si rivela in modo imprevedibile e lo sforzo maggiore è rendere riproducibile l’atto dell’accadere. Le condizioni ideali sono quelle in cui si resta incerti ma liberi di affrontare il rischio con la consapevolezza che non si è mai soli, e questa non-solitudine include ovviamente il pubblico. E’ opportuno non dimenticare che le condizioni ideali per manifestarsi hanno bisogno di tempo, di corrispettivi materiali. E di alchimia.

Dellavalle/Petris
Euthalia
Dellavalle/Petris ph: @alessandro d’amico

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Nonostante i molti sforzi tesi a far funzionare il sistema, a rendere virtuosi i circuiti esistenti, ad aumentare le occasioni di produzione spesso la sensazione che prevale è quella di una grande fatica, anche per chi ottiene  risultati e riconoscimenti,  non solo per chi procede in direzione ostinata e contraria. L’eccezionalità del momento presente, lo stop forzato, ha rivelato in modo crudo il quadro di fragilità e purtroppo anche di storture che con fatica si teneva insieme. Nella “normalità” ci si muove a tutti i livelli in un contesto sempre precario, di incertezza che si ripercuote e riproduce dal grande al piccolo e che per tanti coincide con uno sforzo esistenziale nel tentativo di conciliare scelta artistica/lavorativa e sopravvivenza. Potremmo dirci che una crisi permanente è una condizione ideale: estremamente fertile e auspicabile in campo artistico dove può portare a risultati straordinari. Ma questa visione porta con sé un’ambiguità e in parte anche il rischio di un isolamento. Il fascino effimero dell’Arte del teatro non dev’essere scusa per non affrontare aspetti concreti, deve essere in confronto diretto con ciò che accade, parte di un contesto. Le difficoltà e anche le soluzioni si collocano quindi in un ambito più generale che non bisogna perdere di vista; servirebbe un maggiore investimento nella cultura, non solo in termini economici, né tanto meno retorici, ma un cambio di visione che restituisca dignità al lavoro culturale e artistico (ma forse in questo momento al lavoro in generale) e interesse e fiducia nel pubblico. È la percezione della cultura e del lavoro culturale che più ci distanzia dagli altri paesi europei con tutto ciò che in concreto questa percezione porta con sé: diritti dei lavoratori, garanzie economiche, dignità, un concetto di valore differente, non immediatamente monetizzabile. Per lo specifico teatrale sarebbe importante che l’orizzonte della progettualità artistica e della programmazione potesse includere tra le opzioni la scommessa e il fallimento, la possibilità di assumersi dei rischi per sostenere un’idea, per dare spazio al nuovo e per promuovere una fruizione che non sia solo a scopo di intrattenimento. E, sulla spinta anche di questo momento in cui la rappresentazione è negata o comunque “non libera”, dare spazio, dignità e diffusione alla distribuzione delle idee e sostegno a tutta quella parte di lavoro e ricerca che precede lo spettacolo.

Dellavalle/Petris
Dellavalle/Petris Dead Dogs

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

La distribuzione fino a ieri è stata questione misteriosa. Altre figure possono meglio di noi suggerire e individuare soluzioni pratiche di miglioramento della situazione presente, e su queste figure, sulle nuove visioni, bisognerebbe poter investire. Una distribuzione che funziona apre alla possibilità che uno spettacolo incontri più pubblico, che parli a un maggior numero di persone, che si confronti con diverse realtà ma c’è bisogno di un approccio di sistema. Possiamo analizzare il contesto in modo critico, individuare i punti deboli ma gli strumenti per risolverli non si possono trovare guardando solo al settore della distribuzione che continua ad oscillare tra instabilità, se troppo influenzato dai meccanismi di mercato, e fissità, quando preorganizzato (blindato) al momento della programmazione artistica (contestualmente alla scelta di un titolo ma prima della produzione vera e propria). Ci sembra, per esempio, che i limiti che tu evidenzi nella tua domanda contengano già in sé possibili risposte: rendere più permeabili i circuiti esistenti, dotare i festival di maggior forza economica, creare nuove reti aperte al mercato internazionale, ma anche dare vita più lunga agli spettacoli abituando il pubblico al repertorio. Forse occorrerebbe incrociare un po’ le logiche, farle comunicare tra loro per creare una proposta di correttivi efficaci al decreto ministeriale che tanto peso ha nell’orientare la politica teatrale. Tralasciando le splendide, fortunate e virtuosissime eccezioni, che, per fortuna, esistono ma tuttavia non bastano, ci si confronta spesso con situazioni paradossali: proprio le realtà più coraggiose e aperte e che promuovono il nuovo diventano i tuoi primi creditori o la prima causa di un debito che aumenta perché mancano delle risorse per pagare i cachet, non hanno abbastanza pubblico, o posti a sedere per garantire un incasso. Alcune logiche non dipendono solo dalla riforma del FUS. Molto dipende da noi: il nostro agire è sostenibile? a che punto smette di esserlo, a spese di chi? In Europa, in Francia per esempio, cosa cambia? Non crediamo che sia tutto rose e fiori, non siamo  sicure che la distribuzione funzioni effettivamente meglio. Ma ci sono più tutele. Se lo spettacolo debutta e non fa repliche, l’artista accusa il danno morale ma meno quello materiale: “c’est l’intermittance messieurs-dames”, e non è una piccola differenza. In assenza di tutele si alimentano circoli viziosi. Questo era vero fino a ieri ed è emerso adesso con forza drammatica. Siamo in un tempo sospeso in cui nessuno sa quale sarà il teatro futuro da distribuire, a chi e come… ad oggi non sappiamo neanche se ci sarà…, non sappiamo niente ma, anche ammesso che si tratti di una bolla, l’idea di un ritorno alla normalità non è poi così rassicurante, se la normalità “restaura”, se il ritorno al teatro spegne gli interrogativi. Anche la normalità va risignificata, occorre essere attenti, prendersi il tempo di pensare, non farsi troppo spaventare. Il thatcheriano “There is no alternative”, va per la maggiore in ambiti ben più estesi e rilevanti di quello teatrale, ma questo tempo che ha sovvertito le nostre abitudini ci ha insegnato e ci insegna che non c’è niente di immutabile. Quando il ritornello, che ha il sapore di un alibi, si sente risuonare nei pressi del palcoscenico è preoccupante. Proprio noi che ci vogliamo occupare di cultura e di arte, non possiamo rinunciare a immaginare e a creare deviazioni, quelle mutazioni del codice genetico che portano al salto evolutivo.

Dellavalle/Petris
Suzannah Bruna Rossi ph:@riccardo salari

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Il teatro per come lo conosciamo è un’esperienza senza filtro, un incontro senza schermo. A teatro il nostro essere presenti entro il limite del corpo nello spazio e nel tempo, circondati dal confine sensibile della pelle, non è vissuto come un limite, possiamo fare a meno delle protesi tecnologiche che ci fingono più veloci, efficienti e potenti di quanto non siamo, possiamo essere uomini e basta. Possiamo ricordarci che essere uomini basta. Un buon promemoria. A cui secondo noi è importante non rinunciare.

Questo non vuol dire che non si possano sperimentare altre forme e altri mezzi che mettano in discussione le abitudini. Il vincolo del presente può essere un’occasione se dà spazio ad una vera ricerca, se la sperimentazione è guidata dalla curiosità verso i mezzi, gli artisti e il pubblico, se, a partire da elementi base, presenza, relazione, sguardo, distanza, si pone in forma di domanda non se vuole essere risposta frettolosa, automatica e univoca per sostituire un’esperienza al momento non possibile. Verso che orizzonte vogliamo guardare?

Dellavalle/Petris
The Dead Dogs _ luca mammoli irene petris giusto cucchiarini federica fabiani ph: @andrea macchia

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Al di là delle forme o delle stilistiche, dei vari ismi, che sono poi nomi che diamo alle esperienze per raccoglierle e catalogarle, il teatro è in azione nel reale. Indipendentemente dal tema che sceglie è nel presente perché rivolge domande a un pubblico che vive nel presente e che riporta ciò che vede e sente a teatro alla propria esperienza. Agisce nello scarto, a volte sottile a volte abissale, tra il reale e il rappresentato; in base alle scelte di linguaggio puoi giocare con questa distanza che può tendere all’infinito senza che i due piani si possano escludere o tendere ad annullarsi senza che possano coincidere davvero. Gli strumenti variano di volta in volta ma ogni lavoro artistico continua a godere dello statuto speciale della rappresentazione: in teatro si può fare tutto, per finta, per davvero.

Vincenzo Albano

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A VINCENZO ALBANO

Per la trentacinquesima intervista andiamo a Salerno per incontrare Vincenzo Albano, direttore artistico di Mutaverso Teatro, finalista lo scorso anno al Premio Rete Critica nella categoria progettualità/organizzazione.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità della creazione scenica sta nel dare una forma definita e tangibile a un “abbandono romantico”, dell’uomo nei confronti del mondo, che esiste prima di ogni verifica di rappresentabilità e allo stesso tempo di ogni rappresentazione. Necessita però di diventare “comunicazione”, cioè di renderci a nostra volta osservatori privilegiati di qualcosa che spesso ci appartiene, pur se offerti nell’altrove di un palcoscenico o di una pagina bianca. Diversamente, almeno per quel che penso, l’autonomia artistica diventerebbe solo autoreferenzialità creativa. Va ricreata un’abitudine al teatro a partire da chi lo fa e lo propone. In quest’ultimo caso, e parlo come direttore artistico di Mutaverso Teatro, facendo scelte attente e consapevoli.

Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Il denaro pubblico si spreca, senza contarne l’uso privatistico di quanti al contrario sarebbero chiamati ad agire nell’interesse collettivo, ad ascoltare le istanze di chi rende realmente vivi i territori. Se mi chiedi cosa è possibile fare per migliorare la situazione esistente io partirei intanto col sottrarre del denaro da un po’ di casse, favorendo azioni piccole, periferiche, e demolendo carrozzoni ed eventifici. Risposta di pancia, ma aderente agli umori di questo momento.

La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Parlerei degli spettacoli che non girano perché manca la volontà di farli girare, perché una volta andati in scena sono già morti, perché vengono proposti a cifre irragionevoli; parlerei di spettacoli che potrebbero girare la penisola ed essere accolti da una moltitudine di sale medio piccole, in grado di formulare proposte virtuose eppure non considerate congrue. Tutto è sempre troppo poco, molto ti è reso inaccessibile, a molto altro ancora non puoi manco pensarci, ma altrove sai che è a incasso. Condivido con alcuni colleghi la spiacevole sensazione di un mercato che sembra diventi “rionale”. Se mi chiedi quali soluzioni adottare non saprei, ma ipotizzare intanto una maggiore trasparenza sui cachet è sbagliato? Applicare su di essi un maggiore controllo? Lo chiedo, perché avanzare proposte è qualche volta estenuante e deprimente. La mia è una riflessione, magari insensata, certo non una risposta, anche perché l’argomento è complesso tanto per gli artisti quanto per gli operatori. A prescindere, resto sempre dell’avviso che distribuire uno spettacolo non debba essere una caccia alla replica. Personalmente, da operatore, rifuggo questo tipo di solleciti o invadenze.

La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Con i mezzi della contemporaneità il teatro può avere sì una relazione, a volte anche artistica e drammaturgica, esperienziale, ma credo solo come cassa di risonanza di un messaggio specifico e della sua antica e immutata liturgia. Proprio perché anacronistica, la funzione del teatro, come tempo dell’ascolto e dello sguardo, oggi più che mai ha una sua portata rivoluzionaria.

Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Penso ad un rapporto prismatico, attraverso cui è possibile guardare la vita quotidiana e normale da una prospettiva multiforme, reale o irreale che sia. Il tempo di questo sguardo è un avventuroso e immaginifico viaggio in uno spazio dell’anima ancora incontaminato, dove il realistico e il fantastico, l’ordinario e lo straordinario, il concreto e il visionario, restituiscono possibilità inesplorate e inattese, o forse non ancora nate, tanto all’artista che ne avverte la necessità, quanto allo spettatore che poi concede fede al suo racconto. Penso a un senso della realtà mai disgiunto dalla saggezza del sogno, anche al limite della rappresentabilità scenica. Non parlerei in primis di strumenti, piuttosto di una propensione emotiva alla meraviglia, tanto dell’artista, quanto, appunto, dello spettatore.

Alba Porto

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA AD ALBA PORTO

Per la trentaquattresima intervista de Lo stato delle cose torniamo a Torino per parlare con Alba Porto, regista e attrice della compagnia Asterlizze Teatro. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

I lavori più recenti di Alba Porto come regista sono Arte di Yasmina Reza con Christian La Rosa, La bella e la bestia, scritto insieme a Giulia Ottaviano per il Teatro Stabile di Torino, e Something About you con Matilde Vigna.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità della creazione scenica è quella di confrontarsi con la problematicità dello stare al mondo rendendo “vivi” pensieri, sensazioni ed emozioni tramite l’accadimento. Quest’ultimo per verificarsi ed essere registrato ha bisogno di un pubblico che ne sia testimone e, più in generale, la creazione scenica – che è spettacolo dal vivo – non è nient’altro che il tentativo di creare ad ogni performance questo accadimento cercando una connessione e scambio con il pubblico.

Il pubblico quindi è l’ elemento fondamentale affinché essa risulti efficace e, poiché nasce da un interrogativo che riguarda l’uomo,  si rivolge a una comunità che diventa destinatario imprescindibile cui riportare la propria ricerca. Credo che la creazione scenica, per essere efficace, debba in primo luogo imparare a parlare a una comunità con sguardo sincero e tagliente se necessario.

Yasmina Reza
Arte di Yasmina Reza regia Alba Porto

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che un modo per migliorare la situazione esistente possa essere rimettere al centro l’importanza dell’artista. E cioè, che le istituzioni diano la giusta importanza agli artisti – che sono capaci di produrre un beneficio, forse non quantitativamente misurabile ma tangibile – pianificando strategie per sostenerli.

 Festival e bandi a  favore degli under 35  rappresentano sicuramente una una buona opportunità, grazie alla quale io e Asterlizze, la compagnia teatrale per cui lavoro, abbiamo ottenuto appoggio e riconoscimento. Mi riferisco al Bando Ora! della Compagnia di San Paolo e ad alcune possibilità di visibilità dedicate a giovani compagnie e offerte da realtà torinesi come (TST, TPE e Festival delle Colline). Tuttavia questi sostegni, che rappresentano un’occasione di visibilità e un sostegno produttivo, non sono sufficienti per garantire la possibilità a una compagnia teatrale di occuparsi realmente di produzione e più in generale di ricerca.

I requisiti per avere i sostegni ministeriali inoltre sono lontani dalle possibilità delle piccole compagnie – ci siamo accorti in questi giorni di emergenza come molte compagnie restino fuori anche dai parametri dell’Extra FUS e che non vi è una reale conoscenza delle peculiarità e differenze del settore -. Bisognerebbe quindi rivedere i parametri secondo le necessità reali e le differenze, attuando una politica di sostegno che si prenda carico anche delle più piccole e giovani realtà – che spesso sono quelle più attente nei confronti dell’attualità che le circonda – . Si potrebbe pensare a luoghi affidati gratuitamente ad artisti, affiancati da figure professionali che si occupino di valorizzarne l’ operato.

Da qui in avanti inoltre bisognerà pensare a una ripartenza che possa contenere i danni causati dalla pandemia dimostrando una maggiore collaborazione e cura. Mi riferisco a un rinnovato dialogo tra teatri nazionali, tric, regioni, comuni, realtà di vario tipo e gli Artisti.

Mi auguro che nuove forme di abbraccio possano nascere in questo periodo di distanziamento, insieme a una ritrovata fiducia e considerazione degli artisti. Nuove dovranno essere le strade da tracciare. Si tratta di offrire a noi tutti una grande libertà: la libertà della scommessa in percorsi non tracciati, nuovi, idealisti e soprattutto umani. La scommessa è un atto di fede, e potrebbe avere risvolti sorprendenti in molti aspetti della vita comunitaria.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Il discorso sulla distribuzione, argomento spinoso e sicuramente fondamentale per molte compagnie tra cui Asterlizze, dovrebbe essere inserito in una politica di azione più ampia e sinceramente sono d’accordo con quanto detto da Carmelo Rifici, nella tua prima intervista e che qui parafraso: più che soluzioni per la distribuzione, ogni artista dovrebbe avere un proprio luogo, una “casa” in cui poter creare i propri lavori. Certo, bisognerebbe supportare gli artisti cercando di garantire una tenitura distributiva più lunga forse e che permetta loro di circuitare venendo in contatto con  più realtà possibili, ma mi chiedo se questo non sia ancora una ennesima schiavitù.  Inoltre data la situazione critica che si prospetta nei prossimi anni per il teatro e non solo, la distribuzione sarà ancora più cosa ristretta a scambi tra teatri e, in ogni caso, difficilissima. Credo quindi che il problema della distribuzione (cui spesso è legata la principale risorsa di sostenibilità per le compagnie) potrebbe essere arginato e forse non sarebbe più troppo centrale, se ogni gruppo artistico avesse una “casa” in cui creare i propri lavori, dedicandosi soprattutto al contesto circostante e al contatto con il proprio pubblico, avvicinando maggiormente la comunità al teatro. Insomma diventando un fulcro di riferimento all’interno del contesto cittadino e riportando al centro anche un legame con il territorio, di cui l’artista può e deve farsi portavoce.

Alba Porto
Something about you regia Alba Porto Ph:@Andrea Macchia

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Oggi più che mai il valore della creazione scenica come evento a cui assistere e partecipare dal vivo è fondamentale. La creazione scenica impone uno scambio reale tra i partecipanti, provoca emozioni e ci impone di “stare” in connessione con l’altro – privandoci per un momento degli schermi dei telefonini -. Ci porta a recarci in un luogo deputato (spesso il teatro, ma non solo) per assistere a un racconto in qualsiasi forma e farne esperienza. L’esperienza, a mio avviso, è l’unico motore capace di generare comunicazione ed empatia. Tramite l’esperienza possiamo tralasciare i ruoli affidatici dalla società (gli artisti, gli spettatori, i critici) ma essere tutti parte di qualcosa: la nostra contingenza, l’essere umani. Lo spettacolo dal vivo è un luogo di scambio e si modifica a seconda della platea, del pubblico, in maniera sostanziale. Quindi credo che la funzione principale sia quella di produrre scambio e vicinanza allo stesso tempo. In un momento storico  come quello che stiamo vivendo ritengo che tale vicinanza debba trascendere dallo spettacolo dal vivo in sé e manifestarsi in azioni a sostegno della categoria. Questo sarebbe davvero un bello spettacolo cui assistere.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo che il rapporto con il reale consista prima di tutto nell’essere immersi nel reale. Il nostro reale è sicuramente complesso e interpretarlo, in un sistema che ci bombarda di informazioni, non è semplice. E tuttavia l’artista è spugna assorbente del suo tempo, interprete che si allontana dalla frammentarietà delle notizie e riporta l’attenzione su ciò che ci unisce in quanto uomini. Non si tratta per l’artista esclusivamente di valutare la verità o la falsità delle fonti, ma di ricercare con trasparente necessità i meccanismi che governano i rapporti di vario genere. L’artista sente il suo tempo e cerca di “vederci chiaro” formulando delle domande, che attingono al reale e lo trascendono allo stesso tempo. Ecco che partendo dal contemporaneo si ritorna a maneggiare testi classici creando parallelismi nei contraddittori eppure speculari meccanismi del contemporaneo. Perché tutto ciò che viviamo è stato già vissuto, e questi giorni di particolare emergenza ce lo confermano.

Stare nel reale dunque avendo curiosità e aprendosi al dialogo con altre discipline e campi di indagine, ponendosi la domanda se ciò a cui stiamo lavorando possa servire a essere stimolo per gli altri. Che cosa raccontare è il primo punto di partenza e perché. Se il perché include anche gli altri, se ha un senso oltre che personale, pubblico, allora ci stiamo rapportando al reale.

Sara Pischedda

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A SARA PISCHEDDA

Per la trentatreesima intervista incontriamo una giovane danzatrice: Sara Pischedda. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Sara Pischedda nel 2015 entra a far parte della compagnia ASMED
Balletto di Sardegna
danzando per la produzione Aragosta di Moreno
Solinas, Soffio di Mark Siezkarek, Tempesta di Caterina Genta. Come autrice ha firmato Satura…si?, 120gr e e se fossi…?

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

In questo momento della mia vita artistica , praticamente agli esordi se così si può definire, mi sento di rispondere a questa domanda con la frase “essere se stessi”. 

Questo nel mio percorso è stato fondamentale, dopo tanti tentativi, ho iniziato a sperimentare su quella che sono io e su quello che potevo offrire, a chi veniva vedermi in scena, sviluppandolo con l’aiuto del mio vissuto, dei miei ricordi e quindi adesso più che mai sono convinta che per creare è efficace iniziare da dalla radice.

Poi l’evoluzione magari ti porta da qualche altra parte, ma conoscere se stessi è una chiave per capire come sviluppare altri concetti ! 

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Si gli strumenti si sono evoluti, ci sono più possibilità di residenze artistiche, più finanziamenti ma, a parer mio, si è tralasciata un po la cosa efficace ed efficiente  per tutti gli artisti, ossia la relazione stretta con chi è “sopra” di noi, come ad esempio gli organizzatori di festival. 

Ecco forse ho sbagliato anche a definire l’esistenza di qualcuno al di sopra di noi, siamo tutti qui a lavorare per lo stesso obiettivo, magari con compiti differenti ma la voglia e il desiderio,  di realizzare qualcosa di fruibile e far conoscere quest’arte il più possibile, sono le stesse.

Possono esserci tantissimi strumenti produttivi ma se questa collaborazione tra le parti interessate non esiste, a parer mio, il risultato sarà sempre blando 

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Penso ci sia un legame forte con la precedente risposta.

Ripeto il  problema o meglio il freno che è inserito e che non fa muovere la macchina è proprio l’assenza totale di collaborazioni tra le parti. 

Voglio spiegarmi meglio, esistono delle collaborazioni ma sono comunque superficiali. Non danno spazio a delle vere e proprie conoscenze tra luoghi spazi e persone che risultano differenti tra loro. 

Spesso si racchiude tutto in una cerchia ristretta di persone e tutto rimane li. 

Invece no, bisognerebbe aprile il più possibile le porte e far circolare aria colma di idee, legami e creare delle vere e proprie reti di connessioni .

Come è scritto nelle domanda esiste la situazione nella quale indipendenti e teatri stabili si muovano su strade parallele, che viste così non  potranno incontrarsi mai. Forse perché la società ci ha portato sposare questo comportamento “io coltivo il mio orticello e tutto è in ordine” .

Invece gli orti devono diventare distese immense dove poter coltivare ognuno le  proprie peculiarità per poi avere la possibilità di usufruire ognuno delle capacità dell’altro e creare così una vera rete di condivisione.

Altro problema da non sottovalutare è quella di tendere a ricoprire più professionalità in una sola persona, dovuto sicuramente alla mancanza di strumenti economici necessari a ricoprire tutto questo.

Ma magari potrebbe essere la benzina giusta per far riaccendere il motore di questa macchina ferma. 

Ad ognuno il suo ! 

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La creazione scenica che si vive al momento ha un sapore talmente unico, che non si dovrebbe sostituire mai. 

A volte per praticità viene sostituita ma l’emozione che possa essere negativa o positiva è un attimo che viene recepito dallo sguardo che passa attraverso la pelle, percorrere il cuore e rimane impresso nella mente può darlo solamente il real time! 

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Adesso come adesso il virtuale è entrato a far parte della nostra vita quotidiana più che mai, come se ci fosse un “mondo parallelo”, dove possiamo sentirci bene con noi stessi ! 

Inutile dire che le sensazioni vengono annullate tanto quanto la vita reale.

Quindi rifugiandosi in questa “Second Life” giochiamo ad un gioco ideale, creato da noi dove possiamo vivere le sensazioni che vogliamo noi!

Il reale potrei definirlo come situazione difficile da sviluppare, ma se devo dare un mio parere, è molto interessante proprio per questo, nella conclusione mi ricollego alla mia prima risposta dicendo che lo strumento che più stimola l’artista è essere se stessi, reali con i propri difetti e pregi !

Valentino Mannias

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A VALENTINO MANNIAS

Per la trentaduesima intervista de Lo stato delle cose andiamo in Sardegna per incontrare Valentino Mannias. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Valentino Mannias si è formato alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Nel 2015 ha vinto il Premio Hystrio come migliore attore. Nel 2018 è stato selezionato per l’Ecole des Maitres (a guida Thiago Rodrigues). Collabora con Sardegna Teatro che sta producendo la sua Orestea.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità della creazione scenica, come per altre creazioni, credo consista nel suo compiersi esclusivamente in presenza di un pubblico che ne modifica l’essenza.

Ad oggi per me la sua possibilità di essere efficace si misura proporzionalmente alla necessità che riunisce un gruppo di persone, alimentata dallo studio dedicato alle creazioni di altri artisti e al pensiero umano nel corso della storia. Studiando quasi sempre ci si rende conto che non c’è nulla di veramente nuovo se non il proprio stupore e amore per il sapere. Prendendo spunto dal pensiero dell’artista e filosofo Gino De Dominicis, possiamo osservare che veniamo al mondo dopo chissà quanti secoli di storia del teatro, risultando di fatto molto più vecchi di un drammaturgo del VI secolo a.c, nel quale poter scorgere la ricchezza di un incontro politico, spirituale e agonistico ad oggi parzialmente perduto. Pertanto, benché sia stato piacevolmente colpito dall’inserimento del mio lavoro all’interno della “giovane ricerca italiana”, devo ammettere di trovare lo stimolo per creare non tanto nella ricerca di nuove espressioni sceniche quanto nella consapevolezza di quelle già esistenti senza pormi l’obiettivo di rinnovarle. Per scrivere i primi testi teatrali ho ascoltato i racconti dei miei parenti, finché loro sono scomparsi fisicamente e mi sono rimaste le loro storie. In fondo sto facendo la stessa cosa adesso con l’Orestea di Eschilo, in quanto trovo il nostro rapporto col sacro, contenuto anche in alcuni classici, più vivo e necessario di qualsiasi volontà di rinnovamento, offrendo all’arte scenica la possibilità di farci cogliere misteriosamente un senso unitario del nostro essere nella vita e nella morte, di cui la società del nostro tempo non sa parlare se non come esperienze separate.

Valentino Mannias

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Ci sono molti più strumenti ma con molte meno risorse. Questo non provoca solo danni economici al mondo del Teatro ma alla sua stessa natura, creando però le condizioni storicamente ideali per elaborare una nuova gestione delle economie rivalutando un modo antico di intendere la società artistica e teatrale.

E’ evidente per tutti che lo Stato, oltre a quello che già fa, dovrebbe tornare a far Teatro, godendo del suo potenziale umano, politico ed economico. D’altra parte a fronte degli ultimi 70 anni della nostra storia e dopo l’odierna crisi mondiale, è possibile che maturi nella nostra civiltà il desiderio di un confronto tangibile con sé stessa, con la propria vita politica e delle proprie comunità religiose, riconoscendo una certa mancata eticità nella totale sostituzione del virtuale all’essere, e riscoprendo almeno per un tempo limitato la ricchezza di un confronto fisico con la realtà.

Proviamo allora a immaginare insieme un Teatro e una Danza che possano essere utili quel giorno, beneficiando del loro potenziale anacronismo rispetto alla società teatrale odierna. Il MiBACT e il Miur potrebbero nominare ogni anno un certo numero di registi teatrali, cinematografici e coreografi, tra under 35 e non, e invitarli a esprimersi attorno a dei temi di attualità senza limiti di genere e durata offrendo al pubblico la possibilità di partecipare a un evento che offra delle prospettive differenti sui temi e prodotto per l’occasione in grandi spazi delle diverse città a cielo aperto. Ogni opera, laddove fosse previsto il linguaggio verbale, dovrebbe prevedere necessariamente la fruizione in diverse lingue, favorendo così un impatto ad alto flusso turistico atto anche a sostenere i costi. Dando vita a un’olimpiade dell’Arte Scenica Italiana il nostro Paese avrebbe così la possibilità di valorizzare finalmente la propria tradizione artistica agli occhi del mondo e i cittadini avrebbero di nuovo uno spazio ad oggi inesistente dove ragionare dal vivo sul presente della propria vita politica e spirituale attraverso l’arte drammatica, oltre che a beneficiare per gli anni a venire di un prestigioso e innovativo contesto di formazione. La grande rete di “fondazioni bancarie, festival, istituzioni” esprimerebbe così il suo effettivo potenziale convogliando tutte le energie verso un unico grande avvenimento: il Teatro.

Vedendo le cose da una prospettiva realistica possiamo invece notare sistematicamente che ci sarebbe la necessità di più fondi per il teatro, che si potrebbero distribuire con più equilibrio quelli già stanziati nel FUS, che andrebbe sostenuta l’intermittenza del lavoro di un’artista invece di chiedergli di produrre ciò che il mercato non potrà comprare, che l’internazionalizzazione del nostro sistema produttivo e distributivo vede lontana la luce della propria nascita e del proprio sviluppo senza un investimento nella formazione delle adeguate figure professionali, o ancora, che bisognerebbe sperimentare nuove forme di produzione seguendo in altri modi gli artisti, privilegiando il rapporto di una compagnia con una comunità di riferimento e attivando dei percorsi paralleli piuttosto che badare semplicisticamente alla compravendita di uno spettacolo che, come sappiamo, non basta mai a coprire le paghe e le spese di una compagnia. Personalmente sono grato a Sardegna Teatro e a Massimo Mancini per aver potuto realizzare gran parte di quello che ho scritto sopra. Ma se parliamo di migliorare la produzione di Danza e Teatro in Italia dobbiamo riunire interessi pubblici e privati in un’unica visione che riscopra la potenzialità stessa del teatro in un’economia dinamica e sostenibile nell’interesse di tutti. Se si guarda invece al denaro premiando progettazioni con una logica a ribasso, ad ù affondare saranno le idee e con esse, a seguire, l’economia. Finché un grande sogno non genererà un business capace di abbracciare realtà diverse, e di sostenere anche l’economia di quelle autonome che non ne vogliono far parte, per ognuno di noi risulterà innaturale fare un mestiere che non è nato come intrattenimento, ma per essere il cuore pulsante della società civile, l’organo principale che deve battere a prescindere per tenere in vita l’esperienza democratica della collettività, nel bene e nel male.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Ricordando alcuni esempi virtuosi del nostro recente passato credo che in questo momento gli artisti e gli organizzatori teatrali, lavorando insieme, abbiano l’opportunità di pensare nuovamente al senso stesso della distribuzione di un prodotto innescando un sano dialogo tra diversi contesti. A fronte di questo stimolo trovo per esempio che le compagnie, disponendo possibilmente delle figure professionali di riferimento, non debbano più concentrarsi esclusivamente nella vendita del proprio spettacolo in quanto tale, ma ancorarsi sopratutto al perché sarebbe importante distribuirlo in un determinato territorio, studiandone le specificità sociali ed economiche e mettendo in relazione con esse la propria arte come moderne compagnie di giro che fanno tesoro della propria tradizione artistica. L’idea della lunga tournée per come la intendiamo ora è recente e in generale porta con sé una gestione dispersiva delle economie, difficilmente sostenibile. Nel settore gli artisti tendono spesso a considerarla erroneamente solo come una tradizione ideale, un’esperienza preziosa per far maturare il proprio lavoro nel tempo e questo è vero, potrei confermarlo in prima persona. Ma è al contempo importante saper cogliere la possibilità odierna di non mostrare la stessa creazione scenica in due regioni che hanno una storia differente, partendo comunque da una motrice comune. Il processo della creazione acquisirebbe maggiore importanza rispetto alla rappresentazione di per sé, amplificando l’idea di mercato e favorendo un’offerta diversificata al pubblico. In particolare la possibile presenza di quest’ultimo durante il concepimento dell’opera potrebbe offrire anche un’esperienza più interessante rispetto a quella di una creazione scenica agita nelle prove senza l’attore-pubblico per poi “essere mostrata” adesso in occasione di un ipotetico punto d’arrivo.

Un ulteriore aspetto da considerare maggiormente rispetto al secolo scorso è il concepimento di un’opera pensata per un uditorio che non sia solo italiano con la traduzione diretta o indiretta in lingue diverse a partire dal primo giorno di lavoro. Questo riguarda anche le accademie di formazione che non possono più pensare a un’espressione artistica che non prenda in considerazione una dimensione internazionale e la valorizzazione delle diverse lingue e dialetti che convivono linguisticamente nel nostro Paese. Non farlo significa accettare la prossima eredità di queste problematiche nel mercato e rafforzare muri invisibili tra diverse culture. Chiaramente l’elenco delle questioni non si esaurirebbe qui approfondendo comunque

questa linea di pensiero.

In sintesi quello che a cui assistiamo oggi è un modo di fare le cose, già ampiamente

collaudato e che ha dimostrato una relativa efficacia. Ma è evidente che in futuro il criterio che decreterà la fine o la sopravvivenza dei teatri consisterà nella loro attitudine a diventare dei luoghi abitati non tanto dal maggior numero di persone quanto da realtà sempre diverse. Gli artisti che vogliano evitare il solito servilismo alla logica della visibilità televisiva per riempire le sale, dovranno cercare un seguito nelle comunità di riferimento condividendo con esse un’indagine sui temi che le riguardano, prendendo seriamente un’altra strada, diversa e insostituibile. Pensare alla distribuzione in maniera diversa però non riguarda solo degli interventi da attuare “dall’alto” come l’olio su una catena arrugginita, ma cambiare anche nel nostro piccolo alcuni aspetti del modo sclerotico in cui ci siamo abituati a vivere il teatro.

Bisogna cogliere l’opportunità di non ridurre la vita dell’arte teatrale a un qualcosa che “mi è piaciuto o non mi è piaciuto”, che “funziona o non funziona” per un un pubblico che “andrebbe educato” e al quale si chiede solo di “spegnere i telefoni cellulari” e di “stare in silenzio”, un silenzio di lutto per la morte stessa del Teatro che ancora vanta la triste reputazione di essere un luogo per pochi che se lo possono permettere. Probabilmente, insieme alle rappresentazioni, i teatri tornerebbero ad essere invece dei luoghi di interesse per il pubblico, sostenibili per lo Stato, unici e liberati dalla forma mentis per la quale lo “spettacolo” ha vinto in Occidente, ma non l’arte teatrale.

Questa è un’arte sottopagata e svilita, dagli autori drammatici agli attori, perché finché non si farà chiarezza sul perché produrla sprigionando la sua vera luce, sarà di

conseguenza sempre più oscura la ragione per cui la si debba distribuire.

Valentino Mannias

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Mi viene in mente la famosa scena di “2001 Odissea nello spazio” della scimmia che giocherella con l’osso di un tapiro morto finché scopre che ciò che ha in mano può diventare un un’arma per uccidere; e quella di pochi minuti dopo in cui a seguito dell’uccisione di un altro capobanda lancia la clava in aria e questa, roteando nei secoli, diventa una navicella spaziale. Credo che sulle nuove tecnologie in teatro siamo ancora nella fase dei palleggi sperimentali, forse perché non manteniamo abbastanza a fuoco il fine.

A mio parere la creazione scenica nel contesto computerizzato potrebbe avere la chance di utilizzare gli strumenti a disposizione per puntare allo stesso obiettivo teatrale di sempre, a meno che non abbia l’ambizione di inventare una nuova forma d’arte. In altre parole trovo che si possa verificare l’utilità di uno strumento in base a ciò che si intende comunicare con una determinata opera, perché in caso contrario potrebbe impercettibilmente diventare un’arma per ucciderla.

Credo che su questo tema abbiamo recentemente assistito a un esempio storico che voglio prendere come riferimento, la benedizione “urbi et orbi” fatta da Papa Francesco il 27/03/2020. Chiunque, laici, credenti di diverse religioni, agnostici, guardando quel video può percepire il senso di ciò che sta dicendo il Papa in rapporto

al proprio dolore, e le sue parole, le voci che cantavano l’inno eucaristico “Adoro te devote” scritto da Tommaso d’Aquino nel 1264, non perdono la loro potenza espressiva con la fruizione digitale, perché cercano di rispondere profondamente all’immenso vuoto della nostra condizione mortale.

Il procedimento opposto, ovvero partire da una semplice suggestione, ad esempio una generica voglia di utilizzare delle proiezioni, di giocherellare con uno scheletro senza un fine preciso, messo al vaglio del tempo e del confronto con gli altri, può egualmente condurre a una ragione concreta, ma nella mia condizione di quadrumane

teatrale ho sperimentato essere ad oggi una via più lunga, col rischio di compiacersi fin troppo del dubbio sul fine ultimo della nostra arte. Ad ogni ominide il suo randello.

D’altra parte in termini più generici il teatro potrebbe invece avere un approccio conservatore con questa ubriacatura dell’infanzia delle nuove tecnologie continuando

a focalizzarsi sull’incontro della polis, sua eterna essenza. Il mercato non ne sarebbe contento ma in fondo non ne patirebbe neanche perdite così ingenti. Il punto è che sono strumenti e come tali vanno usati se e quando servono.

A questo proposito una volta Pasolini si chiese ironicamente se, per soddisfare la coerenza pretesagli da un giornalista, fosse il caso di fare film per raccontare il suo pensiero critico nei confronti del capitalismo, o di suicidarsi per la dolorosa presa di coscienza che quegli stessi film si servivano della logica capitalistica per essere realizzati. Decise comunque di girare i suoi film e poi sappiamo come andò a finire. Il poeta non rinunciò alla ferma convinzione che la sua arte in questo caso cinematografica, pur servendosi dei mezzi che gli son più propri, dovesse indicare una via di giustizia. Quale sia questa via chiama tutti noi a uno sforzo etico ben maggiore rispetto a decidere se usare o meno delle proiezioni in una scena, ma può illuminare anche questo aspetto facendo chiarezza sul proprio vivere quotidiano. Personalmente trovo l’essenzialità una chiave interessante per la scena e per la vita lasciando all’immaginazione le elaborazioni di senso e di forma di cui per sua natura

è capace.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il dolore e la morte sono reali, l’arte deve rievocarli per ritemprare la vita attraverso una metafora. Quello che viviamo in questi giorni purtroppo o per fortuna può aiutarci a fare il punto su questo tema: il lutto e la sofferenza sono il primo metro affidabile per conoscere il reale. Ma questa realtà sarà oggetto di manipolazioni dei media che ne parleranno in temi bellici, a mio avviso impropri o in termini scientifici, preferibili, cambiando in parte la nostra percezione del problema. Addirittura sarà la mente stessa, come sappiamo, a cambiare subito le carte in tavola, elaborando ciò che stiamo vivendo finché ognuno di noi racconterà di aver vissuto una cosa diversa dagli altri. A questo punto si rivela centrale il ruolo assunto dall’arte che con un atto di volontà creativo, e manipolando comunque la realtà nel perpetrare il suo essere, può aiutarci a ristabilire un contatto con quel dolore per compiere una scelta sulla nostra vita. In questo senso pratico riscopriamo l’utilità concreta di alcuni riti dai quali trae fondamento la nostra arte. Tuttavia, com’è noto, in un luogo deputato alla rappresentazione scenica vi sono delle realtà che precedono ogni creazione artistica e influiscono su di essa: l’ecosostenibilità della struttura, la legislazione dello spettacolo che tuteli i diritti e i doveri dei lavoratori, la lingua parlata in quella determinata città per cui il testo necessita di una traduzione, i finanziamenti adeguati senza i quali la troupe di Friedrich Munro rischia di fermare i lavori a metà riprese etc… Si tratta sempre di danzare e cantare affinché il cielo pianga sulla terra ma in linea di massima il teatro italiano è irreale in relazione a questi temi.

Detto questo, chi parla di circostanze reali senza occuparsi di creare una metafora scenica per raccontarle, a mio parere non consente un incontro col reale a chi partecipa poiché non crea la distanza necessaria per consentirgli di richiamare alla

mente il suo dolore. Chi invece non parla di circostanze reali concentrandosi esclusivamente nella costruzione di una bella forma, non consente un incontro col reale in egual modo perché offre la metafora di un nulla di fatto. Personalmente credo

che valga sempre la pena vivere in teatro un confronto col reale attraverso una metafora che rievochi le ferite da cui siamo nati, che ci caratterizzano e dalle quali poi guardiamo il mondo.

Cristina Kristal Rizzo

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CRISTINA KRISTAL RIZZO

Per la trentunesima intervista incontriamo la coreografa, autrice, danzatrice Cristina Kristal Rizzo, une delle personalità più poliedriche della nostra danza. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Cristina Kristal Rizzo dagli ’90 è protagonista della danza contemporanea italiana. I suoi lavori sono stati apprezzati nei più prestigiosi contesti italiani e internazionali. Tra i suoi molti lavori voglio ricordare solo i suoi due ultimi visti dal vivo: VN Serenade e ULTRAS Sleeping dances_solo

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Sabato 11 aprile 2020, oggi é il trentacinquesimo giorno di ‘ distanziamento sociale ‘ in cui ci troviamo e dunque questa intervista, queste domande, risuonano tra un prima e un dopo, mi permettono forse di generare un luogo di pensiero molto più in bilico e di aprire prospettive.

La creazione scenica ha soprattutto bisogno di essere liberata, di essere svincolata dalla produzione di prodotti per il mercato culturale, per entrare in contatto con il reale e davvero espandersi verso l’altro – il mio vicino di casa che in questi giorni sto cominciando a riconoscere – deve poter essere libera di inventarsi come vuole, di crearsi nella gioia e non nell’algoritmo del potere. Paradossalmente proprio adesso che non abbiamo più niente, nel senso che non dobbiamo preoccuparci d occuparci di organizzare, promuovere, progettare, sopravvivere ecc. ecc. proprio adesso che non c’è tutta quella parte del lavoro che ormai era diventata la condizione principale del nostro fare, siamo nuovamente liberi di usare l’immaginazione e il desiderio creativo, quello più intuitivo, quel bisogno semplice e diretto che non ha bisogno di capitalizzare per esistere. Questa gioia non si vende ma anche non si svende. Intendo dire che questa risorsa umana perché affettiva, toccante, etica ci appartiene, é un bene comune che ha bisogno di cura e di intelligenza collettiva per essere efficace. Oggi ci dobbiamo occupare di trovare una potenza per agire sulla realtà, dismettere il virus del narcisismo generato dal precariato e dalla produzione permanente, sintonizzarci sulla lacerazione del corpo, tirare il fiato, pensare, discutere, scrivere, perché la catastrofe è un’occasione formidabile per far emergere altri stati percettivi del tempo e ritrovarsi da un’altra parte tutti insieme.

Settembre 2019 Museo del 900, Firenze Dance Cristina Kristal Rizzo e Giuseppe Vincent Giampino

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Lunedì 13 aprile, é mattino, sempre in isolamento, il presente sembra essere divenuto ingombrante ed anche queste domande appartengono ad un’idea di evoluzione che non riconosco più. Sto smantellando il più possibile l’impulso di dover essere efficiente e impegnata per non avere sensi di colpa, cosa che in verità già avevo cominciato a fare prima di questo lock down nel tentativo di sganciarmi dai mortiferi incatenamenti di questi ultimi anni. Percepisco sempre uno scollamento, come se i miei problemi o di chi come me ha già un’esperienza ed un percorso molto lungo alle spalle, siano di intensità diversa o di contingenza diversa, ma in verità é tutto connesso. Forse la mia presenza nel panorama danza italiano potrebbe essere presa come paradigma di tante cose che non sono funzionate come dovevano, come se avessi accumulato tanti errori, il mancato riconoscimento di un percorso che si é tracciato come un corpo di esperienza e malgrado la mia singolare storia potrebbe essere considerata solo un’eccezione, sicuramente in tutto questo c’è un dato simbolico e politico che non va sottovalutato. Prima mi interrogavo quotidianamente sulla mia responsabilità nel continuare a sostenere il sistema produttivo e fare parte di una comunità comandata a nutrire competizione, isolamento, mercato. Adesso che ci siamo fermati , crollati direi senza margini, ho finalmente capito che la mia intuizione di abbandonare quel mare torbido in cui ero immersa, non è solo un lamento solitario di stanchezza e di perdita di desiderio, ma è un disagio che può generare altro. Ci sono molte cose che dovremmo tutti dismettere. Non credo a nessuno che mi dice che poi riprenderemo come prima e neanche a chi mi parla di Audience Engagement come risorsa e rilancio, quando invece è una solidarietà radicale ciò di cui abbiamo bisogno per evolverci da questo scacco matto, da questo impasse del tocco.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

E’ pomeriggio adesso, sto ascoltando su mixcloud DANCE INSIDE FRANKO B BLACK FIRST LIVE STREAMS IN CORONA TIMES, un amico, mi ha scritto un messaggio su WhatsApp inviandomi il link, condividendo il desiderio di fare al più presto un rave in spazi pubblici in pieno giorno. Rispondere a queste domande in questo momento mi sembra una tortura, una finzione, un errore, qualcosa nel paradigma del linguaggio che non funziona più.

Siamo delle entità fragili, forse tutto questo è anche una buona lezione per de programmare l’ego della specie, il cambiamento è evoluzione e solitamente l’evoluzione comincia in una rivelazione spirituale, attraverso la creazione e in tutte le forme di arte.

Lei disse: Usciremo da tutto questo? E dove andremo?

Lui disse: Non siamo mai stati fuori da tutto questo.

E’ in gioco la scomparsa dei corpi in quella che chiamano Shut In Economy, a questo punto non ci resta che tentare di salvarlo il corpo, toglierlo di mezzo almeno per il momento, solo un tatto interno ci proteggerà dall’aridità programmata bi-dimensionale in cui vogliono farci sprofondare. Sono passati diversi giorni ma i segnali che sono arrivati appaiono completamente scollegati con la realtà che gli artisti stanno vivendo, dicono che tutto ripartirà ma sono quasi esclusivamente gli operatori che prendono parola sul come. Il sistema non funzionava prima e non funzionerà dopo se continueremo a considerare ciò che facciamo come un prodotto quantificabile nel mercato estrattivo della produzione permanente ! Ciò che è in gioco nella presenza sono le intensità e queste sono sempre difficili a trasmettersi e a farsi apparizione, ma sono il raggiare di qualcosa che eccede il dato, il disponibile, il commensurabile, sono la materia che si fa vibrante. Perché dunque un corpo, tutti i corpi, per sempre i corpi? Perché solo un corpo può essere accarezzato e sollevato, solo un corpo può toccare, può essere toccato e può anche non toccare.

Settembre 2019 Museo del 900, Firenze Dance Marta Bello e Angela Burico

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

I giorni passano veloci stranamente, oggi è il 17 aprile le giornate sono lunghe e con cieli aperti e azzurri, esco e vedo molte persone, siamo tutti stanchi di stare a casa, siamo tutti annoiati di non capire cosa sta accadendo, cosa accadrà nella fase 2, sono felice di percepire questa non resilienza, l’urgenza dei corpi che spinge spinge spinge, ci allontana dalla paura.

Mi ripeto da giorni che il 900 é finito, finisce qui, così. Da un paio di giorni gira la voce non ufficiale che i teatri non potranno riaprire prima di dicembre, questo mi crea un’ansia feroce, sto nuovamente immersa in pensieri orrendi di precariato e competizione, come sempre non sento chiarezza intorno a me, gli operatori si sono silenziati o immaginano affollamenti di performances e spettacoli, nessuno che abbia avuto l’onestà intellettuale di domandarsi di che cosa avremo tutti bisogno dopo? Continuo a ripetermi che la danza non può prescindere dall’evento dal vivo, la danza è una cosa viva. In queste settimane ho avuto il rifiuto totale di qualsiasi sollecitazione che mi è stata fatta ad intervenire in streaming con il corpo, non è proprio possibile immaginarsi una coreografia a distanza, ma neanche la lezione di danza davanti ad un computer è davvero possibile, molti lo stanno facendo, lo prendo come un segnale positivo di apertura e necessità di rimanere connessi al mondo, ma non sopporto le dinamiche di sfruttamento o auto sfruttamento che si stanno applicando sempre uguali, malgrado il dispositivo sia completamente diverso e non sopporto che si tratti la danza come una qualsiasi lezione di yoga. Ma invece di auto affondarci nella rete e scomparire nel nulla unificato possiamo provare a reinventare l’architettura dei nostri futuri incontri ? Possiamo provare a praticare un’altra qualità del tempo per incontrare l’opera ?

Non ricordo più esattamente quando ma l’affermazione più potente mi é arrivata da un intervento di Paul B. Preciado su EL PAIS, che conclude un lungo e intenso scritto sulla dematerializzazione del desiderio domandandosi e domandandoci a quale condizioni e in quale modo la vita sarà ancora degna di essere vissuta dopo la grande mutazione del Covid-19, ecco ci invita a generare una forza comune ed esprimere il dissenso: Utilizziamo il tempo e la forza dell’isolamento per studiare le tradizioni della lotta e della resistenza minoritaria che ci hanno aiutato a sopravvivere sino a qui. Spegniamo i telefoni cellulari, disconnettiamoci da Internet. Facciamo un gran blackout in faccia ai satelliti che ci vigilano e immaginiamoci insieme la rivoluzione che viene.

Ho bisogno di tornare a danzare, ho bisogno di vedere altri corpi danzare.

Cristina Kristal Rizzo
Cristina Kristal Rizzo VN Serenade @lucadalpia

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Domenica 19 aprile.

ciao Matteo, credo che il futuro sarà decisivo per un cambiamento radicale, ma dovremo lottare tutti, ognuno nel suo ambito e ambiente, lottare contro le solite forme di potere che sinceramente non sono più possibili. Ma soprattutto proteggere ciò che facciamo, le nuove generazioni si sono svegliate ma non comprendono che l’arte non è un prodotto che si compra come qualsiasi altra cosa al supermercato, adesso hanno bisogno di rivendicare i diritti del lavoro e dei lavoratori, e fanno bene, ma il linguaggio che stanno usando é terrificante perché ci rende tutti uguali e tutti potenzialmente nemici. Penso che dobbiamo smettere di produrre per esempio, c’è un repertorio tutto italiano, di spettacoli che hanno girato pochissimo che é una risorsa da sostenere e mettere in risalto…a me interessa la creatività libera, mi interessa la qualità alta, un linguaggio raffinato per tutti…molti scompariranno, è inevitabile, ma anche c’è troppa individualità che spinge persone a fare ciò che forse non vorrebbero neanche veramente fare e come sappiamo bene un sistema basato solo sull’estrazione di risorse umane che ha spianato tutto, che da tempo ormai gestiva le risorse ripetendosi il ritornello che era meglio avere molti prodotti mediocri a costi bassi, piuttosto che il rischio creativo e l’investimento a lunga durata. Credo che dobbiamo immaginare contesti nuovamente sobri, quasi nascosti, lenti, dove proteggere l’innocenza creativa e poi battersi per un’intelligenza collettiva, smarginare tutti insieme, credo sia proprio ilmomento.

Ieri sera ho scritto di getto questo messaggio ad un amico coreografo che mi chiedeva parole sul futuro, ma in verità credo che é del presente che dobbiamo occuparci ! Oggi é uscita la notizia che il Ministro Franceschini vorrebbe creare una sorta di NETFLIX della cultura Italiana, questo significa la resa definitiva di qualsiasi idea di spazio pubblico, fine.

Da giorni sto scrivendo un allenamento teorico per il corpo, é da ripetersi come una liturgia, un’orazione, un’invocazione, un’imprecazione:

TOCCARE

considerare la magia proibita sul bordo delle cose

continuamente fare corpo

TOCCARE

dare sensibilità alla complessità trans individuale

continuamente fare corpo

TOCCARE

far accadere un’azione trasformante al di là dell’interesse personale

continuamente fare corpo

TOCCARE

attuare la danza della contingenza: essere fuori controllo ma necessari

continuamente fare corpo

TOCCARE

intendere la libertà non come una scelta ma come un’invenzione

continuamente fare corpo

TOCCARE

praticare l’intuizione come un atto politico

continuamente fare corpo

TOCCARE

praticare un’ intensità non edenica

continuamente fare corpo

TOCCARE

generare il luogo dove il senso fa senso

continuamente fare corpo

TOCCARE

reclamare il futuro del potenziale collettivo

continuamente fare corpo

TOCCARE

allenare la pratica che diventa percezione

continuamente fare corpo

TOCCARE

fare pensare sentire

FARE CORPO CONTINUAMENTE

P.S Lunedì 20 aprile, mattina, mi è appena arrivato questo messaggio:Spostamenti limitati per

chi non scarica Immuni. L’ipotesi del governo per incentivare l’uso della app (Huffpost ).

Ma come abbiamo potuto accettare tutto questo?

Caroline Baglioni

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CAROLINE BAGLIONI E MICHELANGELO BELLANI

Per la trentesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo due giovani autori Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani sono autori e drammaturghi, interpreti e registi. Di loro ricordiamo la Trilogia dei legami conGianni, Mio padre non era ancora nato e Sempreverde.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Caroline Baglioni: La grandezza di un’opera è direttamente proporzionale al numero di persone che riesce a coinvolgere intimamente, il rapporto unico che si crea tra chi sta sopra il palcoscenico e chi sta lì a guardarlo è la forma più assoluta di fiducia che ci può essere tra persone. Quando qualcuno si siede in platea e decide di stare ad ascoltare uno sconosciuto e la sua storia, inevitabilmente mi chiedo cosa stia cercando e cosa cerco io che sto lì sopra. Ecco, credo che tutti in teatro ogni sera cerchiamo qualcosa, qualcosa che si avvicini più possibile al prenderci per mano e fare un viaggio insieme per scoprire nuovi mondi, punti di vista, traiettorie possibili. E per far sì che questo possa accadere e diventare uno scambio alla pari sono imprescindibili almeno tre cose: l’ascolto reciproco privo di giudizio, la condivisione intima di un mondo, il desiderio di lasciarsi rapire senza gridare Aiuto!

Michelangelo Bellani: La creazione scenica potrebbe fare a meno di tutto, ad eccezione della ‘relazione’. Tento di spiegarmi. L’arte teatrale è un forma di creazione spuria. Essa ricorre sovente a numerosi elementi creativi: parola, azione fisica, musica, immagini, etc. E questo sembrerebbe compromettere la possibilità di rintracciarne un’essenza. Tuttavia, tutti questi elementi, concorrono alla dimensione dello ‘spettacolo’. Il Teatro invece si basa sulla relazione. La relazione di almeno due esseri viventi che si pongono uno di fronte all’altro in un tempo presente. Da questo punto di vista non si tratterebbe tanto di identificare un luogo deputato o un particolare stile di azioni, ma appunto di appurare l’esistenza di questa relazione. È l’azione che muove verso questa relazione profonda di significanza, il porsi dinnanzi a guardare/mostrarsi, (vedersi vedenti) a fare Teatro, come la stessa etimologia della parola testimonia. Certo, questa relazione potrebbe valere anche al cospetto di un tramonto, o di un cielo stellato sopra di me, ma in quel caso parleremmo della meraviglia del pensiero, la meraviglia di fronte al mistero dell’universo a cui gli antichi greci legavano la nascita della filosofia. Mentre quando gli uomini si pongono gli uni di fronte agli altri per comprendere il dolore, la nascita, la morte, il sogno e la realtà, lì accade il Teatro.

GIANNI ispirato alla voce di Gianni Pampanini di e con Caroline Baglioni regia Michelangelo Bellani supervisione alla regia c.l.Grugher luci Gianni Staropoli suono Valerio Di Loreto assistente alla regia Nicol Martini organizzazione produzione Mariella Nanni produzione La società dello spettacolo

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Caroline Baglioni/Michelangelo Bellani:

Il discorso è complesso da fare e meriterebbe un ampio confronto. Indubbiamente le possibilità si sono moltiplicate a livello strettamente quantitativo, ma se della creazione artistica ci interessa anche e soprattutto l’aspetto qualitativo, la situazione non è altrettanto entusiasmante. La stessa idea di bando, come strumento egemone per il finanziamento, sembra mostrare non poche criticità. Se da un lato il bando è uno strumento volto a incrementare accessibilità e trasparenza nella gestione delle risorse; dall’altro rischia di compromettere il libero accadimento della creazione e, fatto ben più grave, rinuncia alla responsabilità di una direzione artistica/produttiva intesa come fondamentale relazione sinergica fra ente produttore e artista. La coercizione al bando, ha allevato una generazione di artisti sempre più affannati a reperire e compilare moduli, piuttosto che impegnati nello studio e nella creazione e ha abituato gli organizzatori a pescare nel mare indistinto delle proposte invece di coltivare relazioni proficue sviluppate nel tempo. Per di più la categoria più in voga dei bandi riservati ai così detti “under 35” (oramai anche under 30) rischia di generare un buco nero per tutti gli artisti che, una volta compiuto il 36esimo anno di età non trovano più referenti. Nel proliferare delle occasioni, bandi e festival, molti dei quali rappresentano una reale opportunità e sono gestiti con passione e competenza, ve ne sono purtroppo altrettanti che rappresentano dei veri e propri specchietti per le allodole. Fra bandi a premio che premiano con una replica a costo zero per chi la organizza, magari dopo aver ricevuto un finanziamento regionale per organizzare il proprio festival; teatri con finanziamento pubblico che propongono repliche a incasso senza garantire un minimo cachet; produzioni di teatri nazionali che costringono gli artisti a paghe al minimo della sopravvivenza, mentre la gran parte delle risorse pubbliche vengono destinate al mantenimento organico della struttura; è tutto, ancora troppo spesso, drammaticamente sulle spalle degli artisti, che pur di riuscire a vedere realizzate le loro creazioni si piegano a condizioni inaccettabili.

Bisognerebbe in primo luogo creare una normativa adeguata al settore che riconosca le specifiche professionalità. Riconoscere che essere artista significa anche svolgere una professione con specifiche tutele sindacali. Distinguere con adeguati strumenti giuridici le realtà professionali dal calderone delle tante attività amatoriali, e forse anche distinguere la creazione artistica di interesse pubblico, dall’impresa teatrale prettamente commerciale imperniata esclusivamente sul personaggio noto di turno.

Il concept, perlopiù squisitamente algebrico, dell’attuale normativa ministeriale, sin dalla sua entrata in vigore, ha mostrato evidentemente tutti i limiti del caso e rischia di azzerare i veri indici di salvaguardia della creazione scenica.

Ma c’è bisogno anche della passione e del cuore. Bisognerebbe anche che i ‘produttori’ tornassero a innamorarsi dell’arte degli artisti con cui scelgono di avere un rapporto e come fanno tutti gli innamorati ricominciassero a fare ‘pazzie’ per rendere avvincente un panorama teatrale (per non dire mercato) oramai tanto disciplinato e prevedibile da risultare sempre più simile a una fotocopia mal riuscita della televisione.

Caroline Baglioni – Michelangelo Bellani

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Caroline Baglioni/ Michelangelo Bellani:

La distribuzione attualmente in Italia è contingentata. Gli enti teatrali finanziati pubblicamente hanno degli indici da rispettare che di fatto disincentivano la circuitazione. Le realtà più virtuose cercano di ricavarsi dei piccoli spazi per dare ossigeno alle produzioni indipendenti più interessanti al di fuori del ‘mercato ufficiale’, ma sono gocce nel mare di chi si adegua e fa buon viso a cattivo gioco inventandosi meccanismi ancora più perversi fra scambi di date e falsi borderò, pur di mantenere gli indici di quantità necessari, a totale discapito dell’evento teatrale e della sua promozione e diffusione. Inoltre la cattiva pratica delle stagioni ‘off’ ha diffuso la fuorviante nomenclatura di un teatro di serie A (con le grandi facce nei cartelloni) e un teatrino ‘semiclandestino’ di serie B in cui insensatamente finiscono anche artisti di valore assoluto con trent’anni di carriera alle spalle. La domanda è: chi difende questo valore? Perdurando in questa separazione potrà mai avvenire il passaggio dall’off all’on? La critica, ormai deportata (come del resto tutta la comunicazione della comunità teatrale) nei social network, non ha più nessuna voce in capitolo per contribuire alla costruzione di un valore artistico. Come i politici con i sondaggi elettorali, i gestori delle risorse spesso si nascondono dietro l’idea che il ‘pubblico’ – nel generico indistinto in cui è proiettato – “vuole questo”; e così non propongono uno stato dell’arte, ma semplicemente lo subiscono. Di fatto avviene qualcosa di molto simile a una censura preventiva. Artisti che non trovano nessuno spazio di confronto con il pubblico, magari se adeguatamente promossi, avrebbero la possibilità di attirare una fascia di persone che attualmente viene scarsamente presa in considerazione. L’innovazione e la distribuzione culturale è anche un fatto di coraggio e di anima, se ci arrocchiamo nelle nostre ormai così poco stabili posizioni acquisite non andremo troppo lontano.

Nel 2016 abbiamo vinto il Premio InBox, uno dei pochissimi che attraverso una rete mette in palio il vero ossigeno per gli artisti teatrali cioè le repliche. L’anno precedente il Premio Scenario Ustica, e poi altri bellissimi riconoscimenti. Ma si riparte sempre da zero. Non c’è continuità perché quasi nessuno investe in un progetto artistico pluriennale. Occorrerebbe moltiplicare la possibilità e gli incentivi alla circuitazione retribuita con cachet equi; non sprecare risorse in teatri o festival che non garantiscono condizioni dignitose; riorganizzare il sistema della gestione dei finanziamenti pubblici in modo tale che, contrariamente a quanto avviene, il costo di mantenimento delle strutture e del personale non artistico, non superi la quota destinata alla creazione e diffusione delle opere. Ma è necessario più di ogni altra cosa il fattore umano, senza il quale nessuna riforma strutturale potrebbe produrre risultati. Credere nelle persone. Nell’arte. Al bisogno interiore e collettivo di respirare bellezza, che seppur non può salvare il mondo è da sempre la spinta di chi il mondo lo salva davvero.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Caroline Baglioni: Siamo da poco entranti nella quarta settimana di quarantena nazionale, eventi live online di ogni genere, (letture, poesie, video integrali di spettacoli, conferenze, etc) hanno iniziato ad affollare le nostre bacheche e le nostre mail. Se all’inizio l’ho trovato il modo più efficace e diretto per sostenere il teatro e il nostro lavoro, già dopo pochi giorni mi sono resa conto di quanto questo genere di virtualità tradisca la natura specifica del teatro veramente live, (vivo, immediato, vibrante per respiro o colpo di tosse) che non può bucare lo schermo, né avvicinarsi minimamente a poter essere un’esperienza. La specificità del teatro è proprio la relazione, come abbiamo già sottolineato più volte, e tradurlo per immagini lontane, sfocate o nitide che siano, non può rendere giustizia a nessuna caratteristica che definisce l’esperienza dal vivo. Il video, già solo per la possibilità che apre ad essere visto e rivisto, stoppato, ‘pausato’, filtrato, non può sorreggere la potenza del qui e ora, anzi, appiattisce e allontana lo spettatore che cerca l’immediatezza e la vicinanza. Non a caso alcuni lavori che ci paiono strepitosi in video a volte dal vivo ci deludono e viceversa. Il teatro non ammette mediazione, né virtuale, né umana.

Michelangelo Bellani: Il teatro non è un luogo (tòpos) del tempo. È un luogo della coscienza. Coscienza di un gesto. Di una parola. Di una scelta. Di un’azione. È dunque molto difficile proiettarlo, ‘spammarlo’ nella totalità digitale e iper-connessa dominata dal ‘tempo reale’. In teatro non esiste una durata nel senso Bergsoniano del termine, poiché non vi è alcuna preoccupazione feticistica di conservazione o archiviazione. È un’arte deperibile che contravviene alla vocazione dell’estetica tradizionale. Infatti, il fine dell’estetica artistica – sia che si tratti della ‘fissazione’ dell’impressione del sentimento, sia che si tratti di un’espressione concettuale – mantiene una sottile quanto imprescindibile tensione all’eternità, per la quale il grado di riuscita estetica è commisurato a una bellezza universale cui risulta indispensabile durare nel tempo. L’estetica di una situazione teatrale, al contrario, si distingue per la rinuncia a voler realizzare un’opera durevole e per il suo essere-per-la-fuga del tempo in quanto espressione concreta di un vissuto. Il teatro è un’esperienza che si compone della stessa ‘stoffa’ dell’esistenza e dunque, come è naturale che sia, è mortale. Vivere qualcosa di unico e irripetibile e viverlo sulla propria pelle. Non è da sempre questo il desiderio più o meno velato di chi partecipa a un’esperienza? Far accadere qualcosa di nuovo e imprevisto nel corso di ogni replica, non è forse il segreto del vero talento dell’attore? Da questo punto di vista, una continua reperibilità e accessibilità non può che svilire l’esperienza teatrale. Può valere come strumento promozionale, caso di studio, ma in nessun caso come surrogato dell’esperienza. Il teatro non è tempo reale è presenza. Per me, fare teatro significa soprattutto riflettere la contemporaneità. L’apertura dell’arte teatrale, proprio per la sua natura di evento immediato e deperibile, lontano dal real-time della comunicazione di massa, riceve e produce valore in una società come atto di partecipazione collettiva ovvero come compresenza attiva in un determinato momento storico, ma che si nutre anche di una certa distanza, di un certo ‘scarto’ dal tempo reale, di un certo ‘mosso’ dato all’apparenza delle cose. Coscienza, appunto di ciò che ‘rappresentiamo’ nel presente e delle implicazioni del nostro modo di parlare e di agire.

Caroline Baglioni – Michelangelo Bellani: Mio padre non era ancora nato

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Caroline Baglioni: Sottrarsi a ciò che per definizione chiamiamo ‘reale’, per quanto ci sforziamo, è forse impossibile. Personalmente negli ultimi anni, anche attraverso la scrittura, ho preso a prestito come basi dei miei testi, fatti estremamente concreti, che fanno parte del quotidiano e che se anche non riguardano in prima persona tutti, sono entrati a far parte della storia di tutti, come ad esempio il crollo del ponte Morandi nel 2018, la battaglia di Dj Fabo per il suicidio assistito, etc. La mia personale sfida col reale è sempre quella di partire da esso per discostarmene, veicolarlo cioè attraverso vie inaspettate che portino da un’altra parte, il reale come una porta per entrare in un altro mondo, universale, che riesca ad intercettare una storia comune, un’umanità comune. Non trovo quasi mai interessante riportare la realtà nuda e cruda su un palcoscenico, il teatro ha la forza per fare molto di più, proprio perché parte dall’opposto, da una ‘finzione’, e allora si tratta di reinterpretare la realtà in modo da renderla tridimensionale, elevarla a qualcosa di tanto impossibile quanto significante, e compiere un giro tale per cui la realtà possa tornare, per magia, a superare la fantasia.

Michelangelo Bellani: Per me non si è mai trattato di imitare la realtà. Semmai di essere autentici. L’autenticità non è una categoria che si specchia necessariamente nella realtà. Anche un fatto immaginario, un sogno, un invenzione, possono essere autentici come vissuto. Essere autentici significa esprimere il momento di un Essere, più che la sua essenza. Esprimere la manifestazione di un tempo finito, piuttosto che l’assoluto di un ideale . Anche se una certa idealità non può essere del tutto impedita.

Tutto questo mi porta a considerare lo spettatore un incontro, non un fronte, nel quale incontro, agisce come metafora il più ampio rapporto che riguarda lo ‘spettacolo’ del gran teatro dell’esistenza, delle categorie del pensiero, del vedere e decifrare l’estensione della realtà. Mi pare allora che in teatro ci si possa porre la questione di come condividere un’autenticità di cui si è naturali partecipanti dal momento in cui le categorie della simulazione, tanto nella vita che nel palcoscenico, sono perennemente in agguato.

Non c’è una mimesis perfetta della realtà, così come non c’è qualcosa come un’assoluta distinzione di ciò che è vero. Senonché, la mimesis perfetta della realtà è la realtà stessa. Così come (Essere) ciò che siamo, è per sua natura, e non per strabismo umano, una relazione e non un’essenza immutabile da disvelare. In questo senso, allora, il teatro vale non come semplice imitazione, ma in un qualche modo come ‘produzione’ di realtà. Vedere ed Essere-visto: esso stesso accadere.

Drammatico o post-drammatico sono puramente esercizi dello stile. La cui possibile de-costruzione ha abbondantemente superato ogni possibile esito programmatico.

Teatro e mondo digitale

PENSIERI SPARSI SU TEATRO, STREAMING E MONDO DIGITALE

In questi giorni mi è tornato in mente un libro di Isaac Asimov appartenente al Ciclo dei robot, Il sole nudo. In questo romanzo il detective umano Elijah Baley, accompagnato dal robot umanoide R. Daneel Olivaw, indaga su un omicidio sul pianeta Solaria. Tra la Terra e questa colonia spaziale non vi può essere maggiore distanza culturale: la prima vive sovraffollata, compressa, sotto cupole in immensi agglomerati di cemento e acciaio; gli abitanti di Solaria vivono invece isolati, in vasti appezzamenti, comunicando con gli altri solo tramite trasmissioni olografiche, rifuggendo non solo il tocco con un altro essere umano, ma persino il vedersi dal vivo se non per brevi e assolutamente gravi motivi. Tra due civiltà tanto distanti non sembrerebbe possibile la nascita di alcun dialogo, eppure il seppur breve contatto tra il terreste e i solariani cambia radicalmente i pregiudizi culturali di entrambi i popoli.

La distanza abissale tra la Terra e Solaria mi è sembrata assonante con la questione tanto dibattuta in questi giorni tra teatro e streaming o più in generale tra teatro e mondo digitale. Non potremmo immaginare arte più distante dall’asettico mondo etereo della rete eppure in questo periodo di obbligata e dolorosa distanza dai palchi di legno, il teatro sembra di necessità sbarcato sul web. Probabilmente questo incontro era inevitabile, forse addirittura necessario. Certa è l’irreversibilità delle conseguenze ora difficilmente calcolabili.

Alcuni potrebbero pensare che mai il teatro potrà prescindere dal contatto umano di una comunità riunita nel qui e ora dell’istante, per dibattere questioni civili, politiche etiche e morali; altri potrebbero dire che tale comunità si fosse ridotta a riserva indiana e che il web è una se non l’unica via d’uscita dall’isolamento. Quando si adotta una nuova tecnologia da sempre il dibattito si divide manicheo tra i sostenitori e i detrattori, pessimisti e ottimisti, luddisti e futuristi. La storia umana ci dice che quando si adotta uno strumento tecnologico non si torna indietro. Scoperta la stampa la pratica di confezionare libri da artigiani amanuensi per quanto non sparì andò il soffitta per sempre, così come il cellulare ha mandato in pensione le cabine agli angoli delle strade. Nell’adottare un nuovo strumento si guadagna qualcosa e si perde qualcos’altro. Bisogna essere consci di cosa si lascia e cosa si ricava. Non solo. Come afferma James Bridle: «Nel momento in cui creiamo uno strumento diamo forma a una certa interpretazione del mondo che, una volta reificata, è in grado di produrre un dato effetto su quel mondo. Diventa così un altro ingranaggio della nostra comprensione del mondo – per quanto spesso per via inconscia».

L’incontro tra teatro e mondo digitale quindi provocherà inevitabilmente una modificazione del concetto che l’arte scenica ha avuto per noi fino ad oggi. Possiamo decidere se controllare questo cambiamento o subirlo. L’adesione alla rete è avvenuta per il teatro in un momento di crisi totale. Potremmo quasi dire che l’arte scenica, come tutte le altre arti dal vivo, non ha potuto far altro trovandosi improvvisamente, a causa della pandemia, in un vicolo cieco.

Per quanto soprattutto la mia generazione, quella dei quarantenni, sia stata portata a considerare il web come una tecnologia neutra se non addirittura super democratica e antisistema (immensi archivi gratuiti, costi ridotti di promozione, accesso più o meno legale ma gratuito ai prodotti culturali e infine accesso alle notizie che i media tradizionali tendono ad occultare, per citare alcuni di questi cliché culturali), internet è tutt’altro che un luogo privo di pericoli. Bernard Stiegler usa la parola greca Pharmakon per riferirsi al web: veleno e medicina. Un luogo dunque di chiaroscuri in cui è bene avventurarsi sapendo quali rischi si corrono dal momento che il DNA teatrale sembra ormai innestato di fibre ottiche e bit digitali. Ne La mosca di Cronenberg quando Seth Brundle aziona il teletrasporto non sa che nella cabina c’è una mosca. La macchina di sua spontanea volontà non trasporta due esseri distinti ma mischia il loro DNA e se, in un primo momento, lo scienziato sperimenta grandi vantaggi, con il passare del tempo l’ibridazione lo porta alla morte.

Bernard Stiegler

La questione di un alleanza/connubio tra arti dal vivo e web è ovviamente di vasta portata e non sarà certo un articolo a dipanare una matassa quanto mai intricata. Ci limiteremo a indicare qualche percorso di riflessione.

Partiamo dall’ovvio: in teatro (come nella danza o nella performance) oltre all’incontro tra performer e pubblico nel qui e ora si opera anche un montaggio della visione unico per ciascuno spettatore. Il suo occhio è libero di incontrare sul palco quello che gli suscita maggiore curiosità, interesse, affezione, commozione. Nel semplice streaming come è stato fatto fino a oggi questo viene totalmente a perdersi. A imporsi è o una regia televisiva/cinematografica nelle produzioni più ricche o un semplice totale a camera fissa che replica il punto di vista centrale e appiattisce la visione per quelle più povere. Forse bisognerebbe trovare il modo di recuperare un modello di visione personale e unica prima di adattarsi unicamente allo stampo televisivo. Come fare? E qui sarebbe interessante una sperimentazione.

Ma non è solo una questione di spazio: il tempo del web è abissalmente più rapido e instabile di quello percepito in una esperienza artistica dal vivo. Per farsi un’idea empirica della questione basta vedere l’oscillazione di presenze nelle dirette Facebook o Instagram. Il tempo lento della presenza è in assoluto contrasto con il tempo rapido e discontinuo di internet. Persino l’on demand viene spesso spezzettato (il termine tecnico è “spacchettamento dei contenuti” es. Santa estasi di Antonio Latella, spacchettato in episodi come una serie TV) così perdendo lo sprofondarsi nel tempo dell’opera. La visione è distratta tanto quanto la lettura. Questo però non è necessariamente un male. Il jazz riadattò i tempi di esecuzione dei propri brani a quello dei 78giri e nelle esecuzioni dal vivo niente impedì il perpetuarsi di brani di ampio respiro. È dalla comparsa dei mezzi di riproduzione di massa che le arti si sono adattate e modificate.

Santa estasi Antonio Latella

Il principale pericolo per qualsiasi contenuto voglia sbarcare sul web è invece la logica computazionale, quella che Antoinette Rouvroy e Thomas Berns chiamano “la governabilità algoritmica della rete”. Tale criterio volto a quantificare più che a qualificare è figlio della logica neoliberista e di fatto ha già contaminato le modalità di accesso ai finanziamenti. Non si premia il progetto più interessante, meglio realizzato o più fecondo in una strategia a lungo periodo, ma quello che ottiene migliori valori e prestazioni quantificabili: numero di borderò, biglietti staccati, giornate lavorative, etc. Google, Facebook, Amazon e Apple, i cosiddetti “quattro cavalieri dell’apocalisse”, attualmente i veri padroni di internet, stanno implementando solo logiche computazionali che inevitabilmente modificano il nostro modo di pensare il mondo.

Stiamo esagerando? Pensate: quale ristorante scegliete su Tripadvisor? Quello con centinaia di recensioni o quello che ne ha solo una decina? Su Netflix scegliete d’istinto La casa di carta o la sconosciuta serie turca o indiana? Su Spotify di un gruppo che non conoscete, per farvi un’idea, non scegliete forse la canzone più gettonata? Siamo ormai influenzati a scegliere ciò che riscontra maggiori consensi senza troppo domandarci quali sono le ragioni e le radici di tale consenso. Nel mio paese, meta turistica per milioni di persone da tutto il mondo, con l’avvento di Tripadivsor i ristoratori, per protesta al nuovo mezzo che legittimava chiunque a interpretare la parte di Joe Bastianich, spinsero al primo posto in classifica un salumiere che faceva semplici panini al prosciutto!

Se la questione è la quantità vi sono molti modi per ottenerla, e soprattutto la logica computazionale è legata al culto del profitto e per questo tende ad eliminare le singolarità alla ricerca di ciò che incontra maggiormente i gusti dei potenziali utenti. Credete che questo non influenzi le arti? Epagogix è una società inglese incaricata dai maggiori produttori hollywoodiani di sviluppare delle reti neurali per dragare la rete e scoprire quali scene dei film vengano considerate migliori e più divertenti dal pubblico in modo da replicarne i risultati.

Se la rete offre indubbi vantaggi nella messa a disposizione degli archivi di teatri, festival e istituzioni, finalmente raggiungibili non solo dagli studiosi ma anche dai semplici appassionati, qualche dubbio si affaccia sulla questione in questi giorni molto dibattuta sulla reale possibilità di aumentare i pubblici raggiungendo fasce per ora restie a frequentare le sale teatrali. Come fa notare il già citato Bernard Stiegler gli algoritmi dei social e di Youtube mettono in relazione chi è già in relazione, chi già esprime inclinazione verso, il resto viene quasi totalmente escluso. Se guardo un video o ascolto un album dei Metallica difficilmente mi capiterà nei suggerimenti Tricky o Paul Kalkbrenner. Lo possiamo notare tutti semplicemente dando un’occhiata alla sezione “persone che potresti conoscere” sulle nostre pagine Facebook e constatare che quasi tutte fanno parte in qualche modo del nostro giro di interessi. Questa modalità è logica in un contesto neoliberista in cui quello che conta è vendere dei prodotti e dove quindi è necessario non mettere in evidenza le singolarità ma la maggior fetta possibile di interessati in base a preferenze già espresse. Se posto una foto di fiori è persino ovvio che gli algoritmi suggeriscano pubblicità e contatti con fioristi e vivaisti, ma nel caso di un oggetto culturale questa tendenza a settorializzare gli interessi non andrebbe a replicare la chiusura che già c’è nella realtà? Ricordiamoci che le macchine portano in sé i difetti dei loro costruttori, anche se a volte sorprendono per la libertà di prendere decisioni autonome.

Conseguenza di questo aspetto è quella che viene definita “delaminazione dei dati”. Un articolo scritto da un grande reporter con fonti verificate e verificabili, dagli algoritmi di ricerca viene accostato per assonanza a qualsiasi altro che riporti nell’indicizzazione simili o identiche catene di parole chiave. Tale prossimità comporta l’incapacità per la maggior parte degli utenti di distinguere la qualità delle fonti e delle notizie, cosa di cui si avvantaggiano gli inventori di fake news o chiunque sia interessato a confondere le acque. Per fare un esempio in campo teatrale Acqua di Colonia di Frosini e Timpano in chiaro sulla rete potrebbe essere tranquillamente accostata a video di apologia del fascismo o che inneggiano all’intolleranza e alla discriminazione razziale. Il pubblico si troverebbe a dover ricostruire un contesto e non sempre, come nel caso delle news, ne sarebbe in grado. Bisognerebbe cercare di avviare azioni a contrasto di questi meccanismi, verso una reale messa in relazione di ambiti diversi ma compatibili (pensiamo alle neuroscienze come a tutto il mondo dell’educazione per esempio). Un campo di sperimentazione fecondissimo sarebbe dunque quello di implementare strategie per ricostruire un’agorà di singolarità in un mondo digitale regolato dalla similarità e replicabilità.

Acqua di colonia Compagnia Frosini Timpano

Altra questione di cui tener conto è come far fronte al diluvio dei dati. Lope de Vega in Todos los ciudadanos son soldados scriveva: «quanti libri, quanta confusione!/Intorno a noi un mare di carta stampata/e per lo più piena di fandonie». I tempi cambiano ma le questioni restano. Viviamo oggi un periodo in cui il teatro e la danza sono affette da iperproduzione e questo proprio per il meccanismo dei finanziamenti pubblici e privati concepiti a partire da assunti economici neoliberisti. Come critico lo scorso anno ( ma è così da almeno cinque) ho assistito dal vivo a circa duecentottanta spettacoli in dieci regioni e due stati esteri, partecipando a ventotto festival, oltre alla partecipazione a svariate rassegne di teatri. Molto al di sopra della media nazionale dello spettatore medio e nonostante questo ho una ben parziale conoscenza di quanto venga effettivamente prodotto in questo paese. A volte diventa difficile scoprire nuove realtà o talenti emergenti proprio perché non si ha proprio la possibilità di vederli. In un passaggio sul web questo aspetto verrebbe portato a un eccesso difficilmente risolvibile aggravato dalle regole interne di internet: pageranking e tecniche SEO. Chi si avvantaggerebbe sarebbero ovviamente i soggetti con maggiori disponibilità di fondi da investire. I piccoli come sempre dovrebbero arrabbattarsi, oltre alla difficoltà di reperire il tempo per occuparsi della questione.

Per concludere questo breve quanto incompleto excursus parlare di un Netflix teatrale o di uno sbarco sul digitale come si parlasse della conquista di Marte dovrebbe essere accompagnato da una riflessione veramente approfondita delle modalità di ibridazione di teatro e mondo digitale. La necessità e il bisogno spesso fanno fare scelte foriere di conseguenze non sempre positive e, come appurato dalla storia, adottare uno strumento non solo diventa irreversibile ma modifica inevitabilmente il nostro modo di percepire e di pensare. È quella che gli i neuroscienziati chiamano neuroplasticità del cervello, ossia la capacità di riorganizzare i percorsi neurali a seconda degli stimoli provenienti dalla realtà. Plastiticità però non significa elasticità. Una volta adattato, il cervello non fa passi indietro. Lo sa qualunque ex fumatore.

La tecnologia esiste e non ha senso scagliarvisi contro o osteggiarla. Essa va utilizzata con coscienza, adattandola alle esigenze e alle necessità. Non bisogna subirla. Equivarrebbe a esserne schiavi. Sarebbe desolante dover constatare come Nicholas Carr che :«Lo schermo del computer dissipa i nostri dubbi con i suoi vantaggi e le sue ricompense che sembrerebbe ingeneroso osservare che è anche il nostro padrone».

Letture consigliate

Nicholas Carr Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Cortina Raffaello, 2010

James Bridle Nuova era oscura, Produzioni Nero, 2019

Alfie Brown Capitalismo e Candy Crush, Produzioni Nero, 2019

Bernard Stiegler Il chiaroscuro della rete, Youcanprint, 2014

Yuval Noah Harari Ventuno lezioni per il XXI secolo, Bompiani, 2018

Mark Fisher Realismo Capitalista, Produzioni Nero, 2018

Jean Baudrillard Cyberfilosofia, Mimesis, 2010

Jean Baudrillard La scomparsa della realtà, Fausto Lupetti editore, 2009

Simon Sellars Ballardismo applicato, Produzioni Nero, 2019

www.arsindustrialis.org

Stefano Tè

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A STEFANO TÈ

Ventinovesima intervista per Lo stato delle cose. Questa domenica si va in Emilia Romagna, a Modena, per incontrare Stefano Tè de Il teatro dei venti.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Il Teatro dei venti è compagnia di grande impegno civile la cui attenzione è rivolta alle fasce deboli della nostra società: i carcerati, i migranti, i disabili mentali e fisici. Stefano tè e Teatro dei venti sono organizzatori del Festival Trasparenze a Modena luogo di incontro e di scambio tra teatro e comunità. Nel 2019 con Moby Dick vince il Premio Ubu per il miglior allestimento scenico e il Premio Rete Critica per per l’organizzazione/progettualità.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

A mio parere la creazione artistica ha come aspetto necessario il rischio. Considero un grande problema l’adagiarsi su questioni e soluzioni già investigate. Esiste una zona di conforto nel nostro mestiere, spesso alimentata dai tempi serrati delle produzioni e da un certo timore di uscire da parametri nei quali si è riconoscibili, catalogati. Per questo motivo ho scelto di accostare attori della compagnia e attori detenuti. Per lo stesso motivo prediligo presentare spettacoli in spazi urbani. In entrambi i casi emergono diversi aspetti di rischio. Vi è certamente il tema dell’omologazione ed incasellamento per generi, nel nostro paese soprattutto, ed è questo una prima sfida che amo correre. Superare un certo tipo di aspettativa quando ci si trova davanti ad uno spettacolo in piazza, ad esempio. Sfidare le aspettative lo trovo molto stimolante.

Allo stesso tempo sento una grande attrazione verso quella creazione che sfugge dal mio controllo. Esercito con grande caparbietà un contenimento delle soluzioni in fase di creazione. Cerco di limitare tanto l’improvvisazione durante i miei spettacoli, adottando un sistema di partiture molto precise, spesso definite e contenute dalla musica. Ciò nonostante, per la tipologia di attori e per il luogo nel quale avviene l’azione, l’imprevisto è una presenza costante.

C’è una tendenza naturale all’imprevisto che tiene in tensione il mio rapporto con il mio teatro.

Stefano Tè Moby Dick

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Esiste ancora una atrofizzazione del sistema che dovrebbe sostenere il teatro, soprattutto le realtà più giovani. Ci sono stati sforzi importanti, ma per una realtà artistica è certamente più complesso ora rispetto a decenni fa. Ci sono sostegni che incoraggiano giovani artisti alla creazione di prime opere e progetti, ma latitano ancora prospettive vitali durature, capaci di stimolare e testare chi si approccia al mestiere nel tempo. L’affiancamento dovrebbe durare almeno tre anni, durante i quali le giovani realtà possono sentirsi tutelate, nonostante gli inciampi. E’ necessario a mio avviso una accurata e rigida selezione per evitare gli avventori occasionali del mestiere e avviare poi processi di affiancamento e monitoraggio a giovani compagnie e artisti singoli, per lunghi periodi. Questo monitoraggio andrebbe esteso anche ai non più giovani. Ci si affida troppo spesso esclusivamente ad un ritorno burocratico dell’investimento, ad una prova del lavoro svolto più sul versante amministrativo che artistico. L’efficacia artistica e sociale del mestiere andrebbe monitorata sempre, perché esistono piccoli gruppi di artisti sconosciuti, che non hanno una struttura capace di accogliere importanti finanziamenti, ma che hanno da molti anni un importante ruolo nelle comunità in cui vivono, che si barcamenano e si arrangiano per rientrare in parametri burocratici che non tengono conto della loro esistenza. C’è quindi uno sforzo enorme ed uno sperpero di energia, che queste piccole realtà devono compiere per adeguarsi, contro natura, ai parametri imposti, tenendo conto esclusivamente del teatro che si conosce, che sta nello schema d’azione prestabilito. E’ necessario quindi un costante monitoraggio della realtà.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

La questione è soprattutto legata, anche qui, al tema del rischio. Ci sono festival e programmazioni ai quali è impossibile accedere. Vengono proposti e riproposti nomi, spesso provenienti dall’estero, che rivestono con una patina di confortevole lustro i cartelloni. Le realtà emergenti vengono collocate in apposite sezioni, a parte. Così per quel teatro che nella definizione ha un accostamento di rischio. Il teatro sociale sta nei cartelloni di teatro sociale. Il teatro di strada sta nei cartelloni di teatro di strada. Sono pochi gli sconfinamenti e spesso, anche qui, con il conforto del nome conosciuto. Il rischio è ciò che manca. Si crede ancora di risolvere il problema dell’assenza di pubblico con cartelloni confortevoli. Spesso le compagnie più interessanti sono quelle provenienti dall’estero, ma dubito che esista solo altrove una certa qualità da sostenere. Allora i canali di distribuzioni andrebbero ripuliti con coraggio. Ridefiniti i ruoli nel teatro ed i suoi obiettivi.

Moby Dick Ph: @Ilenia Tesoro

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Un evento da viversi, come si vive l’istante qui ed ora, ha una funzione arcaica, semplice. Deve tornare ad essere l’evento pubblico dove è possibile testare l’azione reale. Dove incontrare fedeltà e credibilità di azione e quindi di emozione. L’esperienza di sangue e carne che solo a teatro puoi ritrovare. Questo è possibile se riconduciamo la nostra esperienza d’artisti nelle traiettorie che portano al magico, all’impossibile che si realizza, alla straordinarietà dell’evento, alla meraviglia che risiede nel semplice gesto reale, credibile. Allora ci si deve liberare di orpelli e maniere per ritrovare quel punto di partenza che fa del teatro una esperienza irripetibile. Torno al tema del rischio. Ora più che mai tutto è messo in discussione e la realtà sembra distruggere ogni piano futuro. Ora è necessario innovare la nostra presenza ed è fondamentale riavviare tavoli di confronto su temi anche pratici e artistici. Ora che tutto sembra sfumare resta il desiderio di mettersi in azione e manca come l’aria quell’elemento che rende unico il nostro mestiere: l’incontro reale.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo di aver risposto sopra anche a questa domanda