Archivio mensile:Giugno 2021

Festen. Il gioco della verità

FESTEN: VERITÀ E COMUNITÀ, RICERCA E POLITICA

Da quando i teatri hanno riaperto ho voluto cercare l’occasione giusta per ritornare in sala. Volevo uno spettacolo che mi risvegliasse il desiderio del teatro e riportasse a galla gli alti valori di quest’arte millenaria sopiti nel lungo intermezzo d’assenza e che nessuno streaming o zoom poteva in alcun modo impersonare se non nella mancanza e nell’inadeguatezza.

Festen. Il gioco della verità messo in scena da Il Mulino di Amleto al Teatro Astra di Torino, prima versione teatrale italiana del capolavoro cinematografico di Thomas Vinterberg, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1998, mi sembrava l’occasione giusta per molti motivi ben rappresentati dalle parole chiave comprese nel titolo in testa a queste riflessioni.

La verità in primis. Veritas per i latini rimandava a una conformità di un’asserzione rispetto al reale oggettivo. Il termine aveva, etimologicamente parlando, anche una certa parentela con la fede, consanguineità rimasta nella vera nuziale (pensiamo anche alla religione cattolica dove si dice: Dio è verità). Per i greci d’altra parte, si parlava di Aletheia, ossia del non dimenticato, di un venire a galla attraverso uno svelamento, un apparire da un nascondiglio. Aletheia è velata ma sotto gli occhi di tutti, solo un’azione energica, coraggiosa, persino crudele, è capace di togliere il velo e farla apparire. Aletheia è appannaggio di Dike, dea della giustizia, perché ciò che rivela ci conduce lontano dalle false opinioni e dall’ignoranza. È dunque un’azione legata alla conoscenza, perciò è fluida, non granitica, mutevole secondo le circostanze e il contesto. Il teatro può essere una forma di conoscenza, laddove si allontana dallo spettacolino, per divenire dunque una sorta di prassi filosofica volta a far emergere ciò che di irrisolto resta nel nostro vivere, qui e ora.

Per dire la verità, intesa come Aletheia, bisogna percorrere strade tortuose. Per fare emergere ciò che è nascosto bisogna nascondersi a propria volta, usando la maschera, farsi parlare dalle voci, farsi attraversare dalle cose. Questo è il gioco della verità messo in atto da Il Mulino di Amleto: la festa a cui assistiamo, la vicenda di cui ci troviamo a essere complici (e vedremo in che modo), è la macchina di svelamento, il mezzo attraverso cui emerge il nascosto. Ulteriore strumento di emersione è il gioco tra ciò che avviene dal vivo e l’immagine filmica, in unico piano sequenza girato dagli stessi attori, proiettato sul telo trasparente che forma la quarta parete. Si può scegliere cosa guardare: la rappresentazione o la finzione, entrambe realtà parziali, frammenti di uno specchio da dover ricostruire ognuno a suo modo, e così scoprire il gioco di incastri, scambi e trucchi messi in atto davanti a noi per darci l’impressione della festa. Qui non siamo di fronte a un’ennesima applicazione della tanto sbandierata multidisciplinarietà, ma di un vero e proprio montaggio delle attrazioni in cui ogni linguaggio possiede una sua linea di significanza che si contrappunta con le altre a formarne uno più complesso da cui emergono i temi principali.

Da questo intreccio di forme diventa palese che il pretesto della vicenda, ciò che avviene tra i personaggi, non riguarda tanto e non solo l’istituzione famiglia, quanto piuttosto la lotta generazionale, l’oppressione dei padri sui figli, il liberarsi dei debiti ereditati, dalle catene imposte che negano una libera costruzione di un futuro diverso. La maschera e il montaggio delle attrazioni insieme rivelano un problema politico, soprattutto in questo paese, dove tutti abbiamo ricevuto in dote un fardello di cliché, debiti (pubblici e privati), automatismi e cattive abitudini da cui è molto difficile, non solo liberarsi, ma addirittura guardarle senza impallidire e distogliere lo sguardo.

In questo gioco di maschere e di scomodi svelamenti, una parte è affidata al pubblico. Ci scivoliamo dentro quasi senza accorgersene. Sembra un gioco per innescare la narrazione, una delle tante e vuote forme di coinvolgimento del pubblico, qualcosa per farlo partecipare all’opera. Ci viene fatto scegliere quale copione interpretare, se quello verde o quello giallo. E la festa comincia. Solo alla fine capiamo perché quando nel finale ci viene riproposto il meccanismo: scegliere la lettera gialla o quella verde. Da quella lettera si scopre il verminaio e noi pubblico, altro non eravamo che gli ospiti della festa, quegli invitati che di fronte agli scandali snocciolati davanti ai nostri occhi abbiamo taciuto, osservando interessati e incuriositi, ma senza intervenire. Come in Five easy pieces di Milo Rau dove nel terzo frammento ci troviamo tutti a essere Dutroux, anche in Festen tutti partecipiamo, con il nostro semplice osservare taciti, al tentativo di insabbiamento della verità. L’atto di svelamento avviene sul palcoscenico ma senza la nostra attiva partecipazione. Noi siamo i complici. Abbiamo visto ma taciuto continuando a partecipare da ospiti alla festa di compleanno. Questa è l’azione politica messa in atto da Il Mulino di Amleto: svelare la complicità di noi tutti nell’ignorare ciò che avviene sotto i nostri occhi, e di ciò farci prendere coscienza.

Art needs time

Il processo di svelamento mediante il dispositivo di rappresentazione è frutto di un lungo processo di ricerca che ha impegnato Il Mulino di Amleto per almeno due anni, processo di cui chi scrive è stato in parte testimone partecipando alle sessioni di lavoro del progetto Art needs time messo in atto dalla compagnia torinese durante il 2019 e bruscamente interrotto dallo scoppio della pandemia nel febbraio del 2020, quando proprio durante una sessione di lavoro fu annunciata la prima chiusura dei teatri. Durante quei periodi di intenso lavorio svincolato dalla necessità produttiva (un vero miracolo di questi tempi, soprattutto perché autofinanziato dalla compagnia stessa con estrema generosità) i materiali sono stati attraversati in molti modi: dal Manifesto Dogma 95, alla favole (Hansel e Gretel attraversa e si intreccia con Festen), e poi il Manifesto di Gent, Gli spettri e Un nemico del popolo di Ibsen. Un lungo lavoro con gli attori, i drammaturghi, la regia. Un processo reso possibile dalla grande coesione di un gruppo che sta crescendo insieme da anni condividendo l’evoluzione creativa sia del linguaggio registico, che delle scrittura e del lavoro dell’attore su se stesso, sulle tecniche e sui materiali.

Con troppa fretta in questi anni si è archiviata la modalità di creazione condivisa delle comunità teatrali, relegando il fenomeno a un momento storico concluso da cui non potevano maturare altri frutti. Eppure oggi si sente la mancanza di tale crescita comune, di coesione, discussione, lotta con la materia e con se stessi affrontata insieme in tutte le sue pericolose e tremende vicissitudini. Questa è la vera forza de Il Mulino di Amleto: l’essere un gruppo eterogeneo, unito, aperto alla sperimentazione e al confronto, con uno sguardo ampio e fiducioso verso il migliore teatro italiano ma soprattutto europeo. Questa forma comunitaria di agire, questa bottega artigiana abitata da molti, permette l’emergere della comunità proprio nel suo essere inclusiva anche del pubblico senza scomodare azioni forzate di coinvolgimento (avveniva anche nello splendido Platonov). È la forza dell’opera che ci permette, come pubblico, di essere parte in causa, di essere interpellati a viva forza e di essere quasi costretti, seppur gentilmente, a dire la nostra, a esprimerci. Ecco un’applicazione viva, non copiata, ma ispirata da quella che Milo Rau chiama Interpellation: il chiamare in causa il pubblico, scuotendolo, impegnandolo a dar conto delle proprie scelte e opinioni.

Ecco quindi le quattro parole che formano il titolo: verità, comunità, ricerca e politica intrecciate nella pratica di un gruppo che si impone sul panorama nazionale per il rigore con cui riafferma le funzioni più alte dell’azione teatrale: prassi filosofica, forma di conoscenza, luogo di confronto, farmaco delle ferite che ci attraversano come società.

Fin qui ho parlato de Il Mulino di Amleto come unita compatta, ma questo corpo unico e fortemente unito ha diverse anime che è giusto ricordare: a partire da Marco Lorenzi, uno dei registi di maggior spessore in questi anni, affiancato da Lorenzo De Iacovo alla scrittura e dalla dramaturg Anne Hirth, e quindi gli attori Roberta Calia, Yuri D’agostino, Elio D’Alessandro, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca, a cui, in questo ultimo lavoro si affiancano Roberta Lanave, Danilo Nigrelli e Irene Valdi.

Giunti alla fine qualcuno potrebbe obiettare che in questa recensione vi sono molte riflessioni ma pochi riferimenti alla storia. Avete ragione. La storia non è importante. È il pretesto per mettere in piedi un atto di conoscenza. Se si è interessati alle storie bisogna rivolgersi verso altri lidi, cercare l’intrattenimento, laddove tutto si basa sul plot. Il teatro, quando è grande teatro, è pensiero in atto, un ragionamento fatto d’azione, parole, movimento. È presa di conoscenza del mondo in cui si vive, ognuno dal suo punto di vista, sempre diverso nel tempo e nello spazio.

FESTEN. IL GIOCO DELLA VERITÀ

DI THOMAS VINTERBERG, MOGENS RUKOV & BO HR. HANSEN


ADATTAMENTO PER IL TEATRO DI DAVID ELDRIDGE


PRIMA PRODUZIONE MARLA RUBIN PRODUCTIONS LTD, A LONDRA


PER GENTILE CONCESSIONE DI NORDISKA APS, COPENHAGEN

VERSIONE ITALIANA E ADATTAMENTO DI LORENZO DE IACOVO E MARCO LORENZI

CON DANILO NIGRELLI, IRENE IVALDI E (IN ORDINE ALFABETICO) ROBERTA CALIA,
YURI D’AGOSTINO, ELIO D’ALESSANDRO, ROBERTA LANAVE, BARBARA MAZZI,
RAFFAELE MUSELLA, ANGELO TRONCA

REGIA MARCO LORENZI
ASSISTENTE ALLA REGIA NOEMI GRASSO
DRAMATURG ANNE HIRTH
VISUAL CONCEPT E VIDEO ELEONORA DIANA
COSTUMI ALESSIO ROSATI
SOUND DESIGNER GIORGIO TEDESCO
LUCI LINK-BOY (ELEONORA DIANA & GIORGIO TEDESCO)
CONSULENTE MUSICALE E VOCAL COACH BRUNO DE FRANCESCHI
PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA, ELSINOR CENTRO DI PRODUZIONE TEATRALE, TEATRO STABILE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, SOLARES FONDAZIONE DELLE ARTI
IN COLLABORAZIONE CON IL MULINO DI AMLETO

DEBUTTO 31 MAGGIO 2021 – TEATRO ASTRA, TORINO
PRIMA ASSOLUTA ITALIANA

DURATA 110 MIN

LE SALE VUOTE DEL PALAZZO DELLA MEMORIA

LE SALE VUOTE DEL PALAZZO DELLA MEMORIA

:«Abbiamo perso la memoria del Quindicesimo Secolo» cantavano gli Area nel 1976 in una canzone dal titolo profetico: Evaporazione. Infatti se guardiamo alle nostre spalle, ma anche ai film e alla letteratura fantascientifica di questi ultimi anni, la memoria nella civiltà occidentale sembra si sia persa ben più del Quindicesimo secolo. La memoria del nostro passato recente, delle lotte e delle rivoluzioni culturali, paiono evaporate. Sembra che questa nascente civiltà digitale abbia non solo sbiadito i ricordi, persino recentissimi, facendoli affogare nel mare magnum del megastore dell’informazione, ma in più abbia appiattito tutto in un eterno presente, sempre disponibile con un semplice click e pronto a reiterarsi nel nome del sette giorni su sette h24.

Questa temporalità profana che innalza a unica gloria il giorno lavorativo ha quindi, come conseguenza, scalzato il divino riposo, sopprimendo così quella cesura che dava senso al tempo nella discontinuità permettendo il pensiero libero e fluttuante, quello da cui nascono i pensieri fecondi e critici, e così il passato si è perso nelle nebbie ingoiato dai Langolieri di Stephen King. Senza passato si è costretti, come Bill Murray in Ricomincio da capo, a vivere in un loop temporale senza via d’uscita: non riusciamo a immaginare il futuro, costretti come siamo a sopravvivere alla velocità di replicazione del medesimo travestito da novità.

Bill Murray in Ricomincio da capo

Ciò che più risente di questo eterno ritorno dell’eguale è proprio la memoria tanto da averci fatto perdere non solo quella del Quindicesimo secolo, ma anche quella degli ultimi trent’anni e con essa si è smarrita nelle nebbie la storia recente della ricerca teatrale in Italia. Nomi come Leo De Berardinis, Antonio Neiwiller, Jerzy Grotowski o Tadeusz Kantor sembrano affiorare da soffitte dimenticate coperti da nugoli di polvere. Eppure sono il recentissimo passato.

Eterno presente digitale e amnesia (o rimozione?) sembrano attanagliare il mondo culturale italiano non solo in ambito artistico ma anche politico sindacale. Ritroviamo così riproposizioni di ricerche già date e dimenticate così come annosi problemi le cui radici si conficcano nei decenni e sembrano invece apparire dal nulla improvvisi come fulmini in un temporale estivo.

Proviamo giocando un po’ con le immagini a cercare di comprendere cosa comporti questo malfunzionamento mnemonico dispiegato in un tempo piatto sempre uguale a se stesso, processo che nemmeno il Covid ha scalfito, tanto che tutti fremono a ritornare alla normalità, a com’era prima, nascondendo sotto il tappeto i pericolosi cambiamenti comunque avvenuti (soprattutto una preoccupante sperequazione dei poteri).

Cominciamo il nostro gioco. La prima immagine esemplifica quello che potremmo chiamare Effetto Jason Bourne, dal nome del protagonista della famosa saga di spionaggio interpretata da Matt Damon. Bourne si sveglia ferito, non sa chi è, da dove proviene. Non sa nulla del suo passato. Sottopelle trova un chip con delle coordinate bancarie di un istituto di Zurigo. Visitando la banca le cose si complicano: passaporti con identità multiple: chi è dunque? Quale identità corrisponde alla sua persona? E, soprattutto: che vita conduce uno che può disporre di tali mezzi e materiali? Inoltre Bourne scopre di avere delle abilità: sa combattere, individua potenziali pericoli, immagazzina informazioni che potrebbero essere utili, reagisce con prontezza impressionante agli imprevisti, parla diverse lingue. Bourne ha dei doni e delle arti ma non sa come le ha apprese, a cosa gli servono e non sa soprattutto chi gliele ha insegnate e perché. Bourne non ha funzione pur avendo potenzialità da supereroe, e questa mancanza, che prova a sanare per tutta la saga, gli impedisce appunto di costruire un futuro. Ogni volta che ci prova lo vengono a cercare e tutto riprecipita in un vortice di fuga e violenza in cui l’unico a non sapere il motivo scatenante è proprio lui.

Il passato serve da contrasto, perché opponendosi ad esso i giovani fanno sorgere il futuro. Le generazioni si susseguono tra conservatorismo e innovazione. Ciò che è stato è la radice da cui sorge un domani diverso benché non necessariamente migliore. L’idea del progresso come parabola in ascesa tendente a infinito è una mistificazione come ricordava già il Manzoni. In arte ciò che è diventato canone viene messo in discussione e nella variazione nasce un nuovo canone. Sembra che questo perenne movimento di ascesa e caduta, di crescita e declino, si sia arrestato. Nell’eterno presente non si pensa al perdurare della memoria, ma solo a viverlo evitando i rischi di essere risucchiati nell’obsolescenza, unico vero peccato della contemporaneità. Aggiornamento continuo è il comandamento. Il problema è che come Jason Bourne non sappiamo più chi siamo né quale funzione svolgiamo nel contesto in cui ci si muove. Come Jason Bourne non sapremo costruire un futuro senza aver riscoperto il nostro recente passato in cui sono contenuti i motivi dell’attuale crisi. Ristudiare gli ultimi trent’anni di teatro italiano, sotto i vari aspetti politici, antropologici, sociologici e sindacali sarebbe alquanto utile per trovare delle soluzioni e delle vie di fughe all’alquanto problematico oggi.

Memento di Christopher Nolan

La seconda suggestione fa sorgere quello che chiameremo Effetto Memento, dal famoso film di Christopher Nolan, e utilizzeremo come sottotitolo proprio la frase che inizia il film: ricordati di non dimenticare. Leonard è affetto da amnesia anterograda. Non trattiene nessun ricordo di quello che gli accade per più di pochi minuti. Nonostante questo limite è alla ricerca di colui che lo ha aggredito e ha ucciso sua moglie. Per ricordare visi e indizi importanti per la sua indagine si tatua il corpo e gira con un mucchio di polaroid, ritratti di persone con appunti che lo aiutino a comprendere di chi può fidarsi. Leonard è aiutato da Teddy, il quale viene ucciso all’inizio del film. La storia si svolge all’indietro e grazie a questo movimento a ritroso, ecco che il presente si illumina. Leonard è colui che ha ucciso sua moglie. Lo ha semplicemente rimosso. Teddy è solo un poliziotto che ha sfruttato la sua malattia per uccidere delle persone a lui scomode. La ricerca di Leonard è fasulla, basata su presupposti sbagliati e non può avere nessun esito perché non conosce il proprio passato. Contrariamente a Edipo che si punisce per aver scoperto di essere la causa dei mali di Tebe, Leonard dopo pochi secondi dimentica tutto e rimane con una serie di diapositive e di tatuaggi incisi sul corpo che non lo porteranno a nessuna verità ingabbiandolo in un circolo vizioso. La sua ricerca sarà sempre deludente perché svincolata da un passato e quindi infruttuosa perché incapace di proiettarsi verso un qualsiasi futuro.

Mai come in questi ultimi mesi si è parlato di teatro di ricerca eppure questo è nello stesso tempo un periodo alquanto arido di discussioni teoriche. La ricerca si muove verso un ignoto sognato e pre-visto ma parte da un’origine ben definita. Sembra invece che la ricerca oggi non sia tanto una tecnica acquisita (in un processo sia di ammirazione/devozione, sia di opposizione), o un discorso artistico/filosofico/politico che metta in discussione in teatro o la danza come lo abbiamo ricevuto dal passato, quanto un fenomeno dovuto alla professione. Certo non è che si voglia generalizzare, ma indicare una linea di tendenza, un pericoloso adattarsi a termini che sembrano svuotati di senso. Come la ricerca di Leonard sembra che quella teatrale, nell’ampia accezione del termine, sia eterodiretta dai bandi che come Teddy nel film orientano Leonard verso un nuovo obiettivo. Dimenticare perché si fa una ricerca, cosa serve veramente, impedisce di comprendere che il regime di frettolosa iperproduzione non ci potrà aiutare a ricercare un bel niente. Dimenticare le motivazioni di una ricerca ci ingabbia in processi produttivi o residenze assolutamente inutili. La ricerca prima di essere intrapresa deve sapere di cosa necessita e soprattutto cosa possa metterla in pericolo, ma la cosa più importante: l’artista che la intraprende deve conoscere se stesso. Leonard non sa chi è, né cosa ha fatto. Il socratico conosci te stesso, scritto anche sulla porta dell’oracolo in Matrix, diventa fondamentale per intraprendere qualsiasi processo creativo e questo deve avvenire prima del bando, prima della residenza, prima del debutto in un festival o in un teatro.

Mickey Rourke in Angel’s Heart

Ulteriore curioso fenomeno è quello che chiameremo effetto Angel’s heart. Nel film di Alan Parker, il detective Harry Angel, viene ingaggiato per un’indagine dal misterioso signor Luis Cyphre. Harry deve trovare qualcuno che non ha pagato un grosso debito al suo committente. Le sue ricerche lo portano a New Orleans, in luoghi sordidi, colmi di riti indecenti e a scoprire, con orrore che il debitore non è che lui stesso e il suo creditore altri non è che il diavolo in persona. Harry aveva venduto la sua anima ma se ne era dimenticato. E non ha nemmeno fatto una vita di successo, colmo di denaro e gloria, ma un’esistenza sordida, di mezzucci, ai margini della società.

La rimozione dei ricordi avviene per molte ragioni non sempre traumatiche e dolorose. A volte si dimentica perché si ritiene concluso un percorso. In quello che viene chiamato effetto Cliffhanger avviene che si memorizza meglio ciò che resta incompiuto in quanto il bisogno riattiva la memoria. Martin Heidegger in Essere e tempo dice: «il pensante impara in maniera più durevole dal mancante». Non solo l’incompiutezza aiuta la memoria ma anche l’insoddisfazione per le soluzioni applicate e trovate. Per ricordare meglio bisogna mancar di qualcosa. Forse dunque il recente passato è stato dimenticato perché risolto. Forse i percorsi giunti a noi dal Novecento erano conclusi e non erano più utili all’oggi e dunque sono semplicemente scomparsi dietro le cortine del tempo. Bisognerebbe indagare il fenomeno per comprendere perché ciò che ci è più prossimo è sfilato nelle nebbie del passato. Un’indagine pericolosa come quella di Harry Angel, perché potremmo venire a scoprire una certa correità del mondo teatrale nella crisi del teatro e questo perché si sono detti molti pericolosi sì, magari anche in buona fede, a delle pratiche e a delle modalità che hanno condotto alla costruzione di una filiera iperproduttiva premiante la quantità e non la qualità. E se così fosse verremmo anche a scoprire che tutto ciò non ha portato benessere e gloria al comparto, ma a una vita misera, ai margini della società, in molti casi al limite della sussistenza. Eppure se compissimo tale indagine come fossimo sulla sedia dell’analista potremmo anche far riaffiorare ciò che invece è assolutamente necessario al teatro e ricordarne le funzioni perdute e mai riaggiornate. Come diceva Freud in Costruzioni nell’analisi: «il terapeuta dà la possibilità al paziente di ritrovare qualcosa che in realtà non aveva mai perduto. Il paziente scopre che ciò che sta disperatamente cercando è già in suo possesso».

Da ultimo l’effetto Embers, dal film di Claire Carré, dove troviamo un’umanità colpita da un’epidemia i cui effetti sono quelli di provocare nei sopravvissuti un’inguaribile amnesia anterograda. Nessuno ricorda niente se non per pochi istanti. Nemmeno gli affetti più stretti e sinceri sopravvivono a un semplice distacco di pochi minuti. Coloro che ricordano sono rintanati in rifugi sotterranei, circondati da oggetti di cultura ormai obsoleti e inutili e da ogni comfort tranne la socialità. Miranda, unico personaggio ad avere un nome, decide di lasciare il suo rifugio, affrontare la perdita di memoria pur di avere la possibilità di sfuggire alla noia di una prigionia autoimposta. Avendo a disposizione solo il passato, non potendo costruire un futuro, sceglie di vivere un eterno presente, seppur senza senso alcuno e senza la speranza di poterlo avere.

Embers di Claire Carré

L’epidemia, come ben sapeva Artaud, non avviene solo nel regno della biologia, ma anche nel mondo delle idee. Ci siamo avvinti con troppa foga al mondo digitale, sposando le sue tecnologie senza mettere in dubbio nemmeno per un secondo che andassero soppesate prima di essere utilizzate. Il mondo etereo del digitale però è orizzontale privo com’è della verticalità del tempo. Tutto è a disposizione sullo stesso piano, tutto dura un battito di ciglia, il tempo di un post, di una tempesta furiosa di commenti. Siamo tutti connessi ma scollegati, privi del confronto, della discussione, dell’analisi. Si legge disattenti, veloci, saltellando da una frase all’altra e nulla si fissa veramente nella memoria. Stiamo tutti diventando smemorati perché non sappiamo più soffermarci. Ciò che è avvenuto due anni fa sui palchi difficilmente si rammemora, recensioni di spettacoli di soli tre stagioni fa non sono più lette, considerazioni di prima della pandemia sono già obsolete, si corre verso il prossimo appuntamento dimenticando già quello di ieri. Così oggi nell’apertura frettolosa e generalizzata ci troviamo già subissati di nuovi lavori, di conferenze stampa, di programmi, e a correre su e giù per l’Italia. Poco rimarrà nella nostra memoria perché non diamo tempo alle cose di sedimentare, alla mente di riflettere, di considerare, di confrontare, di scoprire, come diceva Benjamin, una realtà nei frammenti di specchio che incontriamo sulla nostra strada.

Alla fine di questo che non è stato altro che un gioco innocente, fatto per celia, un viaggio per immagini e metafore non troppo serio e scientifico, ci possiamo lasciare pensando alle anime dantesche e alla loro unica preoccupazione di essere ricordate da chi ancor viveva. Non c’è pena maggiore in tutto l’inferno che l’essere dimenticati. :«fama di loro il mondo esser non lassa» viene detto degli ignavi negletti sia da Dio che dai suoi nemici, e così degli avari : «la sconoscente vita che i fé sozzi,/ad ogne conoscenza or li fa bruni». Questa la sorte dei peccatori spiacevoli. Nel nostro contemporaneo invece rischiamo di garantire tale bieco destino a figure che invece meriterebbero memoria e i cui insegnamenti e pratiche potrebbero essere alquanto utili al nostro tempo colmo di confusione. Dovremmo aver la forza di rispolverare i ricordi, tornare a guardare al recente passato con coraggio e indagare con serenità e rigore perché oggi il teatro sia attanagliato dalla foga di produrre lavori che nel giro di mezza stagione verranno dimenticati e, soprattutto, perché ci siamo piegati al principio di valutazione quantitativa e, forse, solo così torneremo a incontrare veramente il pubblico sul piano della necessità e non su quello della convenienza e del bisogno.