Inizia domani in Friuli Venezia Giulia, tra Pordenone, Cordenons e e Vigonovo di Fontanafredda, La scena delle donne, un festival dedicato interamente al femminile e che giunge alla sua diciottesima edizione. Spalmato sul un lungo periodo fino all’autunno La scena delle donne vuole fornire uno spaccato non solo artistico sulla condizione femminile non solo in Italia. Il primo blocco di programmazione si dona un titolo importante: Connessioni Intergenerazionali e vuole appunto mettere in comunicazione e confronto artiste di diverse generazioni. In occasione di questo inizio, rimandato causa Covid, ma che coincide con la Feste delle donne, abbiamo intervistano la direttrice artistica Bruna Braidotti.
Parlando della questione femminile e di genere in questi ultimi anni vi è stata una graduale messa in discussione di diritti che si pensavano ormai acquisiti (penso all’aborto, per esempio) e una crescente ostilità nel riconoscere da parte della politica prima e della società in generale, parità di genere a qualsiasi genere: quali sono secondo te i motivi di questi passi indietro?
Credo sia accaduto a partire dagli Ottanta e Novanta, una sorta di riflusso del femminismo, la voce femminista si è come acquattata. Questa trasformazione l’ho anche un po’ vissuta nel mio lavoro e nella mia attività di creazione in teatro di un movimento per le donne e per la parità di genere. A un certo punto, l’interesse per il femminismo è andato scemando, addirittura anche la parola “femminismo” è stata un po’ messa all’indice. Nonostante stessero nascendo e si diffondessero le commissioni per le pari opportunità, i centri antiviolenza, che sono stati dei catalizzatori dell’attivismo delle donne, c’è stata una involuzione culturale, dovuta all’espandersi di una cultura effimera superficiale, promossa dai media come la televisione e anche, se vogliamo, i social network. Chiaro che la politica c’entra molto in questo discorso: ti dico solo che nel 2006 ho tenuto un convegno a Pordenone sulle donne e teatro, su La rappresentanza e la rappresentazione, c’era il governo Prodi. Fu bellissimo, venne anche Judith Malina del Living Theatre, fu il primo passo per la nascita della rete che tuttora è attiva in Italia. Nacquero molte speranze, iniziammo a fare convegni in giro. Dopodiché tutto è morto, in concomitanza con il cambio di governo e il berlusconismo. C’è stata secondo me questo tipo di influenza, quella che io chiamo la cultura dell’effimero, che ha fatto scemare l’urgenza delle donne di tutelare ciò che avevano già conquistato.
A seguito dei movimenti #metoo anche in Italia si sono mosse le acque sulle questioni di violenza esercitate nel mondo dello spettacolo. È nata Amleta per contrastare le disparità e violenze di genere, le cui denunce su Facebook hanno fatto emergere un panorama vergognoso e avvilente. Cosa si può fare ancora secondo te per impedire a episodi di questa gravità di ripetersi?
Chiaro, il movimento #metoo ha rilanciato il movimento delle donne e dei loro diritti. In effetti la cultura del rispetto delle donne fa fatica ad affermarsi. Quello che secondo me le donne potrebbero fare sarebbe attivarsi maggiormente, soprattutto sui media, attraverso la rappresentazione stessa delle donne. Le donne non fanno abbastanza. Si accetta troppo tranquillamente che per esempio in televisione siano tutte con il “tacco 12”: perché? Perché bisogna essere sex symbol? Le donne stesse purtroppo si adattano a questo. Una volta durante un incontro è successa una cosa che mi ha fatto ridere: una ragazza femminista, sempre nell’ambito del teatro, affermava quanto fossero importanti tutte queste cose che stiamo dicendo, ho guardato poi com’era vestita, era novembre: praticamente in mutande. Una si può vestire come vuole, sia chiaro, ma spesso non riflettiamo su come il nostro abbigliamento (quello a cui siamo condizionate dalla moda e dalla pubblicità) abbia la sola funzione di attrarre sessualmente gli uomini secondo il loro desiderio di cui abbiamo introiettato lo sguardo. Ma bisogna cominciare a cambiare. Volevo raccontarti un episodio, una manifestazione a cura di Marisa Ulcigrai di Fotografaredonna che è stata fatta a Trieste un po’ di anni fa, FemminileReale, e che io ho subito ripreso a Pordenone, organizzando una mostra su questo. Nel mese di marzo, in collaborazione con l’azienda dei trasporti di Trieste, furono affisse sui mezzi di trasposto pubblico grandi immagini di donne del quotidiano. Donne anche belle, se è per quello, ma nella loro normalità, non sex symbol. L’effetto in termini di comunicazione è stato fortissimo, perché non siamo più abituati a questo tipo di immagini. Siamo abituati ai filtri bellezza, alle immagini patinate, smussate, spesso ammiccanti. Gli uomini non accettano di vedere le donne per quello che sono. Servirebbero più iniziative di questo genere. C’è molto da fare sui media per cambiare l’immaginario femminile preteso dagli uomini, secondo cui le donne sarebbero adatte solo a espletare “quella” funzione.
Per quale motivo, secondo la tua opinione, il mondo maschile è così restio ad accogliere il femminile e ciò che di inconsueto e raro può portare non solo in ambito creativo, ma politico e sociale?
Secondo me gli uomini sono ancora dentro il pensiero dell’assoluto e dell’Uno. Non hanno ancora compreso la differenza, o meglio, che la differenza è un limite. A partire da quella sessuale. Anche se sullo stesso piano, gli uomini e le donne sono differenti. Ciò significa che uno non può appropriarsi dell’altro o rappresentare l’altro. Sono come una pera e una mela: entrambi frutti, ma sono differenti. Il desiderio dell’altro o dell’altra può essere un limite al proprio e la convivenza felice tra i due dipende dall’accettazione e il rispetto di questo limite. Gli uomini non sono abituati a questo, perché si sentono il soggetto unico. Una rivoluzione culturale degli uomini comporterebbe pensare di perdere la propria identità così come gli era stata trasmessa. Gli sembrerà di perdere qualcosa, perché sin da bambini viene fatto percepire l’essere maschio come un valore aggiunto, un “di più”. E questo è quindi un problema per gli uomini: una donna si può vestire da uomo ed essere comunque riconosciuta come donna, può mettere una cravatta e nessuno si permetterebbe di dire in modo spregiativo che quella donna è un uomo, ma un uomo può sentirsi libero di mettere, nella nostra società, una gonna rosa? Se la mette, perde la sua identità di uomo.
Non possono mai mostrarsi come donna, perché gli è stato fatto intendere che essere donne è un minus. È un problema di identità costruita dal patriarcato, che per loro è difficile perdere, perché fin da bambini gli hanno insegnato che è meglio essere uomini che donne. Cosa vuol dire in campo politico? Per il politico accettare l’affermazione delle donne significa perdere potere e quelle poche che salgono al potere vengono spesso prese di mira. Se le donne fossero in massa in politica sono certa che i Comuni farebbero vertere i loro programmi su contenuti diversi. Forse avremmo meno campi di calcio e più asili nido o servizi per la maternità. E poi mi domando: il genere femminile, che capisce che cosa vuol dire avere la vita dentro il proprio corpo, la concepirebbe la guerra? Di donne guerrafondaie ce ne sono, per carità, ma sarebbe da provare: se le donne fossero veramente al potere (cosa che ancora dal matriarcato in poi non è più successo) forse il mondo sarebbe più pacifico? Le donne in generale sono più legate alla conservazione della specie.
Ti faccio una domanda che può apparire provocatoria, ma non lo è: c’è qualcosa in cui i movimenti femministi e di difesa della donna hanno, non dico sbagliato, ma omesso o trascurato nella comunicazione con l’universo maschile più conservatore e legato al patriarcato? Il dialogo e la comprensione sarebbero potuti avvenire in forme diverse da quelle utilizzate?
Non credo. Anzi, credo le donne siano state fin troppo gentili e poco aggressive; hanno inventato le femministe la lotta non violenta, si legavano ai cancelli ai primi del Novecento per chiedere il diritto di voto. Credo però che le donne dovrebbero osare di più, essere forti e non avere la minima condiscendenza verso il maschilismo, perché altrimenti gli uomini se ne approfittano. Le donne mantengono sempre un po’ quest’atteggiamento. Anche la femminista più cruda, per esempio, si depilerebbe sempre le gambe, perché alle radici c’è sempre una cultura patriarcale verso la quale si è condiscendenti, “io mi adatto al tuo sguardo, che vuole che io sia attraente, con la pelle liscia, ecc. ecc.”. È una cosa tutta culturale, non naturale. Secondo me dovremmo osare di più, mettere più forza nella nostra lotta. Come formano gli uomini la loro identità, fra di loro? Lottando, competendo, spesso anche i bambini hanno bisogno di lottare fra loro, far a botte per mostrare quella forza che afferma la loro identità. E quindi anche le donne avrebbero bisogno, per farsi rispettare di mostrare la loro forza e determinazione.
Parlando de del festival da te diretto Scena delle donne, avete riscontrato negli anni un crescere di pubblico maschile? Gli uomini si sentono toccati dai temi e dagli spettacoli che proponete o il pubblico è prettamente femminile?
Devo dire che sono aumentati numericamente ed è aumentata la sensibilità verso i temi femminili. Qualcosa insomma si è mosso in questi ultimi anni. Non so quanto il mio festival abbia contribuito, perché nel frattempo anche altre cose sono successe. Stanno cambiando anche le nuove generazioni, e in questo cambiamento io confido. Devo dire che tuttavia persistono tra i giovani maschi alcuni stereotipi. Dico questo perché io lavoro molto nelle scuole, anche elementari, e se c’è una cosa che è retro-tendente, che non contribuisce a far cambiare le cose, è il linguaggio. Si dice sempre “i bambini” e mai “le bambine”: questo fa capire alle bambine che il loro genere è meno importante; non sono mai protagoniste nel linguaggio. Sarebbe importante incominciare a fare questa fatica di declinare le parole sia al maschile sia al femminile (per esempio, “i bambini e le bambine”), di modo che le bambine si sentano protagoniste anche loro. Comunque tornando alla domanda che mi hai fatto, il pubblico rimane prevalentemente femminile, spesso è anche un pubblico femminile già particolarmente sensibile a questi temi, mentre quello che vorremmo è rivolgerci a tutto il pubblico, stimolare una programmazione maggiore di proposte femminili nei festival (per questo facciamo anche concorsi come La giovane scena delle donne all’interno del festival), nelle rassegne e nei circuiti affinché sempre più drammaturghe e registe possano accedere ai cartelloni dei teatri (cosa che non succede). I cartelloni infatti vedono il 30% di drammaturghe e il 20% di registe, questo almeno secondo la ricerca da me condotta qualche anno fa e da quella realizzata da Amleta recentemente. La partecipazione maschile del pubblico però, anche se è un po’ aumentata, resta un problema. Giovani attori che io interrogo ogni tanto, anche quelli che lavorano con me, a cui chiedo se andrebbero a vedere lo spettacolo che tratta della violenza sulle donne mi rispondono “no, perché riguarda le donne”. È terribile questa cosa, è come se non fosse chiaro che il soggetto protagonista della violenza non sia la donna, ma l’uomo che la agisce.