Su Farfalle di Emanuele Aldrovandi si è scritto e detto molto. Difficile dunque aggiungere o togliere qualcosa dai piatti della bilancia decisamente e giustamente pendenti verso il favore e il plauso. Forse però lo scopo di un breve scritto su un’opera teatrale non dovrebbe posizionarsi tra l’addizione e la sottrazione quando nella moltiplicazione data dal riverbero del moto di un’onda su un’onda.
Il battito d’ali di questa Farfalle evocate da Emanuele Aldrovandi (e interpretate magistralmente da Bruna Rossi e Giorgia Senesi) genera un vortice di pensieri il cui occhio del ciclone è situato nel testo.
Questao è la prima riflessione: il processo. Emanuele Aldrovandi scrive Farfalle sette anni prima di metterlo in scena. Il testo ha dunque una vita sua propria passante per premi, traduzioni, pubblicazioni per tornare come un estraneo nelle mani del suo creatore. Da questo momento inizia una vita scenica (per altro movimentata dall’epidemia Covid e dalle sue interazioni con l’apertura, chiusura, limitazioni dei teatri). Qui il drammaturgo si approccia alla regia del suo testo come fosse d’altri. Ne immagina una realizzazione provando a portare alla luce quelle due sorelle che avevano bussato alle porte della sua immaginazione sette anni prima.
Cosa ne è derivato? Una regia costituita di piccole azioni, giocata su uno spazio delimitato da una scenografia semplice e discreta nonostante il colore rosso acceso. Moduli che diventano scrivanie, chioschetti, bare, etc. Pochi oggetti ma significativi: primo fra tutti la collana con la farfalla, motore del gioco di questa crudele tragicommedia. I gesti sono essenziali. Le attrici si muovono come danzatrici eliminando tutto il superfluo, esaltando ogni movimento nel suo essere significante (non a caso la cura è stata affidata a Olimpia Fortuni, coreografa e danzatrice). Questo aspetto dice molto al teatro italiano: afferma con potenza che le interazione e la collaborazione tra Tersicore, Talia e Melpomene dovrebbe essere sondata e sperimentata con molta più frequenza di quanto non accada abitualmente.
La regia nel suo essere essenziale, senza sbavature, a volte persino apparentemente timida, viene a esaltare le parole e la vicenda narrata: un gioco d’amore crudele la cui posta s’alza ogni istante di più, fino a raggiungere l’insostenibile. Una essenziale disumanità e spietatezza dell’amore, così spesso accompagnato da storielle consolatorie, laddove per la maggior parte si manifesta in possesso, tortura vicendevole, pentimenti e rimpianti. Sempre tra l’eccesso e il difetto, quasi mai in giusta misura, l’amore di queste due sorelle, rappresenta l’amore che spesso ci unisce agli altri: non dedizione, non donarsi, ma pretendere per avere, ottenere per bilanciare ciò che si è perso altrove. Questo è raccontato con levità, toccando corde comiche ben intessute al dolore e alla sofferenza. Il riso, quando c’è, è amaro, come di fronte allo humor nero. Si ride raggelando.
Così tra drammaturgo e regista, grazie al tempo intercorso, avviene un sano distacco e i due (benché siano la stessa persona), guardandosi allo specchio, non hanno forse nulla da rimproverarsi. Non sempre questo avviene. A volte i peggiori registi dei propri testi sono gli stessi drammaturghi, incapaci di staccarsi dalle parole, asservendosi ad esse, vincolandosi al loro potere. Emanuele Aldrovandi scampa da questa sciagura e riesce a trovare una giusta lontana imperturbabilità, facendo rinascere le sue parole scritte. Certo grande merito va alle due superbe attrici, capaci non di incarnare o interpretare, ma far sorgere dalle assi del palcoscenico ciò che era solo stampa su carta.
E quindi giungiamo all’ultima riflessione: in teatro non esistono dogmi, scuole, sette, esistono le opere con le loro necessità. Il talento sta nel cogliere il bisogno che queste esprimono e sapergli dare voce e corpo. Il come talvolta non importa. Conta appunto solo la necessità. Non a caso, per i Greci, Ananke era la dea più potente, a cui Zeus stesso doveva chinare la testa. Ciò che essa tesse non può essere disfatto. Ribellarsi porta solo rovina e frustrazione. Eppure non c’è cosa più difficile che il comprendere il suo disegno e dargli voce. A teatro come nella vita.
Visto a Reggio Emilia il 21 aprile 2022 al Teatro Cavallerizza
testo e regia Emanuele Aldrovandi
con Bruna Rossi e Giorgia Senesi
scene e grafiche CMP design
costumi Costanza Maramotti
luci Vincent Longuemare
suoni Riccardo Caspani
musiche Riccardo Tesorini
movimenti Olimpia Fortuni
design farfalla Laura Cadelo Bertrand
aiuto regia Valeria Fornoni
assistente alla regia Chiara Muraro
produzione Associazione Teatrale Autori Vivi, Teatro Elfo Puccini, ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione
in collaborazione con L’arboreto Teatro Dimora | La Corte Ospitale ::: Centro di Residenza Emilia-Romagna
in collaborazione con Big Nose Production
con il sostegno di Centro di Residenza della Toscana (CapoTrave/Kilowatt e Armunia)
con il sostengo di Fondazione I Teatri Reggio Emilia
durata 75′
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