Archivio mensile:Settembre 2024

Carcaça di Marco da Silva Ferreira

Nuovo appuntamento di Torinodanza con un doppio spettacolo, Carcaça di Marco da Silva Ferreira e Il combattimento di Tancredi e Clorinda per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz.

Carcaça è una messa in questione della comunità e della memoria collettiva che le appartiene attraverso la danza. Presente e passato si confrontano attraverso gli stili del ballo popolare (clubbing, house, street, breakdance, fandango, marce militari, techno, vaguing e trance) perché i corpi dei danzatori rendono manifesta la storia condivisa con la comunità degli spettatori. Riconoscere è appartenere, è condividere. E questo non avviene attraverso il linguaggio della cultura alta ma soprattutto grazie al pop, diffuso, pervasivo, persino rifiutato, ma comunque vissuto.

Pensiamo a quante canzonette estive dagli altoparlanti delle radio di un bar, o in macchina mentre si guida, ci restano nelle orecchie e colorano attimi della nostra vita, anche contro la nostra volontà. Marco da Silva Ferreira riproduce questo processo di acquisizione comune di linguaggi e stilemi attraverso la danza dei corpi. Questo rammemorare non è colorato di nostalgia, non è uno sguardo velato e sognante verso tempi lontani, ma è una domanda attiva e pressante rivolta al nostro presente. Cosa ricordiamo? E cosa significa ricordare?

Le marce militari così come la canzone rivoluzionaria delle lavoratrici (Cantiga sem maneiras – 1974) di Josè Mario Branco, il cantautore che sempre si oppose al regime fascista di Salazar, sopportò l’esilio in terra straniera e tornò in patria solo dopo la Rivoluzione dei garofani, porta in superficie il non lontano passato portoghese. Cosa di quelle lotte è rimasto? Quello spirito è ancora presente, o si è irrimediabilmente sopito? E questa domanda non è rivolta ovviamente solo ai portoghesi, perché a ciascun popolo, soprattutto oggi, quando in ogni stato d’Europa soffia un vento nero colmo di sussurri di un passato sconfitto con tante sofferenze, deve necessariamente chiedersi: sappiamo ancora ricordare da dove veniamo?

Ed è altrettanto ovvio che questa domanda non parta dalla testa o dalle parti superiori del corpo, ma scaturisca dai piedi di questi danzatori. L’accento di questa coreografia vitale e coinvolgente è sui passi e sul ritmo di questo marciare, comminare, correre. Da dove veniamo e verso dove siamo diretti? E non pensiamo neanche per un momento che con questo domandare ci si rivolga verso questioni filosofiche dei massimi sistemi, il quesito è concreto e terra-terra: dove stiamo andando ora in questo nostro presente? La memoria riguarda anche l’identità. Jason Bourne si risveglia senza un passato, non sa più chi è, non sa perché combatte e perché scappa. Trattiene solo abilità tecniche che nulla gli dicono su cosa fare nell’immediato futuro né perché sia quello che è. Senza passato saremmo simili al protagonista di Memento di Christopher Nolan, il cui agire perde significato ogni volta che la sua memoria non trattiene i ricordi. E come lui diventiamo manipolabili, inconsapevoli.

Una marcia militare porta i danzatori sulla scena e la sonata di Scarlatti (credo l’Allegro della Sonata K.01 in re minore, ma la memoria può ingannarmi) chiude questo percorso che tocca vari momenti: la danza del nostro presente (trance e clubbing), il vaguing degli anni ’80 e ’90, il ballo popolare dalle radici ataviche, la danza di strada delle comunità nere e sudamericane, la canzone rivoluzionaria di chi ha lottato per la libertà. Significativo il momento in cui le magliette rosse dei danzatori, sollevate in alto dalle braccia diventano una bocca che canta le parole di Branco. Il movimento stesso si fa verbo e ci ricorda il passato. È altrettanto significativo che quelle parole così urticanti contro la borghesia siano rivolte a un pubblico per lo più di estrazione borghese che alla fine applaude entusiasta. Quelle parole non sono più una sfida, sono diventate inoffensive. Carmelo Bene diceva che l’arte è tutta borghese, e probabilmente aveva ragione. L’arte ha forse perso la capacità di scuotere le coscienze anche quando ne ha tutta l’intenzione.

Anche Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi, per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz, riconnette il passato al presente in un ciclo interminabile di ripetizione dello stesso destino. Allestito per il quattrocentesimo anniversario della composizione dell’opera del “divino Claudio”, e a Torinodanza in anteprima prima del debutto ufficiale al Teatro Farnese di Parma nell’ambito del Festival Verdi il prossimo 18 Ottobre, Cherstich e Kratz ci presentano una versione in cui due soldati, un uomo e una donna, sono legati da una nastro nero e sono costretti e combattere in un cerchio, simbolo dell’eterno ritorno dell’eguale.

La storia d’amore e morte tra la principessa etiope e il cavaliere cristiano perde i suoi connotati di travestimento dei ruoli sessuali che portano i due protagonisti a non riconoscersi. L’attrazione dei due amanti si trasforma in un involontario quanto inevitabile ferirsi a vicenda. L’ora fatale è giunta, come recita il testo del Tasso, o forse è costantemente presente, e così si ripete all’infinito la sconfitta di entrambi i contendenti. Se Clorinda muore, Tancredi è infatti mortalmente ferito nell’animo. Nessuno sfugge a questo inevitabile destino perché si è avvinti da questo nero cordame che ci spinge gli uni contro gli altri o, forse, come sostiene Philippe Kratz contro noi stessi. Tancredi e Clorinda sono due anime che si combattono, la loro lotta avviene dentro noi stessi. Per questo anziché impiegare un soprano e due tenori come da partitura, l’intero madrigale viene eseguito dal tenore Matteo Straffi, come se le diverse voci del narratore e dei due amanti combattenti siano un unico vociare dentro l’animo di ciascuno di noi.

Questa interpretazione tutta introspettiva della vicenda di Tancredi e Clorinda risulta però forzata, come se non fosse la loro storia. È Rinaldo che combatte con la propria immagine riflessa nello scudo, che viene ammaliato dallo specchio di Armida e dall’immagine che si riflette nei suoi occhi. Tancredi e Clorinda sono costretti al proprio destino dalle armature che impediscono di riconoscersi. I due soldati che si incontrano nel bianco cerchio sono chiaramente un uomo e una donna, non perdono i loro connotati sessuali. Per quanto mascherati non possono non riconoscersi. Combattono uno contro l’altro nelle loro identità. La maschera non li nasconde all’altro e al pubblico. Il combattimento, la lotta non sono inevitabili, si può fuggire dal cerchio. Quella corda che li unisce e li trattiene imbarazza anche il libero svolgimento della danza. É un impedimento ai danzatori che risultano a volte leggermente impacciati nel gestire l’attrezzo. Forse si dovrebbe dare lasciare libera la poesia del Tasso, lasciare da parte qualsiasi interpretazione e lasciare che quel combattimento avvenga, che i corpi ingannati dal travestimento si scontrino e al fine si rivelino pur con tutto il dolore che questo comporta. Lasciare che ogni volta la storia accada e non sia costretta a ripetersi. In fondo è il destino del teatro ogni sera trovare la forza di essere diverso pur nella ripetizione.

Freedom Sonata di Emanuel Gat

Freedom Sonata di Emanuel Gat apre una nuova edizione di Torinodanza, sempre sotto la direzione di Anna Cremonini, stabilmente al timone dal 2018. Quello di Gat, acclamato coreografo di fama internazionale, è un ritorno sotto la Mole dopo aver presentato nel 2022 LoveTrain2020, opera creata durante la pandemia.

Con Freedom Sonata il coreografo israeliano che, prima di darsi alla danza, si è formato alla Rubin Academy of Music di Tel Aviv, si confronta con il tema della sonata classica, mettendo a confronto l’album The Life of Pablo di Kanye West del 2016 con il secondo movimento della Sonata per pianoforte n. 32 in Do minore, op. 111 di Beethoven nell’esecuzione di Mitsuko Uchida.

Questa scelta musicale suscitano in chi scrive riflessioni che ineriscono più al ruolo e alla funzione dell’opera d’arte che alla danza in particolare. Freedom Sonata è una coreografia così ben eseguita e a tratti così intensa che on ha bisogno quasi di lodi o descrizioni anche perché non è narrativa, non racconta una storia e quello che accade in scena riguarda più i rapporti tra gli esseri umani in generale, al loro interagire, che al modo in cui si danza, attraverso quali stili o alla qualità del movimento.

L’accostamento musicale invece pare al primo impatto incongruo. Cosa hanno a che fare un rapper e Beethoven? E cosa unisce la forma sonata con l’hip-hop di Kanye West? Il legame non si nasconde nella forma, benché Gat divida idealmente il suo lavoro coreografico in tre parti. L’op. 111 è l’ultima delle sonate per pianoforte di Beethoven ed è costituita di soli due movimenti, il Maestoso e l’Arietta, che ispirò pagine intense a Thomas Mann nel Doktor Faustus. È proprio in questo secondo movimento che il grande compositore austriaco opera il dissolvimento della forma sonata classica. Non si assiste più alla contrapposizione dei temi e al loro sviluppo che li ripresenta trasformati a chiudere un percorso narrativo unitario. Beethoven trasfigura la sonata incorporando forme compositive altre, come la variazione o il contrappunto severo, ma anche la melodia popolare e il lieder, fecondandoli a vicenda. Il grande Ludovico Van, per dirla con le parole di Alex di Arancia Meccanica, si libera della sonata, ibridandola, facendo fiorire temi su temi, e unendo in nozze alchemiche il sublime con l’umile. E in questa esplosione di momenti musicali costruisce nondimeno un organismo equilibrato e dolcissimo, lontano dalle maestosità eroiche della Quinta e della Nona Sinfonia. È come se si fosse divertito a giocare con la materia musicale, facendo della sonata un qualcos’altro, non definito, al contempo esplosivo e rasserenante. E questo gioco porta lontano, tanto che Mitsuko Uchida, non teme di eseguire l’Arietta colorandola di ritmi rag-time, senza per questo dissacrare l’opera del maestro, tanto da sembrare che l’avesse scritta proprio con quest’intenzione.

Anche Kanye West sconfina dall’hip-pop prendendo a prestito dal Krautrock al trip-hop, dalll’R&b degli anni Settanta al pop melodico, così come dalla musica classica o dallo sperimentalismo elettronico. Ma se Beethoven espande gli strumenti a disposizione della forma sonata, dissolvendola per espanderne i confini e superare la crisi di valori cui era giunta, quella di West sembra solo un’appropriazione strumentale, un fagocitare disordinato che non giunge ad alcuna sintesi propositiva.

La chiave per comprendere l’operazione coreografica di Emanuel Gat sembrerebbe nascosta proprio nel rapporto che si instaura tra la musica di Beethoven e di Kanye West, non solo a livello formale, ma persino politico. Ciò che vediamo sulla scena dovrebbe apparire come l’espressione fisica e danzata di questa libertà raggiunta dai corpi di prendere in prestito linguaggi e frasi dagli ambiti più disparati e farli fiorire insieme come in un’esotica serra in cui crescono rigogliose piante provenienti dai più lontani continenti.

L’accostamento di stili dissonanti e dissimili dovrebbe raccontare la complessità dei rapporti tra il singolo e il gruppo. Un esempio il posizionamento, tra un segmento danzato e l’altro, di rotoli di tappeto-danza che dovrebbe, e usiamo ancora il condizionale, mostrare il dispiegarsi delle dinamiche attraverso cui dall’ordine di un singolo, che distribuisce i compiti, si sviluppi in una collaborazione dell’insieme dei danzatori. Si opera una dissoluzione della leadership. Anche nella danza ritorna costante la proposta gestuale di un singolo danzatore che viene presto riassorbito dal gruppo subito pronto a variare e riformulare il gesto offerto. Scrive Emanuel Gat nel programma di sala: «la creazione di una coreografia può essere uno spazio per capire come risolvere la tensione interna fra l’individuale e il collettivo, quale tipo di autorità può servire come forza motrice e quale come forza distruttrice». È in questo modo che un’opera che non possiede una narrazione o un tema scottante in evidenza, dovrebbe sostanziarsi come “politica”. È attraverso la dinamica dei rapporti tra i danzatori, e di questi con gli altri elementi della scena che si propone un diverso modo di essere, offrendo un’alternativa all’esistente.

E siamo quindi giunti al nodo cruciale e al motivo di tutti questi condizionali. West e la sua musica sono, negli ultimi anni, diventati l’espressione del pensiero dell’estrema destra americana, e non solo per l’appoggio a Trump. West si è profuso in dichiarazioni negazioniste non solo dell’olocausto, ma addirittura dello schiavitù dei neri americani. Le sue esternazioni sessiste, misogine e razziste non si contano, tra cui l’appoggio a Bill Crosby dopo la condanna per stupro. La critica americana si rifiuta persino di recensire i suoi dischi.

Usare un tale materiale musicale, così divisivo, e in alcun modo accostabile a quello di Beethoven se non negli elementi sopracitati, in un’opera coreutica la cui intenzione è; «diventare una forza rilevante nell’individuare anomalie sociali e proporre alternative» ne inficia inevitabilmente l’esito. Emanuel Gat ha più volte dichiarato che West è il più significativo musicista degli ultimi anni, ma come si può scindere oggi la musica e il messaggio che vuole veicolare? Si può ancora sostenere che l’artista e la sua opera siano mondi separati? Se l’arte non si distingue per la sua etica da ciò che rende il nostro mondo un luogo terribile in cui vivere, ha ancora senso? La bellezza veramente monda ogni nefandezza?

Con questo non si vuole accomunare Gat con le posizioni di West, ma semplicemente mettere in questione l’utilizzo dei materialie la loro funzione all’interno di un’opera di così grande levatura tecnica ed espressiva. Forse la libertà di questa sonata danzata arriva fino a comprendere e inglobare in sé le forme più deteriori rivalutandole? Forse la libertà è vera quando accetta anche le manifestazioni più urticanti? Emanuel Gat di certo ci ha donato con Freedom Sonata, molte questioni su cui riflettere.

Infine, il confronto tra Beethoven e West appare sproporzionato, dove al secondo movimento della 111 si accostano tutte le quindici tracce dell’album del rapper americano, il cui messaggio cristiano integralista è estraneo all’opera del maestro viennese. Il tessuto sonoro e il suo significato espressivo diventano compagni ingombranti rispetto a una danza dalla qualità sopraffina. Era proprio necessario l’utilizzo di tutte le tracce, sbilanciando il confronto, così tanto a favore di West (crica 18′ l’esecuzione dell’arietta contro più di un’ora per The life of Pablo)?

Freedom Sonata inizia con i danzatori completamente vestiti di bianco che danzano su un tappeto nero. Alla fine i colori sono invertiti. Bianco e nero si scambiano i ruoli e così, forse, tutto tramontando nel proprio opposto si trasforma e assume altri significati imprevisti. Resta però la sensazione che la libertà di cui si parla si sia colorata di venature oscure e inquiete.