Non basta sopravvivere. Riflessioni sugli esiti del FNSV

|ENRICO PASTORE

:«Non hai forse buttato via la parte migliore di te stesso per sopravvivere?». Questa è la domanda che la zingara a pone ad Abhor, la protagonista di Impero dei non sensi di Kathy Acker. Come un antico oracolo la zingara ha capito che bisogna far emergere la vera questione sottesa al quesito.

Oggi le arti performative sono in fibrillazione dopo la rivelazione dei risultati del FNSV ministeriale nei vari ambiti (Danza, Teatro, Festival Multidisciplinari). Lo sdegno è comprensibile, la preoccupazione legittima, perché un intero sistema rischia di collassare. E non tanto nelle produzioni degli Stabili e dei Tric, ma nel sottobosco underground che in gran parte è prodotto e distribuito nella rete dei festival, categoria tra le più colpite da declassamenti, cancellazioni, riduzione dei contributi.

Come è uso nel nostro scalcagnato paese, si ricorre alla parola emergenza, alle riunioni fiume, alla formazione di gruppi su Facebook, alle risposte emotive su articoli e post. Questo però è il momento di porsi la domanda che ho messo in testa a queste brevi e personalissime riflessioni: non abbiamo buttato via la parte migliore di noi stessi per sopravvivere? Perché non abbiamo preteso con forza e intransigenza nei decenni precedenti, o durante l’emergenza Covid, di essere legittimati in quanto parte sociale capace di svolgere un’attività fondamentale nel contesto di una moderna società civile? Perché ci siamo accontentati delle poche briciole che cadevano dal tavolo? Perché abbiamo accettato gli algoritmi, che non sono entrati in vigore ieri, che quantificavano il nostro operato? E perché soprattutto non abbiamo pensato a vie alternative allo Stato, visto che questi, da tempo, aveva deciso di accogliere l’istanza di Carmelo Bene di disinteressarsi di noi?

Non avendo posto queste domande prima, o non avendole espresse con la dovuta convinzione, ecco che siamo all’oggi. E quindi che fare? A partire da questa domanda nasce un certo sconcerto in chi scrive perché sembra che le arti performative non abbiano messo in campo la propria creatività per inventare forme di protesta fantasiose, efficaci, sperimentali, ma abbiano invece voluto aprire i bauli nella soffitta della nonna per riesumare lessico e gestualità dell’azione politica degli anni Settanta del secolo scorso. Veramente si vuole apparire necessari attraverso modalità vetuste e già inefficaci al loro apparire?

Altra questione: il FUS ora FNSV era ed è iniquo, non va difeso. Va riformato dal primo all’ultimo rigo. Va stralciato e riscritto. Non si può chiedere di tornare allo status quo, perché quello che è stato, le regole di committenza imposte fino a oggi, non erano giuste, solidali e rispettose dell’arte della scena. Per chi come me ha attraversato gli ultimi trent’anni della vita teatrale e culturale di questo paese si ricorderà dei Teatri Invisibili, dei Comintati Emergenza Cultura e via via fino ai gruppi social nati durante i Lockdown, e sa che tutto questo non ha portato a cambiamenti di orizzonti, ma ha prodotto solo cure palliative iniettando nel corpo moribondo quelle medicine che servivano a tenere in vita il malato. Non si è pensato alla guarigione, ma a sopravvivere.

Se si vuole cambiare veramente bisogna avere il coraggio di cambiare non solo il punto di vista, ma di mettere a soqquadro l’intero orizzonte.

Altro punto: la protesta contro i tagli deve coinvolgere il pubblico. Dobbiamo essere in grado di spiegare alla gente cos’è il FNSV, cosa sono i borderò a cui tutti sono schiavizzati, gli algoritmi, i contratti ridicoli, la precarietà, gli scambi iniqui, la distribuzione inefficace, l’incapacità cronica di collaborare con l’estero e di accedere ai fondi europei. Chi fa un abbonamento o paga il biglietto ne è all’oscuro e sono loro che condividono il teatro con noi. Coinvolgere e non escludere, perché l’emarginazione e la costruzione della torre d’avorio comincia dal linguaggio, oscuro per la più parte della società.

Ultimo punto che vale come conclusione di una breve e lacunosa riflessione: vi prego, smettete di insistere sull’utilità del teatro. Non non siamo utili, non siamo uno shampoo o un cacciavite. Noi siamo processo e non oggetto. Un processo non è utile, è necessario, perché attraverso il suo corpo avviene il cambiamento. La metamorfosi è trasformazione, è un’evoluzione dolorosa, cambia il modo di vedere il mondo, e questo avviene indipendentemente dalla volontà della larva di divenire farfalla. É perché deve essere. Non può altrimenti. Questo è ciò che propone l’arte, e va molto al di là del concetto di mera utilità

Oggi alle arti performative occorre coraggio e fermezza, non emotività e modalità di protesta veterotestamentarie. Occorre tutta la creatività possibile non per sopravvivere, ma per vivere insieme al nostro pubblico. Non resta che cambiare l’orizzonte.