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La gatta sul tetto che scotta di Leonardo Lidi

Confesso che aspettavo con una certa curiosità di vedere La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams per la regia di Leonardo Lidi al Teatro Carignano di Torino. Nel 2019 il regista piacentino, ormai torinese d’adozione, aveva diretto un altro testo di Williams Lo zoo di Vetro, una versione come immersa in una melassa rosea, con dei pierrot molto poco lunari e dal sapore di zucchero filato e di frittella da luna park. L’ambientazione di quel terribile dramma familiare in un’atmosfera Disney fintamente tranquillizzante l’avevo trovata interessante anche se non del tutto convincente. I clown possono essere molto più perturbanti. Pennywise di Stephen King o Il popolo dell’autunno di Ray Bradbury, per altro entrambi ambientati in un’America di provincia che ha tanto in comune con quella de La Gatta, suggerivano che si poteva osare di più. Quale occasione migliore quindi di considerare la crescita di un autore a distanza di tempo, se non quando questi si confronta con un autore che ha già diretto e di cui ha familiarità?

La gatta sul tetto che scotta del 1954 è un testo molto crudo, persino brutale nel colpire l’ipocrisia celata dietro la cortina fumogena dell’istituto di famiglia tradizionale. Difficile immaginarselo se si è visto solo il film del 1958 di Richard Brooke con Paul Newman nella parte dell’alcolizzato Brick e Liz Taylor a interpretare la gatta Margaret. Nella celebre pellicola tutto è più ovattato, per non dire censurato, e sigillato con un bel happy ending. Il film infatti è ancora sottoposto al codice Hays, a quelle linee guida morali nella produzione cinematografica che vigevano dal tempo di Shirlee Temple, dove l’alcol era permesso solo per caratterizzare il personaggio ma solo dove strettamente necessario per lo sviluppo drammaturgico, e gli accenni all’omosessualità erano proibiti. Inoltre si era nel crepuscolo del maccartismo. Anche Elia Kazan, primo regista teatrale dell’opera, ne aveva riscritto e attenuato delle parti. Nonostante tutto questo Tennessee Williams vinse il secondo premio Pulitzer.

Di cosa narra La gatta sul tetto che scotta? Tutto si svolge nella camera da letto di Brick e Margaret nel giorno del compleanno di Big Daddy, malato di cancro. I due sono marito e moglie, non hanno figli, e a letto ci vanno solo per dormire. Maggie è però innamorata di Brick, ma Brick è innamorato della bottiglia e del ricordo del defunto amico Skipper, da poco morto suicida. Il fratello di Bricks, Gooper, sposato con Mae, di figli ne ha ben cinque e, insieme alla moglie, vorrebbe mettere le mani sull’immensa proprietà terriera di Big Daddy, visto che il fratello è un alcolizzato irresponsabile e sua moglie non ha partorito eredi.

I rapporti famigliari sono tutti coperti dalla cappa plumbeo-dorata dell’ipocrisia. Maggie si affanna a dimostrare a se stessa e agli altri di avere un matrimonio felice e in questa vana lotta per mascherare la verità, diventa acida, invidiosa e sospettosa; tutti cercano di nascondere sotto una coltre di ottimistiche bugie la malattia mortale che affligge Big Daddy e lo porterà alla tomba; Brick continua a negare di aver avuto una passione omosessuale per il suo amico; tutti alludono a questa relazione ma mai apertamente. E così anche quando si scava dolorosamente alla ricerca della verità, non si riesce mai del tutto a districare i veli di menzogna che la ricoprono e quindi la tempesta non finisce mai, si autoalimenta.

Il finale infatti non produce catarsi ma una nuova bugia: Maggie, pur di non perdere l’eredità, annuncia una maternità inesistente e in questo Bricks la appoggia. L’ultima battuta è illuminante: «moriremo dal ridere», come in una comica di Buster Keaton dove il clown impassibile continua a prodursi in salti mortali senza mai rompersi l’osso del collo.

Come si può intuire La gatta è un testo ancor oggi scomodo laddove risuonano preoccupanti i richiami governativi al ritorno ai valori della famiglia tradizionale come fosse l’arca di tutte le virtù. Leonardo Lidi affronta il dramma percorrendo una via inversa rispetto a Lo zoo di vetro. Tutto si svolge in uno vasto spazio di un bianco abbacinante. Lastre di marmo appena venato si innalzano fino al soffitto. Sembra di essere in un cimitero con lapidi senza nome alle pareti o all’interno di un sepolcro imbiancato di evangelica memoria. Un solo oggetto è presente in scena: uno specchio che funge da quinta e da porta verso la coscienza dei personaggi.

Leonardo Lidi sceglie di far apparire in scena fin da subito due fantasmi: la bambina rappresentante dei “cinque mostri senza collo” ma anche simbolo di quella nuova vita che non appare nel grembo di Margaret; e lo spirito di Skipper che porta infinite bottiglie a Brick rendendo palese la motivazione della sua smodata dipendenza.

Il tono pop e scanzonato della recitazione, la fluidità e modernità della traduzione di Monica Capuani, fanno scivolare il dramma su un binario capace di equilibrare il tono da commedia con le laceranti battute da tragedia. Questa è la cifra stilistica riconosciuta di Leonardo Lidi.

Valentina Picello è una Margaret sublime, riesce a farci ridere e a dar corpo alle ansie di una donna che nel matrimonio senza speranza vede comunque l’ascesa sociale e la possibilità di riscatto. Per questo lotta con le unghie e con i denti per tenersi quello che ha conquistato, costi quel che costi. Nicola Pannelli è un ottimo Big Daddy, con quell’arroganza da “Cumenda” brianzolo che si è fatto da solo, padre padrone della famiglia, capace di umiliare la moglie adorante a ogni piè sospinto.

La recitazione è abbastanza convincente per quanto a volte le battute siano recitate con troppa irruenza, senza prendersi il tempo di far soppesare al pubblico le conseguenze di quanto appena detto o di quanto si sta per dire. Si insiste un po’ troppo sui toni urlati quando a volte sarebbe più significativo un sussurro, un bisbiglio tagliente, un silenzio imbarazzato, uno sguardo perforante o un gesto preciso del corpo. Tutto a volte è sommerso dal diluvio di parole e Tennessee Williams è come Čechov: predilige i toni tenui. Si perde nell’urlio costante come un pellegrino in una tempesta di sabbia.

Il progetto registico mi fa sorgere alcune perplessità. Cominciamo dalla più evidente. Il fantasma di Skipper non ha solo una funzione simbolica ma anche una pratica: spostare lo specchio. L’oggetto è il fulcro dell’azione: serve a far confrontare i personaggi con se stessi, diventa quinta attraverso cui i personaggi entrano in scena, a volte è paravento affinché questi cambino d’abito. Ora queste funzioni entrano spesso in collisione. Quando l’oggetto è fermo perché dietro di esso un personaggio si cambia (ad esempio Big Daddy) i personaggi entrano in scena senza l’artificio dello specchio, minando l’efficacia dello strumento che dovrebbe mantenere la funzione nel corso dello spettacolo. Un esempio: il reverendo. Quando viene definitivamente cacciato da casa da Big Daddy, lo specchio che dovrebbe nascondere la sua uscita è fermo in altra funzione, così l’attore si mette nell’angolo, come in castigo. La sua presenza in scena non ha alcuna utilità. Avrebbe potuto uscire subito invece si aspetta un buon cinque minuti. Forse allo specchio si chiede troppo, o forse ce ne sarebbero voluti due, resta che ‘uso intermittente lo depotenzia e ne fa perdere la sostanza.

Il fantasma di Skipper inoltre porge le bottiglie a Brick, lo fa ossessivamente rendendo palese il suo ruolo nella dipendenza alcolica dell’amico. Le bottiglie cominciano a ingombrare lo spazio come proiettili in un campo di battaglia. Con il procedere dello spettacolo questi oggetti diventano un numero considerevole e sarebbe interessante se la loro presenza, via via più ingombrante, rendesse difficile il movimento ai personaggi, sempre più compressi nell’angusto e labirintico svicolare nonostante l’apparente vastità della scena.

Ma questo non avviene, man mano che le bottiglie riempiono il palcoscenico gli attori le travolgono o ci inciampano facendo perdere all’oggetto la sua peculiarità di segno. Il cammino dei personaggi non è quindi ostacolato. Si cerca di evitarle queste bottiglie, ma quando non ci si riesce, o distrattamente le si urta: pazienza. Processo che raggiunge il suo culmine quando cadono palloncini dal cielo nascondendo le bottiglie che vengono travolte impietosamente per poi levarle di scena. Tutto questo depotenzia un segno che avrebbe potuto essere forte.

Infine Skipper si trasforma nel dottore che viene a portare il referto dall’ospedale, referto che condanna Big Daddy alla morte per cancro. Non ci sarebbe nulla di male quando un attore assume più parti, ma qui il dottore diventa l’ennesima incarnazione dell’uomo in completo con il passamontagna nero che è apparso la prima volta nella Casa di Bernalda Alba e poi ne Il Misantropo, e ogni tanto riappare nelle regie di Leonardo ma che nel presente contesto non ha nessuna ragione di esistere né soprattutto di ballare. È un di più non necessario, la presenza del dottore stesso poteva essere evitata con semplici escamotage.

Secondo l’opinione di chi scrive queste incongruenze nel progetto registico ne minano l’efficacia. Poco importa che il pubblico applauda entusiasta, vi sono delle carenze tecniche che non dovrebbero sussistere a questo livello. Non bastano i bravi attori a fare un grande spettacolo, per quanto ci sia chi lo sostiene. E non sono sufficienti nemmeno grandi o piccole idee. L’artificio della composizione teatrale è un fenomeno complesso e affinché si attivi, tutti gli elementi devono collaborare. Solo così nasce la vita sulla scena. È un’alchimia instabile, precaria, delicata. Trascurare degli aspetti significa impoverire la possibilità che un ottimo teatro possa prendere corpo.

Il frutto del fuoco: Giovanna D’Arco di Paolo Costantini e Federica Rosellini

|Enrico Pastore

Giovanna D’Arco, pulzella d’Orleans, santa vergine guerriera, è salita sul palcoscenico infinite volte da quel 30 maggio 1431 quando il fuoco del rogo ne uccise la carne ma perpetuò il mito. Lo ricorda anche il regista Paolo Costantini, autore di questa novella incarnazione di Giovanna attraverso l’opera meravigliosa dell’attrice Federica Rosellini. La storia ci ha dunque consegnato una legione di diverse versioni della giovane santa da chiedersi chi sia stata veramente e quale di queste si avvicini a colei che visse e patì la guerra e la (in)giustizia degli uomini.

In questa Giovanna D’Arco andata in scena al Teatro Astra di Torino, Paolo Costantini e Federica Rosellini provano a restituirne l’umanità nascosta dietro il belletto della leggenda. È impresa difficile se non impossibile perché la donna che vediamo agire e patire in scena, è già un frutto del fuoco, è immagine agente, corpo glorioso, non abituale o normale, assolutamente non naturale ma extra-ordinario. Questa Giovanna è infatti ennesima incarnazione e non può non aver inciso nelle sue carni i fantasmi delle sue innumerevoli apparizioni. Per usare le parole di Nezval è donna plurale e multipla. Giovanna ha recitato per Brecht, ha sfilato nei pageant suffragisti di Edith Craig, ha posato in armatura sexy e sguardo angelicato nelle fattezze di Cléo de Merode, ha subito il martirio cinematografico attraverso la carne di Renée Falconetti, è stata figlia delle visioni allucinatorie di Milla Jovovich. Tutti questi fantasmi, e mille altri ancora, sussurrano tra le quinte i loro suggerimenti al corpo dell’attrice, spingono oltre il buio della scena per irrompere davanti agli occhi dello spettatore e non deve essere facile ricacciarli indietro.

D’Annunzio ne Il fuoco scrive: «il carro di Tespi, come la barca di Acheronte, è così lieve da non poter sopportare se non il peso delle ombre o delle imagini». Il teatro e la morte vanno a braccetto. I vivi possono solo osservare lo spettacolo, non farne parte, per quanto si voglia oggi a tutti i costi farli partecipare alla danza. Come diceva Carmelo Bene, in scena bisogna morire molte volte.

La Giovanna che appare ai piedi di quel fascio di tavole e tronchi – albero delle fate dal cui fusto inizia la sua leggenda, ma già, in nuce, catasta per il rogo -, è pronta per queste molte morti, le anela quasi, vuole il fuoco che la trasformi, desidera l’incendio e perfino lo chiede alla fine: bruciatemi! Ah, se fosse uscita di scena dopo aver semplicemente esclamato: «ho caldo», sarebbe stata un’uscita degna di una santa capace di incidere segni tra le fiamme, invece è tornata in scena con un fucile e ha sparato due volte. Chissà perché.

Federica Rosellini è stata capace di dar vita a una Giovanna nuova, ardente, rabbiosa, disperata, fidente e sfidante, pur nutrendosi delle infinite variazioni di sé che la hanno preceduta. Taglia da sé l’albero delle fate da cui giunge al popolo; costruisce da sé la catasta di legna del suo proprio rogo. E nel farlo spacca la legna con un’accetta proferendo la sua invettiva e in questa furia in cui la parola prende corpo dall’azione emerge l’immagine di Artaud che come lei usava l’accetta per spaccare legna mentre proferiva parole di fuoco.

Federica Rosellini regala al pubblico una grande prova d’attrice e non serve scomodare la performance, che è altra arte con altri valori e intenti. Anche il performer parla per immagini attraverso il corpo, ma si rifiuta di evocare fantasmi, di agitare il mondo delle larve di fronte all’occhio dello spettatore. Evocare un mondo attraverso la maschera è arte dell’attore e sua soltanto. E Federica Rosellini lo sa fare molto bene.

Giovanna D’Arco torna sulla scena senza la pretesa di guidare le folle e gli eserciti, e vorrebbe tanto non essere una bolla di vetro incandescente nelle mani di un vetraio nascosto e udibile solo a tratti e con mille voci. Eppure, nonostante questo, nonostante vorrebbe essere altro, Giovanna rivendica la sua unicità e la sua missione. Che la brucino, o le taglino la testa, quei vecchi dalle lunghe barbe che si ergono davanti a lei come giudici, quegli ipocriti che agitano valori da essi stessi traditi. Giovanna li sfida, non li teme, non ha paura del fuoco perché lei stessa è frutto del fuoco. Giovanna non guida più gli eserciti oggi, può solo sfidare ancora e ancora ,con il corpo e con l’animo, il potere infido e ipocrita. Viene ancora una volta immolata. Non poteva essere altrimenti, niente è cambiato da allora se non la forma del potere, ma non la sua ipocrisia, la sua falsità, la sua abiezione. Il valore di Giovanna sta nell’essere sconfitta eppure nella morte risultare vincitrice. È nel suo divenire rogo che ci parla con forza. La sua sfida è il vero valore, la sua sfida rende ridicola la vittoria del potere. Giovanna, come Jan Palach, vivono nell’estremo sacrificio di sé, spingono altri a imitarli, a ribellarsi e fanno sì che la vittoria del potere non possa mai dirsi definitiva.

Teatro Astra, Torino | 7 maggio 2025

Too late: perturbazioni esistenziali secondo Jon Fosse

Too late. È la scritta che campeggia all’apertura del sipario nella penombra della scena. Non è tanto un ammonimento quanto una sentenza. O un epitaffio su una lapide. Non c’è scampo a qualcosa di filato e reciso dalle Moire. La sensazione che si prova di fronte a questa insegna luminosa pur accattivante nella sua ineludibilità è di perturbante spaesamento. È strano che all’inizio di uno spettacolo si dica apertamente che è ormai troppo tardi. Di solito si comincia lasciando ai personaggi tutte le strade aperte allo sviluppo, anche quando si è nel tragico laddove all’eroe non è dato scampo, oppure quando si tratta di una trappola per topi si lascia cullare l’illusione che qualcosa si possa pur fare. Qui no. È troppo tardi. Ed è strano.

La stranezza di cui si parla pertiene a quello che Mark Fisher definisce come weirdness, ossia quella qualità che identifica qualcosa che non dovrebbe essere come appare, qualcosa che è fuori posto o addirittura non dovrebbe esistere, qualcosa che: «segnala il nuovo, quello che non torna, quello che necessita di nuovi strumenti di interpretazione». Quest’ultimo aspetto è il più importante per ottenere una chiave di lettura per Too late di Jon Fosse, spettacolo andato in scena prima al Nazionale di Genova e in seguito al Teatro Astra di Torino, magistralmente diretto da Thea Dellavalle e ottimamente interpretato da Anna Bonaiuto, Irene Petris, Roberta Ricciardi, Emanuele Righi, Giuseppe Sartori.

Tre grezze mura. Un letto, una panca, qualche tela. È questa la scena su cui si svolge una vicenda il cui esito è già dato. Too late. Ma se il finale è già rivelato, se non c’è niente da svolgere, da dipanare o risolvere qual è il fine di quello a cui andiamo ad assistere? È una forma di teatro che mette in questione il nostro modo di vivere le relazioni, dove vengono poste delle domande scottanti nei cui riguardi non abbiamo strumenti validi per fornire delle risposte, perché non c’è soluzione allo stato attuale di sviluppo della nostra società, ma andrebbe cercata. Siamo di fronte dunque a una forma di teatro alla ricerca di nuovi strumenti di interpretazione del reale, che non ha risposte ma domande, che non ha ricette ma le cerca insieme al proprio pubblico.

Quello che avviene in scena è la messa in discussione delle scelte di Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen, colei che abbandona marito e figli per intraprendere una nuova vita non più scontata, né ingabbiata dalla convenzioni, né tanto meno obbediente ai dettami della società di fine Diciannovesimo secolo in cui la donna era o madre o prostituta. Ma è veramente così? O i riferimenti a Ibsen sono una trappola interpretativa? Perché tutto lascia pensare che la vicenda di Nora si ripeta ancora e ancora senza via di scampo.

La Nora matura (Anna Bonaiuto) sulla soglia della terza età guarda se stessa giovane (Irene Petris), vede se stessa amare il marito ed essere imprigionata dai suoi doveri di madre e di moglie, si vede essere gelosa di altre donne più giovani. Si vede il marito (Giuseppe Sartori), con la sua ombra (Emanuele Righi), cercare di chiudere gli occhi e dormire senza pensare al tempo che passa e alle difficoltà che insorgono. Si sentono di lontano i pianti dei bambini, quei palloni sgonfi e pesanti che capitano in scena.

La Nora di oggi osserva quella di ieri che non è quella di Ibsen anche se potrebbe esserlo e in effetti per qualche istante lo è apparendo in scena con il suo vestito ottocentesco rosso fiamma. Tutto sembra ripetersi come è già stato, eppure vi è il rimpianto, il dubbio che forse sarebbe potuto essere diverso.

Anche l’amante giovane del marito (Roberta Ricciardi) avrebbe potuto non essere. Se Nora non fosse stata gelosa, se non avesse posto ogni istante l’attenzione sulla gioventù delle altre donne, forse il marito non avrebbe volto gli occhi altrove? Se lo chiedeva anche la Foscarina, alter ego della Duse, nel Fuoco di D’Annunzio: sono stata io a spingere Stelio Effrena nella braccia di Donatella Arvale? Ma è una falsa prospettiva. La questione è più sottile, meno scontata.

La Nora odierna si domanda se la scelta di andarsene sia stata giusta. In fondo, si dice, i suoi quadri non sono granché, quasi nessuno li compra, i figli la ignorano, il marito è morto, Resta la solitudine. Nora però si riscuote e afferma con un certo orgoglio: io ho fatto la mia vita, non mi sono abbattuta, sono stata me stessa contro tutto e tutti. Anche questo risultato è una falsa prospettiva. La questione non è il successo o il fallimento di una vita.

Infatti è proprio qui, alla fine del percorso, quando quelle mura che fanno gabbia si aprono e scompaiono, ecco ancor più forte la weirdness di cui si parlava all’inizio, quel perturbamento che necessita di altri strumenti interpretativi per placare l’inquietudine che crea. Ciò che è fuori posto, ciò che è ma non dovrebbe essere come appare, sono le relazioni sentimentali e la loro mancanza di adattamento al mutare delle condizioni nel tempo. Come scrive Fisher: «gli esseri umani sono fin dall’inizio – da prima dell’inizio, prima della nascita dell’individuo – intrappolati in strutture mitiche. E va da sé che la famiglia stessa è un’altra di queste strutture mitiche». Too late.

Ciò che Ibsen metteva in questione nel 1879 era una società maschilista e capitalista che vedeva la donna sposata come ninnolo in una casa di bambola, malaticcia e totalmente dipendente dal marito. La Nora del 2025 nonostante i mutamenti si trova ancora immersa in quel tipo di società, ma è anche parte di un mondo in cui l’emancipazione solo sognata a fine Ottocento dovrebbe essere ormai acquisita e non lo è. L’istituto di famiglia e le modalità di negoziazione dei desideri in una coppia sono obsoleti e finché rimarranno tali sarà sempre troppo tardi qualsiasi sia la scelta effettuata. La norma e la consuetudine sono la trappole che uccidono qualsiasi desiderio. Rimanere? Andarsene? Il risultato non cambia. Se tutto rimane quello che è, se non ci dotiamo di nuovi strumenti di relazione e di comprensione del reale, per Nora e per tutti noi sarà sempre troppo tardi.

Teatro Astra – Torino | 25 marzo 2025