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In comune di Ambra Senatore, variazione e sorpresa

L’oggetto di riflessione nell’ultima coreografia di Ambra Senatore In Comune, in cartellone a Torinodanza Festival, è la dinamica attraverso cui si costituisce una piccola comunità. Dodici danzatori, tra cui la stessa Senatore, illuminano i piccoli gesti, variati e ripetuti, che costituiscono il nostro vivere in comune. Variazione e ripetizione sono le parole chiave che governano quest’opera.

I danzatori occupano la scena all’entrata del pubblico. Compiono piccolo gesti, come leggere un libro, e mostrano le conseguenze che tali atti singoli riverberano sugli altri. Chi sbircia, chi domanda quale libro si stia leggendo, chi disturba la lettura. È solo il preambolo dell’intricata tessitura da cui emergerà il disegno.

Ambra Senatore è un’artista cui piace l’ironia, la leggerezza e la meraviglia con un leggero tocco di disorientamento, anche di fronte a ciò che più ci spaventa. Il gesto di mangiare un biscotto da un barattolo di vetro, ripetuto più e più volte, si sviluppa in ramificazioni sempre sorprendenti: è offerto e rifiutato, sia da chi prende, sia da chi dona, genera affetto, amicizia, tenerezza, ricordo, ma anche conflitto. Persino una semplice camminata lungo lo spazio, nella ripetizione, coglie sempre lo sguardo impreparato. Succede come nella famosa performance di Nam June Paik con il violino. C’è Paik con in mano un violino davanti a un tavolo. Lo alza sopra la testa e con violenza lo scaglia verso il tavolo, fermandosi un attimo prima di distruggerlo. Questa azione si ripete un numero infinito di volte, tanto che alla fine ci si accoccola nell’iterazione senza aspettarsi più nulla, ed è allora che l’artista spacca il violino, quando l’azione ripetuta all’infinito rende l’esito atteso non più scontato. Lo sappiamo fin dall’inizio che quel violino finirà in pezzi, ma quando avviene ne siamo sorpresi. Sono la tensione e l’aspettativa che vengono dilatate, disattese e poi risolte con violenza. Ambra Senatore usa lo stesso procedimento, ma con maggior gentilezza e grazia.

I danzatori continuano a intrecciare gruppi di gesti tra loro, come dei tessitori di tappeti, par far emergere nuove configurazioni del gruppo. E questo lavorio da piccolo sciame di insetti operosi viene contrappuntato dal racconto della vita animale: di formiche appartenenti alla stessa specie che negli opposti versanti delle Alpi, sviluppano dinamiche differenti di interazione e comportamento, di orche e felini che torturano le proprie prede prima di cibarsene, di fiori e piante che usano colori sgargianti a volte per attirare, altre per respingere, dell’eucalipto che trae pagliuzze d’oro dalla terra attraverso la linfe e le cui foglie morte sono offerte al pubblico. L’infinita trama della natura risulta composta da ripetizione e variazione, e sempre il processo porta meraviglia e tenerezza anche nell’orrore.

Se c’è una cosa che Ambra Senatore ha imparato da Carolyn Carlson, di cui è stata allieva alla Biennale di Venezia, è la gestione dei ritmi e degli insiemi dei danzatori. Sapienti tessiture ritmiche animano l’azione sulla scena, anche quando non si danza, quando semplicemente si propone un gesto comune. È la coreografia che regna sulla danza e sul teatro, perché alcune scene o passaggi sono puramente teatrali. Come il finale, dove i danzatori si prendono per mano e invitano gli spettatori a unirsi con loro in una catena che li unisce fino all’ultima fila. Poi rimangono così, congelati, ciascuno con una differente espressione sul viso, come in un bassorilievo.

In comune è racchiuso in una bellissima poesia della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad recitata e offerta agli spettatori dalla stessa Ambra Senatore, di cui, in conclusione, riportiamo alcuni versi che ben raccontano l’intero spettacolo:

«Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio,

e aveva il volto della mia vecchiaia

E saluterò la terra, il suo desiderio ardente

di ripetermi e di riempire di semi versi il suo ventre infiammato

Sì, la saluterò,

la saluterò di nuovo».

Carcaça di Marco da Silva Ferreira

Nuovo appuntamento di Torinodanza con un doppio spettacolo, Carcaça di Marco da Silva Ferreira e Il combattimento di Tancredi e Clorinda per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz.

Carcaça è una messa in questione della comunità e della memoria collettiva che le appartiene attraverso la danza. Presente e passato si confrontano attraverso gli stili del ballo popolare (clubbing, house, street, breakdance, fandango, marce militari, techno, vaguing e trance) perché i corpi dei danzatori rendono manifesta la storia condivisa con la comunità degli spettatori. Riconoscere è appartenere, è condividere. E questo non avviene attraverso il linguaggio della cultura alta ma soprattutto grazie al pop, diffuso, pervasivo, persino rifiutato, ma comunque vissuto.

Pensiamo a quante canzonette estive dagli altoparlanti delle radio di un bar, o in macchina mentre si guida, ci restano nelle orecchie e colorano attimi della nostra vita, anche contro la nostra volontà. Marco da Silva Ferreira riproduce questo processo di acquisizione comune di linguaggi e stilemi attraverso la danza dei corpi. Questo rammemorare non è colorato di nostalgia, non è uno sguardo velato e sognante verso tempi lontani, ma è una domanda attiva e pressante rivolta al nostro presente. Cosa ricordiamo? E cosa significa ricordare?

Le marce militari così come la canzone rivoluzionaria delle lavoratrici (Cantiga sem maneiras – 1974) di Josè Mario Branco, il cantautore che sempre si oppose al regime fascista di Salazar, sopportò l’esilio in terra straniera e tornò in patria solo dopo la Rivoluzione dei garofani, porta in superficie il non lontano passato portoghese. Cosa di quelle lotte è rimasto? Quello spirito è ancora presente, o si è irrimediabilmente sopito? E questa domanda non è rivolta ovviamente solo ai portoghesi, perché a ciascun popolo, soprattutto oggi, quando in ogni stato d’Europa soffia un vento nero colmo di sussurri di un passato sconfitto con tante sofferenze, deve necessariamente chiedersi: sappiamo ancora ricordare da dove veniamo?

Ed è altrettanto ovvio che questa domanda non parta dalla testa o dalle parti superiori del corpo, ma scaturisca dai piedi di questi danzatori. L’accento di questa coreografia vitale e coinvolgente è sui passi e sul ritmo di questo marciare, comminare, correre. Da dove veniamo e verso dove siamo diretti? E non pensiamo neanche per un momento che con questo domandare ci si rivolga verso questioni filosofiche dei massimi sistemi, il quesito è concreto e terra-terra: dove stiamo andando ora in questo nostro presente? La memoria riguarda anche l’identità. Jason Bourne si risveglia senza un passato, non sa più chi è, non sa perché combatte e perché scappa. Trattiene solo abilità tecniche che nulla gli dicono su cosa fare nell’immediato futuro né perché sia quello che è. Senza passato saremmo simili al protagonista di Memento di Christopher Nolan, il cui agire perde significato ogni volta che la sua memoria non trattiene i ricordi. E come lui diventiamo manipolabili, inconsapevoli.

Una marcia militare porta i danzatori sulla scena e la sonata di Scarlatti (credo l’Allegro della Sonata K.01 in re minore, ma la memoria può ingannarmi) chiude questo percorso che tocca vari momenti: la danza del nostro presente (trance e clubbing), il vaguing degli anni ’80 e ’90, il ballo popolare dalle radici ataviche, la danza di strada delle comunità nere e sudamericane, la canzone rivoluzionaria di chi ha lottato per la libertà. Significativo il momento in cui le magliette rosse dei danzatori, sollevate in alto dalle braccia diventano una bocca che canta le parole di Branco. Il movimento stesso si fa verbo e ci ricorda il passato. È altrettanto significativo che quelle parole così urticanti contro la borghesia siano rivolte a un pubblico per lo più di estrazione borghese che alla fine applaude entusiasta. Quelle parole non sono più una sfida, sono diventate inoffensive. Carmelo Bene diceva che l’arte è tutta borghese, e probabilmente aveva ragione. L’arte ha forse perso la capacità di scuotere le coscienze anche quando ne ha tutta l’intenzione.

Anche Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi, per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz, riconnette il passato al presente in un ciclo interminabile di ripetizione dello stesso destino. Allestito per il quattrocentesimo anniversario della composizione dell’opera del “divino Claudio”, e a Torinodanza in anteprima prima del debutto ufficiale al Teatro Farnese di Parma nell’ambito del Festival Verdi il prossimo 18 Ottobre, Cherstich e Kratz ci presentano una versione in cui due soldati, un uomo e una donna, sono legati da una nastro nero e sono costretti e combattere in un cerchio, simbolo dell’eterno ritorno dell’eguale.

La storia d’amore e morte tra la principessa etiope e il cavaliere cristiano perde i suoi connotati di travestimento dei ruoli sessuali che portano i due protagonisti a non riconoscersi. L’attrazione dei due amanti si trasforma in un involontario quanto inevitabile ferirsi a vicenda. L’ora fatale è giunta, come recita il testo del Tasso, o forse è costantemente presente, e così si ripete all’infinito la sconfitta di entrambi i contendenti. Se Clorinda muore, Tancredi è infatti mortalmente ferito nell’animo. Nessuno sfugge a questo inevitabile destino perché si è avvinti da questo nero cordame che ci spinge gli uni contro gli altri o, forse, come sostiene Philippe Kratz contro noi stessi. Tancredi e Clorinda sono due anime che si combattono, la loro lotta avviene dentro noi stessi. Per questo anziché impiegare un soprano e due tenori come da partitura, l’intero madrigale viene eseguito dal tenore Matteo Straffi, come se le diverse voci del narratore e dei due amanti combattenti siano un unico vociare dentro l’animo di ciascuno di noi.

Questa interpretazione tutta introspettiva della vicenda di Tancredi e Clorinda risulta però forzata, come se non fosse la loro storia. È Rinaldo che combatte con la propria immagine riflessa nello scudo, che viene ammaliato dallo specchio di Armida e dall’immagine che si riflette nei suoi occhi. Tancredi e Clorinda sono costretti al proprio destino dalle armature che impediscono di riconoscersi. I due soldati che si incontrano nel bianco cerchio sono chiaramente un uomo e una donna, non perdono i loro connotati sessuali. Per quanto mascherati non possono non riconoscersi. Combattono uno contro l’altro nelle loro identità. La maschera non li nasconde all’altro e al pubblico. Il combattimento, la lotta non sono inevitabili, si può fuggire dal cerchio. Quella corda che li unisce e li trattiene imbarazza anche il libero svolgimento della danza. É un impedimento ai danzatori che risultano a volte leggermente impacciati nel gestire l’attrezzo. Forse si dovrebbe dare lasciare libera la poesia del Tasso, lasciare da parte qualsiasi interpretazione e lasciare che quel combattimento avvenga, che i corpi ingannati dal travestimento si scontrino e al fine si rivelino pur con tutto il dolore che questo comporta. Lasciare che ogni volta la storia accada e non sia costretta a ripetersi. In fondo è il destino del teatro ogni sera trovare la forza di essere diverso pur nella ripetizione.

Freedom Sonata di Emanuel Gat

Freedom Sonata di Emanuel Gat apre una nuova edizione di Torinodanza, sempre sotto la direzione di Anna Cremonini, stabilmente al timone dal 2018. Quello di Gat, acclamato coreografo di fama internazionale, è un ritorno sotto la Mole dopo aver presentato nel 2022 LoveTrain2020, opera creata durante la pandemia.

Con Freedom Sonata il coreografo israeliano che, prima di darsi alla danza, si è formato alla Rubin Academy of Music di Tel Aviv, si confronta con il tema della sonata classica, mettendo a confronto l’album The Life of Pablo di Kanye West del 2016 con il secondo movimento della Sonata per pianoforte n. 32 in Do minore, op. 111 di Beethoven nell’esecuzione di Mitsuko Uchida.

Questa scelta musicale suscitano in chi scrive riflessioni che ineriscono più al ruolo e alla funzione dell’opera d’arte che alla danza in particolare. Freedom Sonata è una coreografia così ben eseguita e a tratti così intensa che on ha bisogno quasi di lodi o descrizioni anche perché non è narrativa, non racconta una storia e quello che accade in scena riguarda più i rapporti tra gli esseri umani in generale, al loro interagire, che al modo in cui si danza, attraverso quali stili o alla qualità del movimento.

L’accostamento musicale invece pare al primo impatto incongruo. Cosa hanno a che fare un rapper e Beethoven? E cosa unisce la forma sonata con l’hip-hop di Kanye West? Il legame non si nasconde nella forma, benché Gat divida idealmente il suo lavoro coreografico in tre parti. L’op. 111 è l’ultima delle sonate per pianoforte di Beethoven ed è costituita di soli due movimenti, il Maestoso e l’Arietta, che ispirò pagine intense a Thomas Mann nel Doktor Faustus. È proprio in questo secondo movimento che il grande compositore austriaco opera il dissolvimento della forma sonata classica. Non si assiste più alla contrapposizione dei temi e al loro sviluppo che li ripresenta trasformati a chiudere un percorso narrativo unitario. Beethoven trasfigura la sonata incorporando forme compositive altre, come la variazione o il contrappunto severo, ma anche la melodia popolare e il lieder, fecondandoli a vicenda. Il grande Ludovico Van, per dirla con le parole di Alex di Arancia Meccanica, si libera della sonata, ibridandola, facendo fiorire temi su temi, e unendo in nozze alchemiche il sublime con l’umile. E in questa esplosione di momenti musicali costruisce nondimeno un organismo equilibrato e dolcissimo, lontano dalle maestosità eroiche della Quinta e della Nona Sinfonia. È come se si fosse divertito a giocare con la materia musicale, facendo della sonata un qualcos’altro, non definito, al contempo esplosivo e rasserenante. E questo gioco porta lontano, tanto che Mitsuko Uchida, non teme di eseguire l’Arietta colorandola di ritmi rag-time, senza per questo dissacrare l’opera del maestro, tanto da sembrare che l’avesse scritta proprio con quest’intenzione.

Anche Kanye West sconfina dall’hip-pop prendendo a prestito dal Krautrock al trip-hop, dalll’R&b degli anni Settanta al pop melodico, così come dalla musica classica o dallo sperimentalismo elettronico. Ma se Beethoven espande gli strumenti a disposizione della forma sonata, dissolvendola per espanderne i confini e superare la crisi di valori cui era giunta, quella di West sembra solo un’appropriazione strumentale, un fagocitare disordinato che non giunge ad alcuna sintesi propositiva.

La chiave per comprendere l’operazione coreografica di Emanuel Gat sembrerebbe nascosta proprio nel rapporto che si instaura tra la musica di Beethoven e di Kanye West, non solo a livello formale, ma persino politico. Ciò che vediamo sulla scena dovrebbe apparire come l’espressione fisica e danzata di questa libertà raggiunta dai corpi di prendere in prestito linguaggi e frasi dagli ambiti più disparati e farli fiorire insieme come in un’esotica serra in cui crescono rigogliose piante provenienti dai più lontani continenti.

L’accostamento di stili dissonanti e dissimili dovrebbe raccontare la complessità dei rapporti tra il singolo e il gruppo. Un esempio il posizionamento, tra un segmento danzato e l’altro, di rotoli di tappeto-danza che dovrebbe, e usiamo ancora il condizionale, mostrare il dispiegarsi delle dinamiche attraverso cui dall’ordine di un singolo, che distribuisce i compiti, si sviluppi in una collaborazione dell’insieme dei danzatori. Si opera una dissoluzione della leadership. Anche nella danza ritorna costante la proposta gestuale di un singolo danzatore che viene presto riassorbito dal gruppo subito pronto a variare e riformulare il gesto offerto. Scrive Emanuel Gat nel programma di sala: «la creazione di una coreografia può essere uno spazio per capire come risolvere la tensione interna fra l’individuale e il collettivo, quale tipo di autorità può servire come forza motrice e quale come forza distruttrice». È in questo modo che un’opera che non possiede una narrazione o un tema scottante in evidenza, dovrebbe sostanziarsi come “politica”. È attraverso la dinamica dei rapporti tra i danzatori, e di questi con gli altri elementi della scena che si propone un diverso modo di essere, offrendo un’alternativa all’esistente.

E siamo quindi giunti al nodo cruciale e al motivo di tutti questi condizionali. West e la sua musica sono, negli ultimi anni, diventati l’espressione del pensiero dell’estrema destra americana, e non solo per l’appoggio a Trump. West si è profuso in dichiarazioni negazioniste non solo dell’olocausto, ma addirittura dello schiavitù dei neri americani. Le sue esternazioni sessiste, misogine e razziste non si contano, tra cui l’appoggio a Bill Crosby dopo la condanna per stupro. La critica americana si rifiuta persino di recensire i suoi dischi.

Usare un tale materiale musicale, così divisivo, e in alcun modo accostabile a quello di Beethoven se non negli elementi sopracitati, in un’opera coreutica la cui intenzione è; «diventare una forza rilevante nell’individuare anomalie sociali e proporre alternative» ne inficia inevitabilmente l’esito. Emanuel Gat ha più volte dichiarato che West è il più significativo musicista degli ultimi anni, ma come si può scindere oggi la musica e il messaggio che vuole veicolare? Si può ancora sostenere che l’artista e la sua opera siano mondi separati? Se l’arte non si distingue per la sua etica da ciò che rende il nostro mondo un luogo terribile in cui vivere, ha ancora senso? La bellezza veramente monda ogni nefandezza?

Con questo non si vuole accomunare Gat con le posizioni di West, ma semplicemente mettere in questione l’utilizzo dei materialie la loro funzione all’interno di un’opera di così grande levatura tecnica ed espressiva. Forse la libertà di questa sonata danzata arriva fino a comprendere e inglobare in sé le forme più deteriori rivalutandole? Forse la libertà è vera quando accetta anche le manifestazioni più urticanti? Emanuel Gat di certo ci ha donato con Freedom Sonata, molte questioni su cui riflettere.

Infine, il confronto tra Beethoven e West appare sproporzionato, dove al secondo movimento della 111 si accostano tutte le quindici tracce dell’album del rapper americano, il cui messaggio cristiano integralista è estraneo all’opera del maestro viennese. Il tessuto sonoro e il suo significato espressivo diventano compagni ingombranti rispetto a una danza dalla qualità sopraffina. Era proprio necessario l’utilizzo di tutte le tracce, sbilanciando il confronto, così tanto a favore di West (crica 18′ l’esecuzione dell’arietta contro più di un’ora per The life of Pablo)?

Freedom Sonata inizia con i danzatori completamente vestiti di bianco che danzano su un tappeto nero. Alla fine i colori sono invertiti. Bianco e nero si scambiano i ruoli e così, forse, tutto tramontando nel proprio opposto si trasforma e assume altri significati imprevisti. Resta però la sensazione che la libertà di cui si parla si sia colorata di venature oscure e inquiete.

Biennale Danza 2024. Atto secondo. La danza dei corpi

|ENRICO PASTORE

Il corpo danzante, il corpo scenico è sempre, volente o nolente, corpo politico. Esposto allo sguardo in una componente extraquotidiana, diversa, aliena, straniera, si pone come differenza rispetto al canone del consueto. Anche quando utilizza gestualità riconoscibili è il contesto di separazione a inondarlo di una luce tagliente, rendendolo oggetto di interrogazione per l’occhio che osserva. Le declinazioni del pensiero artistico e politico degli artisti vengono trasformate e sublimate dal processo creativo della scena, e giungono, senza mediazione, allo spettatore che deve tradurre quei geroglifici corporei in una domanda cui spetta solo a lui rispondere. Le intenzioni quindi prendono il largo, si espandono, si trasformano, vengono fraintese, indignano e sconvolgono, oppure rasserenano e riempiono il cuore di gioia. L’opera, secondo John Cage, è una lettera a uno sconosciuto il cui linguaggio è però criptico, opaco. Non è un linguaggio da capire con la logica, ma con le viscere, e non c’è una giusta interpretazione, non esiste una chiave che apre le porte della comprensione, ma solo e semplicemente la molteplice e contraddittoria verità del proprio viaggio interiore. È così che si crea quel discorso critico in continuo movimento di cui parla Cristina Caprioli.

Ciò è tanto più vero di fronte a Tangent, opera di Shiro Takatani, eseguito in scena dalla performer Miyu Hosoi. Takatani, uno dei fondatori del gruppo Dumb Type di Kyoto, collettivo che riunisce diversi artisti impegnati nella ricerca di una nuova multimedialità, presenta questo lavoro da solista i cui prodromi risalgono al 2015. Tangent indaga i punti di contatto tra visibile e invisibile, tra corpo, oggetto e spirito. Nucleo primo di ispirazione è 12, l’ultimo disco di Ryūichi Sakamoto, amico e collaboratore in molti progetti di Takatani. Le dodici tracce sono il testamento sonoro del grande musicista, composte negli ultimi mesi della sua tremenda malattia. I suoni dilatati si susseguono sorgendo uno dalla dissoluzione dell’altro, come in certi lavori di Morton Feldman, in un sottilissimo punto di tangenza tra una scomparsa e un’insorgenza quando le armoniche si sono dilatate a dismisura nello spazio.

Le immagini che vediamo sul palco, accompagnate da alcune tracce di 12, sono danza in senso molto ampio, una coreografia come “composizione complessiva degli elementi”, per usare le parole del coreografo giapponese. Sul piano inclinato del palco, in quel paesaggio brullo, lunare, cosparso di piccoli sassi bianchi e neri, di un lungo tavolo, una sedia e una scala, si svolge una danza di luci e ombre, una danza di oggetti, proiettati sullo sfondo, ingranditi, duplicati. I chicchi di riso che cadono sul tavolo, i sassi raccolti e ricollocati. E da questi movimenti nascono interi universi, costellazioni, soli e pianeti. La cintura di Orione campeggia in una galassia di luce sempre più luminosa. E mentre sorgono sciami di stelle, la luce scorre su questa pallida luna, le ombre si allungano, le asperità si fanno più evidenti, fino a scomparire allo zenit, per riapparire nuovamente. Un giorno cosmico in cui trascorrono intere ere. Fino al giungere del buio. Scintille disegnano buchi neri, code di comete, esplosioni di supernove. E dalle profondità del cosmo ecco apparire il nostro mondo, i paesaggi dall’alto, le nostre fragili case, il modo ondoso delle maree e alla mente sovviene la terzina paradisiaca di Dante: «O insensata cura de’ mortali,/ quanto son difettivi sillogismi, / quel che ti fanno in basso batter l’ali».

Quella di Tangent è una danza minima, che invita alla contemplazione sul rapporto tra umanità e natura, un rapporto diretto ma anche mediato da immagini e dispositivi. Takatani dichiara di voler mettere in discussione la rappresentazione della natura e per farlo mette in relazione armonica i dispositivi meccanici, la performer, le luci, i suoni. Tutto danza sulla scena, una danza serena, esteticamente perfetta, che pone domande a una mente distesa, serena e distaccata.

Diversa e opposta è l’energia evocata dal colombiano Rafael Palacios e dalla sua compagnia Sankofa Danzafro in Behind the South: dances for Manuel. Qui a essere evocate sono le forze telluriche e ancestrali delle radici africane, gli antenati e gli Orisha, le divinità della religione Yoruba. Palacios si ispira al romanzo dello scomparso Manuel Zapata Olivella Champò, el gran putas, sulla diaspora africana nel continente americano. Palacios fin dal 1997, quando ha fondato Sankofa Danzafro ha cercato di recuperare le radici africane delle comunità nere di Colombia per ricostruire la storia volutamente cancellata dalla dominazione spagnola. La sua danza è fortemente politica e volta a ricostruire una narrazione degli oppressi, un’opera di decolonizzazione della storia tesa a rimuovere ogni esotismo, figlio di quel pensiero orientalista pronto ad addomesticare l’alterità delle culture non occidentali.

Il processo di decolonizzazione è intimamente legato alla volontà di erodere e contrastare il capitalismo neoliberista che, per esercitare le sue prerogative di sfruttamento oppressivo, necessita di separare, ridurre, silenziare. Per questo il coreografo colombiano oppone la parola africana Ubuntu, che definisce una persona solo grazie al suo rapporto con l’altro. Per la cultura africana l’uomo non è un ‘isola, ma un arcipelago di interconnessioni. Palacios dichiara: «danziamo per essere ascoltati, non per essere visti». La danza è quindi atto politico, è riscoperta delle radici per una riformulazione di un futuro che superi l’anacronistico pensiero razziale, un futuro senza confini e senza razze. Un pensiero tangente con quello di Takatani che afferma: «Sogno che la mia nazionalità scompaia, sogno che la mia razza scompaia».

I ritmi spasmodici delle percussioni, i corpi lanciati in movimenti convulsi traenti energia dalla terra, le maschere e i costumi provenienti da un mondo antico, tutto ci parla di un tempo in cui l’uomo era unito alla natura e agli dei. È questa dimensione di interrelazione che Palacios vuole recuperare in un mondo dominato da un sistema economico che ci vuole separati, isolati, inermi e soli.

Questo spirito gioioso, panico e ribelle si colloca all’opposto da quello che anima Still Life del norvegese Alan Lucien Øyen in cui si sente struggente la distanza tra uomo e natura, tra la contemporaneità e le proprie radici. Still Life si potrebbe tradurre con natura morta. Øyen, attraverso la stupenda interpretazione di Mirai Moriyama e Daniel Proietto, canta il disperato bisogno di comprensione, il dolore della separazione, la perdita di contatto tra sé e la natura. Si sente costantemente il sentore della fine, di un pensiero occidentale che ha perso la sua identità e non trova soluzioni per il futuro. E questo sentimento di separazione, di spaesamento è struggente grazie alla danza di Moriyama e Proietto che traggono forza ed espressività dalla tradizione della danza Butoh, in cui il danzatore deve sentirsi come un morto tra i vivi. Tale è la forza espressiva di questi due corpi danzanti che ogni altro elemento diviene superfluo e addirittura dannoso. Il ripetuto apparire del coro appare addirittura dannoso perché ci distoglie dalla comunione empatica con i corpi dei due danzatori, e questo avviene soprattutto quando viene inserita la parola, dura, assertiva, logica. Per voler troppo dire si finisce per confondere un discorso che era già chiaro con il semplice gesto. Nonostante questo si è assistito a momenti di danza toccante, impeccabile, commovente.

Deadlock di Cristina Caprioli ci trasporta infine in una differente condizione dell’umano, ancora più eterea. In uno spazio coreografico abitato da grandi schermi curvilinei che il pubblico è invitato a esplorare, appare l’interprete Louise Dahl. La danza del suo corpo androgino è replicata dalle proiezioni video sugli schermi e se il corpo vivo nello spazio si confronta con la gravità, il suo doppio digitale si muove come galleggiando nello spazio virtuale, senza peso, immateriale, addirittura spettrale. La coreografia, per quanto identica, assume due forme diversissime il cui dialogo è garantito dall’occhio dello spettatore. Reale e virtuale si confrontano senza astio o conflitto, convivono e coesistono nello stesso spazio prefigurando futuri possibili.

Questa diciottesima edizione di Biennale Danza ci ha proposto quindi molti motivi di riflessioni riguardo al corpo in un periodo in cui questo diventa sempre più un organismo politico. Fluidità di genere, espressione di identità e di appartenenza, luogo di rivendicazione e di rivolta. Tramite il corpo la società e l’arte provano a immaginare un’umanità futura lontana dai dualismi e dalle oppressioni e questo in un momento in cui la storia sembra far riemergere conflitti e dottrine politiche che si pensavano ormai sopite e sepolte. Proprio in questo momento buio dove sembra impossibile il sorgere di una nuova luce che l’arte, e la danza in particolare, rivendicano la loro capacità di immaginare futuri possibili. E questo alimenta la speranza in un’umanità diversa, più accogliente,magari unita al di là delle lingue, delle culture e delle nazioni.

Biennale Danza 2024: la danza del pensiero

|ENRICO PASTORE

We Humans. Noi Umani. Questo titolo della Biennale Danza, la quarta per la direzione di Wayne McGregor, fresco di rinomina per un altro biennio. Un’affermazione che nasconde una domanda sulla nostra identità di umani del Ventunesimo Secolo. Guerre, movimenti migratori, crisi economiche ed emergenze climatiche, malattie che si diffondono sempre più velocemente, questo il panorama di un Occidente neoliberista già salutato in declino all’inizio del Novecento, ma lento a dissolversi e con esso il pensiero coloniale e patriarcale che lo contraddistingue., Nei romanzi di fantascienza di William Gibson questa cinquina di concause genera il grande Jackpot, dai cui sconquassi sorgerà una società che cerca soluzioni provando a manipolare il passato per migliorare il proprio presente. Curiosamente anche Shiro Takatani in Tangent si ispira al film di Johann Johannsson Last and First Men (2020) in cui l’umanità lontana due miliardi di anni manda un messaggio indietro nel tempo per informarci della nostra prossima estinzione. Un futuro che interroga e dialoga con il passato. Non è sempre stato così? L’arte e il pensiero artistico non hanno sondato la tradizione, ispirandosi, fraintendendola, facendola a pezzi, per trovare soluzioni al presente?

We Humans. Umani alla ricerca della propria identità, desiderosi di creare un nuovo modo di abitare e di convivere. Il nemico dichiarato è il capitalismo neoliberista e il suo pensiero binario: noi o loro, con noi o contro di noi. Si immaginano piuttosto configurazioni accoglienti, non escludenti, in cui come in un caleidoscopio si formino nuove aggregazioni polivalenti e policentriche. All’Occidente, sempre più al tramonto, quell’Occidente dallo spirito coloniale e predone, si oppongono le tradizioni dimenticate o, meglio, rimosse, alla ricerca di radici altre, di un pensiero non antropocentrico, in cui trovare l’armonica convivenza di tutte le creature. Anche in questo caso viene in mente la fantascienza, il Ciclo della Fondazione di Asimov, e il pianeta Gaia dove tutti i suoi abitanti interconnessi hanno sviluppato un sentire condiviso di mutuo sostegno. Un pensiero molto presente anche nel lavoro del colombiano Rafeal Palacios e della sua compagnia Sankofa Danzafro in Behind the South: Dances for Manuel.

Questo movimento oppositivo al neoliberismo è animato da una militanza gentile, passiva, debole. Lo ricorda Claudia Rankine nel suo testo introduttivo al catalogo di questa Biennale Danza citando il movimento cinese TangPing (sdraiarsi a terra) e il quiet quitting americano. Se però quello cinese è una galassia di appartenenza che attrae al suo centro i singoli individui, il quiet quitting è un atteggiamento personale, non ufficiale, in cui gradualmente si rinuncia a ciò che sembra necessario ai più: possesso e consumo. Si fa marcia indietro, senza clamori, senza lotte apparenti, come delle gocce d’acqua che battono la pietra e col tempo saranno in grado di modellarla. Come afferma il Leone d’oro Cristina Caprioli: «la rivoluzione non basta più, né immaginarla né metterla in atto». Occorre cambiare la nostra lingua e il modo di ragionare. Caprioli vede nella danza un laboratorio in cui proporre e sondare “proposte alternative ai nostri modi di essere e di metterci in relazione”, una danza: «multipla per scelta, singolare nell’essenza, collettiva nella sua ricaduta». Shiro Takatami, da parte sua, ricorre invece a Kant e al suo invito a considerare l’uomo non un mezzo ma un fine.

We Humans. Umani in riconfigurazione. Una messa in discussione dei concetti tradizionali dell’Occidente, in cui l’umano non è più il centro e il fine della creazione, ma un elemento fra i tanti e il cui comportamento, sano o tossico, influisce su tutto l’intero bioma. E il principale elemento da riconsiderare e riformulare è il corpo. Vera Paravel e Lucien Castaing-Taylor in Humani corporis fabrica, video istallazione ispirata alla celebre opera di Andrea Vesalio del 1543, che per prima fondò l’idea di un corpo macchina, mette in discussione la rappresentazione complessiva della natura del corpo minando la tradizionale separazione tra visibile e invisibile, tra superficie e interiora. Immagini da sonde chirurgiche laparoscopiche, operazioni a cuore aperto, interventi al cervello con paziente vigile, anziani con malattie degenerative della cognizioe in cerca dei propri ricordi, cadaveri placidamente curati e lavati da infermiere all’obitorio, immagini scioccanti, urticanti, che parlano di una fragilità in cui è insita la meraviglia, di un corpo che vive o muore in virtù dell’azione di altri esseri che coabitano al proprio interno. Nell’osservare le rappresentazioni di questo corpo fragile eppur resistente non si può fare a meno di pensare alle parole di Cristina Caprioli: «nessun corpo, nessun linguaggio sarà mai in tuo possesso, dovrai piuttosto prendertene cura e lasciarlo andare».

Il corpo oggi non è qualcosa di esclusiva appartenenza al regno di natura. L’eterea inconsistenza della virtualità, gli ibridi umano-macchina, ci parlano di una problematica e non innocente fusione tra l’essere di carbonio e quello di silicio. Nicole Seiler e il suo Human in the loop, indaga i possibili punti di fusione tra umano e IA ispirata dal pensiero di Donna Haraway, filosofa americana madre della teoria Cyborg, Secondo la Haraway l’ibridazione tra umano e macchina permette il superamento dei dualismi tradizionali, verso degli esseri con identità fluide e mutevoli, non sessuate, con identità: «permanentemente parziali e punti di vista contraddittori». Seiler in Human in the loop esplora le possibilità di questa fusione e i possibili rapporti di potere tra silicio e carbonio facendo eseguire e interpretare all’improvviso a una coppia di danzatori nel vivo della scena le istruzioni provenienti da una IA. Quali i margini di libertà dell’umano rispetto agli ordini impartiti da una macchina? A chi è dovuta l’autoralità dell’opera? È proprio necessario un autore/autrice? Domande di una certa complessità che, va detto, riecheggiano l’opera di Cage in cui le stesse questioni venivano indagate attraverso l’uso di operazioni casuali.

We Humans. Una Biennale Danza dal forte orientamento politico, a braccetto con la sezione Arte che intitola la propria esposizione Foreigners Everywhere e in cui protagonisti assoluti sono un pensiero e una pratica artistica gender fluid, postcoloniale, femminista e, nuovamente, anticapitalista. Movimenti migratori, popoli condannati, perseguitati e dimenticati, corpi e sentimenti d’amore non binari che chiedono a gran voce o con flebili sussurri il diritto a essere accolti. Queste sembrano le questioni più scottanti che inquietano il mondo dell’arte visiva come la danza. In questo articolo non abbiamo parlato molto di danza. Ci siamo soffermati sul pensiero che spinge la danza, che la infirma e la genera. Il danzare dello spirito è forse meno coreografico di quello del corpo? Cristina Caprioli in Flat Haze dice: «camminare è già una forma di coreografia». Forse bisogna spingerci oltre, nel mondo delle idee, dove i concetti vorticano furiosi e liberi di intrecciarsi in un ballo primordiale da cui nascerà, forse, il mondo di domani.

Nicole Seiler HUMAN IN THE LOOP

Durata: 70′

Ideazione: Nicole Seiler

Performance, collaborazione artistica: Clara Delorme, Gabrile Obergfell

Coproduzione: Cie Nicole Seiler, Arsenic, Centre d’art scénique contemporaine Lausanne.

Cristina Caprioli FLAT HAZE

durata: 60′

Coreografia: Cristina Caprioli

Produzione: ccap 2019-2022

Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor DE HUMANI CORPORIS FABRICA

Durata 115′

Cinematografia, Suono, Montaggio: Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor

Produzione: Norte Production, CG Cinema, Rita Production, S.E.L.

Come gli uccelli de Il Mulino di Amleto

Il 10 ottobre 2023, anteprima del Festival delle Colline Torinesi, ha debuttato nella sua prima italiana Come gli uccelli, la nuova creazione de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi da un testo di Wajdi Mouawad. Prima di inoltrarsi nell’analisi di questo complesso lavoro teatrale è necessaria una piccola premessa. Quanto si esplora in questo pezzo non è frutto della visione dello spettacolo al suo debutto, ma dell’intensa frequentazione delle prove dai suoi inizi nella sede della compagnia a San Pietro in Vincoli a Torino fino alla generale tenuta al Teatro Astra il 7 ottobre. Chi scrive non ha dunque visto l’esito, ma il processo creativo che ha portato alla forma finale. È stato un enorme privilegio poter seguire da vicino i primi passi, i tentennamenti, i prudenti approcci a un testo complesso e difficile, passare attraverso le fasi di comprensione delle singole scene, ammirare le metodologie adottate per arrivare alla creazione, e infine osservare la crescita fino alla forma finale, da non considerarsi mai conclusa in un arte fluida come il teatro.

Vi parlerò quindi di questo viaggio a partire dal testo di Wajdi Mouawad, di cui dovrò dire senza rivelare, per non togliere il gusto della scoperta di un’opera costruita su un mistero che deve essere svelato solo agli occhi di chi guarda e non di chi legge.

Come gli uccelli è una dramma in quattro atti che si configura come un tragedia contemporanea dove al fato degli dei si sostituisce la correlazione quantistica. Come due particelle mantengono il loro legame anche a distanze siderali al di là del tempo e del principio di realtà, così i personaggi sono costretti a incontrarsi e vivere le loro storie per un vincolo conseguito fin dal Big Bang, e per quanto possano opporsi niente potrà impedire che si incontrino. Ma le forze della fisica collidono con quelle della storia e così il conflitto israelo-palestinese, in questi giorni tornato alla ribalta per la sua cruenta e irrisolvibile tragicità, spezza quei legami e riporta le particelle umane allo stato di solitudine.

Come gli uccelli presuppone e sviluppa due modelli. Il primo è Antigone (ma sullo sfondo vi è anche l’intera Orestea e il tema del perdono) nel rappresentare l’antagonismo tra una legge antica, come quella del sangue, e una nuova legge che Eitan e Wajida provano a scrivere. Il secondo è Romeo e Giulietta, nella narrazione delle vicende di Ethan, ebreo, e Wajida, araba statunitense, uniti dall’amore e divisi non da faide familiari ma da un muro, non solo fisico ma storico e sociale, che scinde due popoli in guerra per la stessa terra. Il loro rapporto è ostacolato molto prima del loro venire al mondo, fin dalla guerra del 1967, quella Guerra dei sei giorni cui quella di oggi tanto somiglia, fin dalla strage di Sabra e Shatila del 1982. Il testo si sviluppa come un film di Nolan, scorrendo avanti e indietro nel tempo, e muovendosi furiosamente nello spazio. É un testo complesso, non solo per lo sviluppo temporale e spaziale, ma nell’uso di diverse lingue (l’ebraico, l’arabo, il tedesco e l’italiano) e per la durata (nell’originale messa in scena di Mouawad si superarono le quattro ore).

Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto hanno accolto la sfida e la ricchezza di quest’opera e si sono immersi fin dal settembre dello scorso anno, in un processo di scavo per trarre una propria drammaturgia e una personalissima e originale opera teatrale che non è una messa in scena ma una riformulazione del materiale originario.

Nelle prove si sono indagati i presupposti, i sottotesti, le premesse non esplicitate per giungere a dar vita sulla scena a personaggi consistenti, profondi e continuamente lacerati nei propri sentimenti dagli eventi storici e dalle identità imposte dalla società.

Tale processo si è distillato con l’uso di diversi strumenti, dalle improvvisazioni, agli Etudes, ossia studi fisici sugli antecedenti e le motivazioni nascoste, alla discussione a tavolino. Ma il primo scopo era costruire un sentire comune al gruppo di attori, un rispondere agli stimoli come in una partita di tennis, tenendo viva la pallina che passa da un campo all’altro. E a questo si è giunti attraverso l’uso di una serie di esercizi e giochi volti a scardinare o bypassare il pensiero razionale per giungere a una risposta istintiva sostenuta dalla saggezza del corpo.

Facciamo un semplice esempio: la scena iniziale nella biblioteca a New York, che vede l’incontro straordinario, e apparentemente casuale, tra Eitan e Wajida grazie a un fatidico libro, è transitata attraverso varie fasi e stati d’animo: la letteralità fin nell’espressione diretta delle didascalie, la dilatazione inclusiva di un prima non detto dal testo ma necessario per la creazione di un contesto, infine asciugandosi fino a giungere all’osso, all’essenziale, scartando il superfluo, l’ovvio, il teatrale, fino a una fisicità che parla oltre le parole. Il materiale testuale è stato quindi gonfiato e poi scarnificato senza pietà, con la precisione del cacciatore che eviscera la preda con grande rispetto. Il pubblico non si è trovato di fronte a una messa in scena ma a una vera e propria opera autonoma in cui il teatro esprime il proprio linguaggio al di là e attraverso il testo letterario.

Tutti i materiali impiegati tendono a questa essenzialità, dove non vi è un elemento che sottolinei l’altro, ma tutti si rafforzano congiungendo in coro armonico segnali diversi. La scenografia si configura in pochi, semplici elementi: il muro enorme, di una matericità alla Anselm Kiefer, il letto d’ospedale, i tavoli della biblioteca, una poltrona, delle valigie. Questi oggetti parlano una propria lingua insieme agli attori, assumono diverse funzioni, diventano luoghi diversi. Il muro per esempio non solo divide, ma crea gli spazi, determina le luci, si fa schermo per le proiezioni, diventa un calendario.

Il suono sussurra i luoghi e i tempi, parla delle stragi e degli atti di guerra, racconta gli spazi degli incontri, diventa preghiera e scatena il dolore, il tutto senza parole al di là delle parole, rispondendo in contrappunto al gesto, alla scena, al racconto. Le proiezioni non sono solo lo strumento per palesare il sottotitolo, ma configurano fisicamente la distanza dei linguaggi e delle scritture, e creano spazi non fisici, aprono finestre su altri mondi.

Tale lavoro di trasfigurazione alchemica delle parole in atto fisico che implica più linguaggi agenti in sinfonico accordo, ha avuto bisogno di tempo, un elemento essenziale alla creazione a cui Lorenzi si sta dedicando da molti anni. A partire dai vari cantieri Ibsen, sottotitolati Art needs time, Marco Lorenzi e la sua compagnia hanno cercato di guadagnare tempo per il processo artistico. Un atto politico in opposizione a un sistema produttivo sempre più frenetico che spinge alla creazione in soli diciotto giorni di prove. Per gli uccelli è stato preparato tra quest’anno e l’anno passato con più di sessanta giorni di prove. Una conquista dovuta anche alla disponibilità e lungimiranza dei vari produttori e che ha dato i suoi frutti. Si spera che questo non sia un caso sporadico ma finalmente diventi la norma per sostenere gli artisti e la qualità del loro lavoro.

Concludo ringraziando Marco Lorenzi e tutta la compagnia de Il Mulino di Amleto per avermi accolto per molti giorni durante un processo così delicato. Accedere alla loro bottega in questi ultimi anni mi ha fatto comprendere molti aspetti del loro approccio, non voglio chiamarlo metodo perché in teatro ogni metodo smentisce se stesso nella pratica. È stato un privilegio assistere alla nascita di un’opera tanto complessa e profonda e attraversare con loro il Mar Rosso, un segnale forte di fiducia e stima che apre degli spazi profondi alla critica per andare oltre la recensione dell’opera e la visione della creazione finale. Una conversazione che si instaura fin da prima del processo per sospendersi un attimo prima del debutto, per continuare oltre, insieme, nel prosieguo di un dialogo franco volto alla crescita di entrambi al di là dei giudizi.

COME GLI UCCELLI durata 3h con intervallo di 15′

Visto durante le prove dai primi di settembre alla generale del 7 ottobre 2023
di Wajdi Mouawad / consulente storico Natalie Zemon Davis / traduzione Monica Capuani del testo originale “Tous des oiseaux” / adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi / regia Marco Lorenzi / con Aleksandar Cvjetković, Elio D’Alessandro, Said Esserairi, Lucrezia Forni, Irene Ivaldi, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Federico Palumeri, Rebecca Rossetti / assistente alla regia Lorenzo De Iacovo / dramaturg Monica Capuani / scenografia e costumi Gregorio Zurla / disegno luci Umberto Camponeschi / disegno sonoro Massimiliano Bressan / vocal coach e composizioni originali Elio D’Alessandro / esecuzione al pianoforte de La marcia del tempo e Valzer per chi non crede nella magia Gianluca Angelillo / video Full of Beans – Edoardo Palma & Emanuele Forte / consulente lingua ebraica Sarah Kaminski / consulente lingua tedesca Elisabeth Eberl / un progetto de Il Mulino di Amleto / produzione A.M.A. Factory, TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale e Teatro Nazionale di Genova / in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e Festival delle Colline Torinesi / con il sostegno di ART-WAVES e Fondazione Compagnia di San Paolo.

La favola ecologica di Akram Khan: Jungle Book Reimagined

Giunge a Torinodanza, dopo il debutto italiano a Romaeuropa Festival, Jungle Book Reimagined di Akram Khan. Il coreografo bengalese nato a Wimbledon è ormai una stella riconosciuta nel panorama della danza contemporanea e le sue creazioni riescono sempre a stupire e sorprendere per le invenzioni visive e il rigore tecnico unito a una grande resa emotiva.

Jungle Book Reimagined è un reinvenzione del famoso libro di Rudyard Kipling in cui sono contenute le storie di Mowgli, il ragazzo della giungla, e degli animali che lo allevano ed educano alle leggi della natura. Akram Khan e lo scrittore Tariq Jordan rielaborano il materiale originale costruendo un favola contemporanea rivolta ai bambini di oggi e domani o, come li chiama Akram Khan, “i nostri narratori presenti e futuri”. Ne risulta un mito ecologista, volto a costruire una rinnovata percezione della reciproca dipendenza tra l’uomo e l’ambiente naturale. È un invito a abbandonare lo scriteriato sfruttamento del pianeta che sta portando, non solo all’estinzione di numerose specie animali e vegetali, ma a un radicale quanto nefasto cambiamento climatico.

La storia di Mowgli viene dunque riscritta secondo questi criteri rielaborando il materiale proveniente soprattutto dai capitolo primo, secondo e sesto del libro di Kipling. Non siamo più nella giungla indiana, ma in un’Inghilterra sommersa dall’acqua in un mondo devastato da una crisi ecologica. Gli uomini si sono rifugiati sulle montagne e quel che resta della terra è occupato dagli animali fuggiti dagli zoo o dai laboratori di sperimentazione. Mowgli è una bambina, caduta da una zattera mentre fuggiva con i genitori, e che già prima del cataclisma cercava di riscrivere i propri comportamenti nei riguardi della natura. I lupi la trovano sulla spiaggia dopo che le balene l’hanno salvata e la accolgono nel consesso degli animali, sotto la tutela di Bagheera e di Baloo. Le ambientazioni sono post-apocalittiche tra rovine, carrelli di supermercato abbandonati, spazzatura. Gli animali e la natura si stanno riappropriando degli spazi loro negati dall’uomo.

L’episodio del rapimento di Mowgli da parte del Bandar Log, il popolo delle scimmie, rivela che anche da parte degli animali si è creato un dissesto dei rapporti tra le specie. Le scimmie vogliono diventare come l’uomo, desiderano il fuoco per diventare la specie predominante sulla terra. Kaa, il pitone, a cui si rivolgono Baloo e Bagheera per salvare la bambina, nutre un forte risentimento per gli uomini per averlo ingabbiato in una teca, in cui l’apparente libertà è solo un’illusione dovuta alla trasparenza della gabbia. Nuovi equilibri devono essere stabiliti, nuove alleanze tra l’uomo e la natura. È il senso del racconto dell’elefante e dell’intera coreografia di Akram Khan.

Il carattere fortemente ambientalista della favola riscritta è connotato anche dagli inserti di due interventi di Greta Thunberg: il famoso “How dare you?” reiterato nel discorso alle Nazioni Unite e parti del discorso “Blah, blah, blah”.

L’impegno verso l’ambiente si denota anche dall’utilizzo di pochi materiali poveri, su un palco vuoto dove la magia del racconto è sostenuto dai corpi danzanti, dalle essenziali ma efficaci animazioni proiettate in proscenio, e da una suggestiva colonna sonora. Semplicità è la parola d’ordine di questo allestimento, una elementarità che non sminuisce ma esalta la magia della scena. Molto riuscita la figura del pitone Kaa, che prende vita da semplici scatole di cartone di varie grandezze, tenute in mano dai danzatori in ordine decrescente a simulare le spire del serpente, le cui evoluzioni ricordano quelle dei draghi cinesi del capodanno. I suoi occhi ipnotici sono semplici dischi di plastica verde retroilluminati nella scatola di testa. Evocativa anche la scena dell’annegamento del cacciatore nel mare, una semplice tela azzurra di shantung, le cui variazioni di colore, esaltate dalla luce, riproducono, come per magia, i riflessi del mare in una notte di plenilunio.

La danza, seppur rigorosa, è coinvolgente ed emozionante. I personaggi sono ben caratterizzati da un divenir animale che non ricerca la mimesis ma un artificio che si fa natura e diventa un’evocazione burlesca e insieme commovente. L’orso Baloo, per esempio, diventato un ballerino per divertire i bambini dello zoo possiede una forza comica da clown, ma può ricordare al massimo un orso da cartoni animati, così come Bagheera possiede l’eleganza delle movenze di un felino senza mai scadere nella copia. Come sempre nelle danze di Akram Khan si ritrovano le geometrie alla De Keersmaeker sapientemente miscelate con elementi pop, come la break dance, o i riferimenti alla tradizione indiana, soprattutto nelle disposizioni lineari, come nei bassorilievi nei templi indù che raffigurano le danze delle Apsaras. Ne risulta una coreografia dinamica, con frequenti cambi di ritmo, e un’accorta distribuzione dei numeri d’insieme con le parti solistiche o nei duetti. La tecnologia dell’animazione digitale si inserisce e amalgama con eleganza e raffinatezza con la danza dal vivo, formando un tutto unico, un’ennesima chiamata a una nuova alleanza tra il naturale e l’artificiale.

Akram Khan con Jungle Book Reimagined riesce a costruire un favola pop e politicamente impegnata, frutto di un felice connubio tra profondità e leggerezza, capace di integrare più linguaggi artistico-espressivi, sfumando, se non cancellando, i confini tra danza, teatro, animazione digitale. Il pubblico ha compreso pienamente l’operazione applaudendo con calore ed entusiasmo.

AB [INTRA] di Rafael Bonachela: la fluida semplicità della bellezza

Torinodanza apre la nuova edizione del festival con la presentazione in prima italiana di Ab [intra] del coreografo catalano-australiano Rafael Bonachela con la Sidney Dance Company dal lui diretta dal 2008. Il lavoro di Bonachela si è sviluppato nel corso degli anni in un continuo melange tra cultura alta e pop, che in questo lavoro risalta alla massima potenza.

Ab [intra] in latino significa “da dentro”, “dall’interno” e tale locuzione è la chiave di lettura dell’intero balletto. I diciassette danzatori entrano in scena come se fossero in una sala prove mentre stilettate di violoncello attraversano lo spazio come il battito di pulsazione di un cuore. Sul palcoscenico l’insieme dei danzatori abbozza frasi di movimento. Non siamo ancora al linguaggio ma al balbettio di qualcosa che nasce da dentro e prova e estrinsecarsi verso l’esterno. Man mano si creano piccole formazioni, a due, a tre, che provano a formare frasi più complesse e compiute. Lo sguardo dello spettatore non può accoglierle tutte insieme, deve scegliere cosa guardare, operare un montaggio suo proprio, diverso da quello di qualsiasi altro.

Il tessuto sonoro amplia il suo spettro emotivo, cattura l’attenzione verso una gamma di emozioni che cominciano a sorgere in un paesaggio costituito solo da corpi in movimento e luce. La struttura si viene via via a definire. I pezzi di insieme si sciolgono in commuoventi soli, pas de deux, e trii. Il movimento è si atletico e virtuosistico, ma non stucchevole o fine a se stesso. La componente emotiva, istintuale è la chiave di volta che permette di trascendere la tecnica per colpire l’animo dell’osservatore e avvincerlo.

La struttura drammaturgica è un continuo eterno ritorno di una pulsazione dal singolo all’insieme passando per le formazioni a due e a tre. Si conforma come un costante dialogo tra l’individuo e la società, che si aggrega e disgrega, attraverso la fluidità di questa energia sorgente dal profondo dell’animo. Non vi sono traumi in questo comporsi e scomporsi, ma una naturale fluidità, una aggregazione di molecole eternamente combinantesi fino a raggiungere uno scopo per poi sciogliersi e incominciare nuovamente il processo. La luce e la musica sono il bagno di cultura di queste cellule singole pronte a combinarsi per formare sempre nuovi organismi.

La tessitura sonora è composta dal secondo concerto per violoncello e orchestra Klâtbûtne del compositore lettone Peteris Vasks, nella versione eseguita dalla violoncellista argentina Sol Gabetta, e ai ritmi, viscerali, coinvolgenti della musica elettronica dell’australiano Nick Wales che si sovrappone e si commista con la composizione di Vasks.

Ab [intra] dunque benché appaia semplice e riconoscibile nella sua forma, nasconde nella comprensibile tessitura il mistero di ogni disegno che appare sulla tela. Tutto è dosato, senza eccessi, senza ricercare la meraviglia ma facendola semplicemente apparire come spontanea.

Mallarmé scriveva nel suo saggio sul balletto che la danzatrice sa esprimere attraverso il movimento: «una poesia liberata da qualsiasi scrittura». Una danza non narrativa come quella di Rafael Bonachela esemplifica il pensiero del grande poeta francese. Tutto può essere visto e sentito in quei movimenti così ben concepiti da trascendere la tecnica che li ha generati. Ogni occhio che guarda può scoprirvi un mondo e riempire pagine per descrivere ciò che ha provato senza riuscirvi. Per questo credo Ab [intra] ha riscosso così tanto successo tra il pubblico di Torinodanza, perché è un vaso vuoto che ognuno può riempire con ciò che riesce a cogliere. Vi è un senso di libertà e di fluente emozione che libera dalla necessità razionalista e tutta occidentale di voler per forza comprendere un’opera d’arte. Lei è lì nel suo svolgersi qui ed ora e ci pone enigmi come la sfinge, possiamo risolverli oppure ignorarli e godere per qualche tempo la gioia della bellezza dei corpi in movimento.

COREOGRAFIA RAFAEL BONACHELA
luci Damien Cooper
scene e costumi David Fleischer
partitura musicale originale NICK WALES CON KLĀTBŪTNE DI PĒTERIS VASKS
DANZATORI Lucy Angel, Naiara de Matos, Dean Elliott, Riley Fitzgerald, Jacopo Grabar, Liam Green, Madeline Harms, Luke Hayward, Morgan Hurrell, Sophie Jones, Connor McMahon, Jesse Scales, Piran Scott, Emily Seymour and Chloe Young.
produttori Guy Harding, Simon Turner, Tony Mccoy, Annie Robinson, Jenn Ryan
Sydney Dance Company
con il patrocinio dell’Ambasciata di Australia in Italia

Durata 75′

Visto alle Fonderie Limone di Moncalieri il 15 settembre 2023

Tatiana Pavlova: dalla Russia con ardore

|ENRICO PASTORE

Tatiana Pavlova, esule russa (oggi diremmo ucraina essendo nata nel 1890 a Ekaterinoslav sulle rive del Dnepr), è stata la miccia che causò non pochi cambiamenti nel nostro teatro ancorato, negli anni’20, ai mattatori, ai grandi artisti solitari circondati da gregari, un teatro molto distante dalle rivoluzioni nel campo della messinscena e del lavoro sull’attore che avvenivano in altri paesi europei, Russia, Francia e Germania in testa. Ma prima di parlare delle riforme messe in moto da Tatiana Pavlova nel nostro paese, cominciamo con la sua formazione, passo fondamentale per capire la portata dei cambiamenti di cui fu fautrice.

Come lei tenne a specificare la sua famiglia: «non ha mai avuto a che fare con l’arte, mai nessuno degli avi più lontani, né da parte di mio padre, né da parte di mia madre». La sua fascinazione per il teatro nasce a scuola, dove vede i primi spettacoli, cui vuole partecipare ma viene sempre scartata perché considerata non all’altezza. Questi rifiuti anziché placare il suo desiderio, lo stimolano. Crea recite in casa con i suoi fratelli e poi all’età di otto anni comincia a frequentare il teatro cittadino e, dopo aver imparato i monologhi a memoria, li prova in casa per se stessa.

Raggiunta l’adolescenza, siamo nel 1905, anno chiave nella storia di Russia per lo scoppio dei primi moti rivoluzionari, avviene finalmente per lei l’incontro che le cambierà la vita. In città arriva la compagnia di Pavel Nikolaevič Orlenev, per recitare I fratelli Karamazov. Tatiana ne è così impressionata da chiedere un incontro con il grande attore. Quest’ultimo è un professionista di grande talento ma dal carattere difficile pronto a dissiparsi in continui eccessi eppure capace di adottare in modo autonomo un metodo simile a quello di Stanislavskij. Non bisogna dimenticare, e questo vale anche per la stessa Pavlova, che non necessariamente bisogna essere stati allievi del maestro per assaporare l’aroma del suo metodo. Le grandi idee si diffondono, si espandono dal centro di emanazione e senza paura di commettere un errore documentario e storico si può facilmente adottare il principio antropologico della diffusione di stimoli, secondo il quale appunto le idee e le pratiche viaggiano nelle parole e nei corpi degli attori a una velocità diversa e indefinibile, attraverso variazioni e differenze.

Orlenev mantiene la parola e parla con i genitori di Tatiana i quali però nicchiano e rimandano a un futuro da definirsi. La ragazza è impaziente e scappa di casa raggiungendo la successiva tappa della tournée della compagnia. Qui viene inseguita dalla madre che la riporta a casa, ma Tatiana scappa una seconda volta. La madre la raggiunge ancora ma lei parte con l’Orlenev per la Siberia. L’attore scriverà un telegramma ai genitori affermando che la ragazza ha del talento e ne varrà la pena.

Così comincia il suo duro apprendistato teatrale secondo i principi del metodo di Orlenev. Il sistema adottato prevedeva tre fasi denominate: cervello, cuore e bocca. Innanzitutto l’attore doveva studiare, non solo il copione, ma l’intera opera del drammaturgo e persino l’epoca storica e le usanze del paese d’origine (per mettere in scena Ibsen, Orlenev andò a vivere addirittura in Norvegia per comprendere l’ambiente dei drammi); a questo si aggiungeva un’analisi puntigliosa del personaggio da tutti i punti di vista. A questa fase ne seguiva una più profonda e ardua: entrare nella sensibilità del personaggio, trovare nel proprio animo gli ancoraggi dove fare aderire la personalità da interpretare. Ultima: la ricerca di gesti, modalità, intonazioni capaci di proiettare all’esterno verso lo spettatore tali sentimenti animando la parola scritta, facendola vivere. Tutto questo non passava necessariamente attraverso la verità. Tatiana Pavlova racconta su questo punto un aneddoto interessante: «Durante lo spettacolo, piansi finché potei, con lacrime vere perché quella era la mia parte, ma lui mi si avvicinò dicendo che le mie lacrime non arrivavano neanche alla ribalta. Erano lacrime vere, ma aveva ragione lui le lacrime vere non arrivavano, devono essere lacrime di artista capace di farle sentire e soprattutto di indirizzarle».

Nonostante questo per Orlenev l’interpretazione passava attraverso una riviviscenza, per: «un logorio dello spirito che si traduce in una vera e profonda sofferenza fisica». Queste parole di Tatiana fanno capire come l’Orlenev volesse dall’attore un recupero interiore dei sentimenti propri del personaggio e che tali dovessero coincidere con quelli dell’interprete, il quale doveva essere in grado di manovrarli con la tecnica affinché non venisse sommerso tanto da soccombere. Era una forma recitativa in cui si miscelavano, in un equilibrio sempre da riformulare, abbandono e controllo.

Un altro punto fondamentale del processo artistico e creativo di Pavel Orlenev era l’organicità dell’insieme degli attori i quali, condividendo un metodo, dovevano recitare insieme in un’atmosfera comune. Tale approccio era diffuso in Russia in tutti gli ambienti d’avanguardia, fosse il Teatro d’Arte di Mosca o il Teatro Drammatico di Vera Komissarievžskaija, oppure in seguito gli esperimenti di Vachtangov, Tairov o Mejerchol’d. Questa coerenza interna della compagnia sarà uno dei portati principali di Tatiana Pavlova al teatro italiano.

Il sodalizio con Orlenev dura fino al 1910 quando Tatiana decide che è il momento di fare altre esperienze anche se per il suo maestro nutrirà sempre grande ammirazione e rispetto. Nel 1911 la troviamo dunque attrice al Teatro Drammatico di Mosca. Allo scoppiò della rivoluzione, avendo un passaporto Montenegrino, come straniera riesce ad espatriare, prima a Istanbul, e in seguito a Parigi. Nella capitale francese non trova l’ambiente teatrale che si potesse adattare a lei e decide di trasferirsi in Italia giungendo a Torino nel 1919.

Non conoscendo la nostra lingua all’inizio lavora per i film muti. Torino all’epoca ospitava, sulle rive della Dora, gli studi della Ambrosio Film, la prima casa di produzione cinematografica italiana e una delle prime al mondo, in un bel edificio industriale liberty (oggi inspiegabilmente in totale abbandono dopo aver ospitato per decenni il Teatro Espace, diretto dalla famiglia Bergamasco). La Ambrosio film divenne famosa in Europa non solo per le comiche di Robinet e di Fricot, non solo per il lancio del genere Peplum di cui Gli ultimi giorni di Pompei (1908) sono il capolavoro indiscusso della casa di produzione, ma soprattutto per i film dannunziani come La Gioconda degli Olivi e La fiaccola sotto il moggio (1916), La nave (1921) e soprattutto per Cenere (1917), unica interpretazione di Eleonora Duse sulla sceneggiatura di Grazia Deledda. Per la Ambrosio Film Tatiana Pavlova girerà alcuni film muti diretti da Aleksandr Ural’ski tra cui L’orchidea fatale e La catena del 1920 e Nella morsa della colpa (1921).

Durante questa attività cinematografica Tatiana non smette di pensare al teatro ma prima di cimentarsi sulle scene italiane deve impararne la lingua. I suoi insegnati saranno Armando Falconi, Cesare Dondini, direttore del Santa Cecilia di Roma e l’attore Tullio Germinati il quale reciterà al cinema con Visconti, Rossellini e Renè Clair. Ad aiutarla in questa fase di adattamento e di lancio nel panorama teatrale italiano è affiancata da Jakov L’vov, un avvocato e impresario, che seppe prima presentarla a Giuseppe Paradossi, membro di uno dei più grandi consorzi di teatrali e di distribuzione, e poi affiancandola per limare le asprezze del carattere e l’incertezza nella lingua. L’vov sarà fondamentale anche per la venuta in Italia del Gruppo Praga, formato dai transfughi del Teatro D’arte di Mosca in esilio tra cui figurerà il regista Šestov di cui si parlerà in seguito.

Nonostante tutti gli sforzi Tatiana Pavlova non perderà mai l’accento russo che sempre la caratterizzerà nel bene e nel male (Pirandello non la sopportava mentre D’Annunzio ne lodava il fascino) e, forse, non volle mai perderlo, per mantenere un tratto caratteristico ed esotico. Nel 1923 si sente pronta quindi a fondare una propria compagnia che debutterà al Teatro Valle con Sogno d’amore di Korosotov.

Nel lavoro con la sua compagnia unisce in sé il doppio ruolo di attrice e regista benché la parola in Italia non solo non era usata, ma mal se ne comprendeva la funzione e l’utilizzo. Sarà solo nel 1931 che il critico Enrico Rocca della testata Il lavoro fascista utilizzerà il termine proprio in rapporto a un lavoro della Pavlova.

Tatiana apporta nel lavoro di compagnia le prassi imparate da Orlenev e nei teatri di Mosca spiazzando gli attori italiani abituati a ben altre pratiche. Innanzitutto il lavoro si svolgeva in tuta, studiando l’intero copione e analizzando i personaggi. Oltre allo studio collettivo si univa un training fisico con esercizi di respirazione. Tatiana applica con qualche modifica il metodo cervello-cuore-bocca di Orlenev insieme alla vulgata stanislavskiana probabilmente appresa a Mosca. Utilizza tutti i linguaggi scenici (le luci soprattutto a sottolineare i momenti chiave e i cambi di atmosfera) per dare profondità allo sviluppo attraverso una organica composizione scenica. Inoltre abolisce la buca del suggeritore e gli applausi a chiamata limitando i ringraziamenti, anch’essi comunitari, alla fine dello spettacolo e caratterizzati da un semplice chinare del capo.

La critica italiana, soprattutto Silvio D’Amico, si accorge della novità. La recitazione si fa più intensa, veritiera. Lo spettacolo risulta più organico e compatto, dove gli attori si amalgamano in un ascolto e tensione costanti. Il testo risulta più profondo e la vicenda più avvincente e commovente. Per la scena italiana è una vera rivoluzione ancora dominata dalle grandi figure di mattatori e da un lavoro concepito in solitaria, dove le prove servono solo per concertare l’azione comune, le entrate e le uscite. Così scrive Sandro Paparatti nel 1975: «Tatiana Pavlova è stata colei che ha dato nuova vita al teatro italiano, colei che ha portato una ventata di novità […], colei che diede all’attore non solo la parola, ma l’anima, il movimento, il cuore, la libertà di esprimere se stesso, pur mantenendo per il testo e per l’autore il massimo rispetto».

Ogni innovazione richiama su di sé gli strali dei detrattori e i peana dei fautori. Di certo Tatiana Pavlova fa rumore e riscuote successo. La sua compagnia alterna testi classici russi a contemporanei italiani privilegiando Bontempelli, Rosso di San Secondo, Ugo Betti, Sulla nuova drammaturgia mantiene una posizione che ancora oggi avrebbe qualcosa da insegnare ai direttori artistici dei teatri stabili: «Non è meno diffusa, né meno sbagliata, l’idea che un lavoro, per essere rappresentato, debba contare o sulla notorietà del nome dell’autore, o sull’importanza delle raccomandazioni o della posizione sociale: e sono persuasa che a un ingegno originale le porte del teatro sono assai facilmente aperte. E come siamo tutti felici allorché ci troviamo di fronte a un lavoro che appassiona e si impone, dovuto a un autore ancora ignoto, il quale è destinato a salire, un bel giorno, ad alta fama».

Tra i meriti di Tatiana Pavlova vi è anche l’umiltà di chiamare altri registi a dirigere la propria compagnia, allargando così gli strumenti a disposizione per sé e per i suoi attori. Prima collaborazione con il finnico Strenkowski che dirige il grande successo di Resurrezione di Tolstoj che riceve dal pubblico ben diciotto chiamate d’applausi ed è salutato dalla critica come il successo dell’anno. Poi è la volta di Šarov del Gruppo Praga, e poi di Evreinov. In seguito Tatiana Pavlova chiama in Italia Vladimir Nemirovič-Dančenko, fondatore insieme a Stanislavskij del Teatro D’Arte di Mosca il quale dirigerà tra il 1932 e il 1934 Il valore della vita, scritto da lui stesso, Il giardino dei ciliegi secondo il carteggio con Čechov e quindi riportando nell’opera l’atmosfera di commedia, contrariamente alla regia di Stanislavskij, e La gatta di Rino Alessi. In seguito Nemirovič-Dančenko preparerà la Pavlova per la parte di Mirandolina ne La locandiera diretta da Guido Salvini.

Questi inviti rafforzeranno l’influsso della scuola russa in Italia rivoluzionando completamente il modo di recitare e gestire uno spettacolo, oltre a consolidare l’istituto della regia il cui ruolo non è quello del dittatore che impone agli attori la propria visione ma, secondo le parole dello stesso Nemirovič-Dančenko, ripetute più volte da Pavlova, di colui che aspira a: «ottenere che gli attori siano convinti di aver fatto tutto da sé».

I meriti e le collaborazione di Tatiana Pavlova sono innumerevoli sia nel teatro, nel cinema, nell’opera (dove lavora con i cantanti come se fossero attori di prosa) e nelle prime regie teatrali televisive per la RAI. Tra questi contributi non dimenticheremo l’attenzione dedicata alla pedagogia. Tatiana Pavlova è stata infatti, insieme e su invito di Silvio D’Amico, fondatrice dell’Accademia d’arte drammatica di Roma. Insegno dal 1935 al 1938 unendo le classi di recitazione e di regia in modo che gli allievi potessero provare quando avevano appreso. Per far questo rifiutava di stare agli orari e i suoi studenti, ammaliati dal suo sistema di insegnamento, disertavano le altre classi. Questo fu causa di attrito con Silvio D’Amico che nel 1938 la costrinse a dimettersi lanciandole accuse di anti-italianità.

Da questo momento inizia una sorta di declino scenico per Tatiana, nonostante avesse sposato Nino D’Aroma, biografo di Mussolini e direttore dell’Istituto Luce. La sua azione si dirigerà soprattutto verso l’opera lirica e il teatro televisivo. Una volta ritiratasi dalle scene continuerà a insegnare a Firenze al Piccolo Teatro.

Tatiana Pavlova fu un turbine nel sostanziale immobilismo delle scene italiane tra il 1920 e lo scoppio della Seconda Guerra. Certo c’erano le eccezioni: Petrolini, i Futuristi, Anton Giulio Bragaglia, i De Filippo, ma la consuetudine vinceva sulle novità che all’estero erano già comunemente indagate. Tatiana Pavlova ebbe però l’intelligenza di comprendere lo spirito di un paese ancora pieno di forze artistiche di grande livello e di cogliere l’aspetto più importante della cultura italiana: il connubio dello sperimentalismo con la tradizione. Certo questo si potrebbe dire di qualsiasi cultura ma forse in Italia tale aspetto è più accentuato a causa di un passato ingombrante e impossibile da ignorare. Tatiana Pavlova lo comprese e avviò una riforma percepita da pubblico e critica a volte come irruente a volte come gentile, ma di certo ferrea nella sua applicazione. In questo aspetto vanno forse ricercate le ragioni del suo successo oggi purtroppo parzialmente dimenticato nonostante le pubblicazioni anche recenti su di lei.

Ancora oggi la questione è costantemente dibattuta ma forse andrebbero mutati i termini: ogni sperimentazione si innesta in una tradizione. I due aspetti sono complementari e inscindibili. Tatiana Pavlova ne era consapevole e lo dimostra in questa sua dichiarazione: «nel cuore e nel genio di questi due artisti (Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko ndr.) il metodo è nato, o meglio rinato, dall’esperienza dei loro predecessori: e chi troviamo al posto di codesti predecessori? Lo ha dichiarato Stanislavskij in persona: un italiano, quello che l’Europa acclamò forse come il più grande attore dell’Ottocento, Tommaso Salvini».

Hanako

Hanako: il fascino della morte esotica

|ENRICO PASTORE

Hanako nacque con il nome di Hisa Ota in un piccolo villaggio nel Giappone centrale il primo anno dell’era Meiji ossia il 1868. La sua seconda nascita fu tenuta a battesimo da Loie Fuller in un albergo di Copenaghen nel 1901 dove era giunta rocambolescamente a seguito di una troupe di artisti nipponici senza aver mai prima calcato le scene.

Ecco come avvenne la sua seconda nascita raccontata dalla stessa Fuller: «Vennero tutti a salutarmi nel mio albergo e recitarono non so quale brano del loro repertorio. Scorsi allora, in mezzo agli attori, una dolce giapponesina che avrei volentieri consacrato prima attrice della compagnia. Ma per questi nipponici le donne non contavano e tutti i grandi ruoli erano realizzati da uomini. Tuttavia io avevo notato solo lei. Recitava un ruolo di terzo piano, è vero, ma con una intelligenza, con delle moine così divertenti, da topolino trotterellante. […] Quando la prova fu terminata riunii gli attori e dissi loro: se volete restare con me bisogna che mi obbediate. E se non prendete questa piccina come prima attrice non avrete alcun successo. E poiché ella aveva un nome impronunciabile, la battezzai seduta stante Hanako».

Il racconto della Fuller, allora impresaria di Sada Yacco, ci lascia intravedere alcuni aspetti interessanti: da una parte la grande abilità di impresaria di Loie Fuller nel saper fiutare il talento laddove nessuno era in grado di scorgerlo e, in secondo luogo, la sua capacità di spazzar via con un battito di ciglia l’intera tradizione giapponese che non conosceva, come la ignorava il pubblico e la critica. Loie vide in Hanako, così come aveva visto in Sada Yacco, la futura diva, la vedette esotica da mostrare allo spettatore europeo, e soprattutto francese, annoiato e sempre alla ricerca di succose novità ovunque queste provenissero. Da ultimo Loie sapeva che Hanako era portatrice di una femminilità e sensualità esotica che avrebbe elettrizzato il pubblico borghese.

Questi elementi furono fondamentali non solo per il successo di Hanako e Sada Yacco ma anche per Josephine Baker, la danzatrice nera che fece impazzire Parigi e la Francia. Il mondo dello spettacolo all’inizio del Ventesimo secolo scopriva il divismo e annesso a questo la potenza dei media di comunicazione, della stampa, della fotografia, che moltiplicavano le attese, le aspettative, i desideri. Tutto questo era amplificato dal mistero che aleggiava su tutto ciò che proveniva dall’Estremo Oriente di cui, allora, come per altri versi anche oggi, poco o nulla si sapeva.

Per comprendere appieno la capacità di Loie Fuller di spargere notizie ad arte (oggi le chiameremmo fake news) a fini pubblicitari e per aumentare le aspettative del suo potenziale pubblico ecco due episodi che ci aiutano a capire le strategie messe in atto dall’impresaria americana. Il primo riguarda Sada Yacco e su un suo presunto incontro a Buckingham Palace con la regina Vittoria al suo arrivo a Londra nel 1900. Secondo la stampa francese la Regina chiese se potesse fare qualcosa per l’attrice che l’aveva tanto impressionata e Sada Yacco rispose se potesse intercedere presso l’imperatore del Giappone pregandolo di concedere anche alle donne il diritto di andare in scena. Peccato la legge fosse già stata promulgata nel 1891! Quindi certamente la notizia arrivò ai mezzi di informazione da una fonte interessata a spargere una notizia falsa ma succosa.

Anche ad Hanako successe qualcosa di simile. Alla fine della prima tournée Hanako non tornò in Giappone ma si fermò ad Anversa. Qui la storia prende due strade diverse. La prima più veritiera racconta che Hanako non volendo tornare in Giappone dove da donna sola e abbandonata dal marito non avrebbe trovato una situazione stabile, cantò e danzò in un locale di cui in seguito acquistò la proprietà. Dopo questo passo cercò di costruire una compagnia con dei connazionali per sfruttare il successo ottenuto con la Fuller e ancora nelle menti degli spettatori. Dopo aver girato per l’Europa rimase senza soldi e chiese aiuto all’impresaria e amica americana che le offrì un secondo contratto.

La seconda storia raccontata dalla Fuller ci dipinge ben altro quadro. Hanako era stata presa in ostaggio da un connazionale che la sfruttava come ballerina e cantante per intrattenere rozzi marinai nel porto di Anversa. Hanako disperata chiese aiuto all’amica la quale inviò subito nelle Fiandre un connazionale che la liberò con sotterfugi dalle grinfie del losco oste e la riportò in treno a Parigi dove giunse povera e bisognosa. Ora il racconto è evidentemente fasullo e in realtà la Fuller pentita di aver lasciato andare troppo presto un’attrice di tanto talento, inviò al ristorante di Anversa la sua segretaria e Kaoru Yoshiwara, ex-attore e interprete. Kaoru non solo convinse Hanako a firmare nuovamente un contratto con la Fuller e a vendere il ristorante, ma divenne anche suo marito. Tutto questo ci racconta semplicemente come all’inizio del secolo le migliori menti dello spettacolo sapevano già sfruttare i media inventando notizie che potessero in qualche modo smuovere il pubblico. Tali strategie non solo le usò la Fuller, ma Marinetti, pubblicando il Primo Manifesto su Le Figaro e inventando forme di pubblicità occulta e ingannevole, e Tzara che per la sua prima serata dada parigina inviò alla stampa la notizia della certa presenza di Charlie Chaplin!

Dopo questa parentesi torniamo a Hisa Ota in arte Hanako. Come giunse in Europa? La sua infanzia e prima giovinezza è costellata di abbandoni. La sua famiglia la cedette a balia a Nagoya non potendo permettersi di mantenerla per i debiti del padre. In questa seconda famiglia fu addestrata alla danza e a suonare il Koto, una piccola arpa. Anche il secondo padre si indebitò per le scommesse e Hanako fu venduta a una compagnia di danzatrici girovaghe che attraversavano il Giappone centrale a piedi. Lasciò presto la compagnia e tornò a Nagoya dove si affiliò a una casa di geishe. Qui fu notata da un anziano costruttore che ne pagò il riscatto e la sposò. Era un uomo violento e autoritario e per Hanako non fu semplice. L’uomo però quando Hanako si innamorò di Azushima, un giovane intermediario di affari di Kyoto, la lasciò libera concedendole il divorzio, purché abbandonasse la città. La coppia partì per Yokohama, il porto aperto dagli americani al commercio con il Giappone nel 1859. Qui Azushima, finiti i soldi, fu richiamato dalla famiglia, e senza scrupolo abbandonò l’amante senza alcun sostegno. Hanako non potendo, e non volendo, tornare alla vecchia vita si imbarcò verso l’Europa con una compagnia di artisti, che dopo una tappa a Londra raggiunse la Danimarca dove fu scoperta da Loie Fuller.

Da questo momento in avanti la sua storia artistica non diverge molto da quella di Sada Yacco. Le sue performance, su testi giapponesi rivisti e riscritti secondo il gusto europeo da Loie Fuller, si basavano principalmente sulle sue famose morti in scena. A partire da La Martyre, passando Un drama au Yoshiwara, Poupèe Japonaise, La petit Japonaise e L’Ophélie japonaise, il sodalizio con la Fuller durò quasi ininterrottamente dal 1905 al 1914, attraversando tutte le migliori piazze europee e non solo. Fu ammirata da Isadora Duncan e Eleonora Duse, ma fu disprezzata da Gordon Craig, il quale non aveva risparmiato critiche nemmeno a Sada Yacco: «Hanako ci ha fatto credere a un mucchio di bugie, Lei e tutta la sua tribù ci hanno imbrogliato con l’orribile convinzione che tutto ciò che vogliamo sia il suicidio… Non lasciate che in Europa si pensi che lei e il suo modo di rappresentare in ogni più piccolo dettaglio riflettano l’arte del teatro d’Oriente. Non rappresenta il Giappone più di quanto il disegno sulle pagine centrali dell’Illustrated London News rappresenti l’antico spirito dell’India».

Una stroncatura senza appello. Gordon Craig pensava inoltre che le attrici giapponesi degradassero un’arte teatrale condotta ai massimi livelli per secoli dagli uomini, cosa per altro falsa, in quanto per secoli le donne ebbero una parte fondamentale in alcune forme spettacolari legate allo sciamanesimo e la danzatrice Okina fu la fondatrice leggendaria del teatro Kabuki. La questione però è quanto si intendesse Gordon Craig di teatro giapponese per esprimersi in questi toni. In verità non vide mai dal vivo uno spettacolo tradizionale nipponico. Tutto quello che sapeva veniva dai libri. E per questo gli sfuggì un tratto peculiare della cultura giapponese portato in scena sia da Sada Yacco sia da Hanako: la capacità di stratificare la propria tradizione con gli influssi provenienti da altre culture. Per secoli il Giappone è stato una fucina di reinvenzione di tradizioni importate dalla Cina o dalla Corea, a partire dalla scrittura, la religione, la pittura, il design. Il teatro non fece differenza. Il Nō, il Kabuki o le danze Buyo (quelle delle geishe per intendersi) incontrarono l’Occidente, utilizzarono tali elementi sovrapponendoli ai propri ma senza snaturarne i principi fondamentali.

Quello che non riusciva a comprendere Gordon Craig è che Hanako, inconsciamente e naturalmente, agì come fecero molti suoi connazionali usando le tecniche tradizionali adattandole al nuovo contesto. Non per questo erano meno giapponesi. Tutto questo è particolarmente evidente nell’incontro con Rodin, avvenuto a Marsiglia, sempre per tramite di Loie Fuller, durante l’Esposizione Coloniale del 1906, dove il grande scultore si era già innamorato delle danzatrici cambogiane. Da questa conoscenza scaturì una profonda amicizia durata negli anni.

Rodin in quel periodo era interessato a catturare il movimento nella danza. Di Hanako vide La Poupèe, la storia di una moglie gelosa dell’attenzione amore del marito verso le bambole da lui costruite. Dopo averlo scacciato di casa, un cliente entra nel negozio per cercare una bambola. L’unica che desidera è la più amata dal marito. La moglie la vende ma, pentita, si sostituisce alla bambola. Il marito tornato a casa e scoperta la vendita uccide la moglie. Rodin si innamorò dell’attrice Hanako e del suo modo straniante seppur iperrealistico di recitare e le chiese di posare per lui. Fu il soggetto più lavorato dal maestro in ben più di cinquanta maschere, oltre ai disegni e ai bozzetti. Da queste maschere, ottenute con ore e ore di posa estenuanti, per la difficoltà di mantenere le espressioni, si può intuire che ciò che per Rodin erano sentimenti ed espressioni reali impressi nel corpo, per Hanako erano i Mie, le pose tipiche del Kabuki. Un Mie, secondo la definizione che ne dà Savarese: «è un’espressione stilizzata dell’attore che culmina in una posa di tutto il corpo; enfatizza l’umore del personaggio in un dato momento del dramma, attraverso una particolare espressione del volto dopo aver mosso il torso e i fianchi».

Hanako dunque utilizzava le tecniche del Kabuki per rappresentare i sentimenti del proprio personaggio, e questo non stupisce perché nel cosiddetto mondo fluttuante, l’universo artistico giapponese, gli attori Kabuki e le geishe vivevano a stretto contatto. In origine addirittura condividevano la stessa arte. Tale vicinanza fu subito proibita dallo shogunato in quanto fautrice di disordini tra il pubblico.

Per gli Occidentali e per lo stesso Rodin, le espressioni di Hanako erano intese come l’affiorare di veri sentimenti attraverso il corpo. Niente di più lontano dal vero. Erano gesti stranianti ottenuti mediante lo studio del vero. Erano maschere in movimento. Ciò avviene in gran parte della cultura giapponese. Pensiamo ai bonsai: sono alberi veri ma non sono naturali, nel senso che sono opera dell’uomo sulla natura. E così l’Ikebana o l’arte dei giardini: per quanto si cerchi in natura non si troverà mai nulla di simile. Questa modalità era sconosciuta agli europei e Gordon Craig cercava dunque in Hanako qualcosa che non avrebbe potuto trovare perché giudicava e utilizzava parametri sbagliati. Per i giapponesi da sempre si è trattato di assimilare gli influssi e renderli nipponici e originali. La questione della verità non si è nemmeno mai posta. Essi arrivano all’essenza del dramma attraverso uno straniamento che parte del reale e lo trasformano facendo apparire il risultato a sua volta “naturale” benché non lo sia per niente. Ciò che importa è la verità del sentimento suscitato nell’osservatore.

Hanako rappresenta nella storia del teatro, in modo diverso da Sada Yacco, un suggestivo incontro con i teatri orientali proprio a causa del lavoro svolto con Rodin. Le maschere dello scultore francese ci fanno intuire un metodo di lavoro e come l’attrice giapponese utilizzasse la propria tradizione scenica pur in un contesto completamente differente. Lo sguardo occidentale, sia pro, sia contro, non seppe vedere il lavorio dell’attore su se stesso e sul personaggio perché non conosceva i fondamenti delle tradizioni estremo orientali. L’esotico non ci abbandona nemmeno oggi. Siamo sempre pronti a vedere nel diverso ciò che ci aspettiamo. La visione è qualcosa di complesso. Va coltivata e nutrita perché non sempre avere occhi significa vedere.