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Mejerchol'd le cocu magnifique

Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire

|Enrico Pastore

Giano, dio delle soglie e degli inizi. Il suo sguardo è rivolto al passato e al futuro, il corpo assiso sulla linea di confine tra due stati in perenne ridefinizione. Passato e futuro. Inchiavardati nel presente, frontiera mobile e incostante.

La storia è sorella dell’antico dio. Guarda indietro per comprendere l’oggi e proiettarsi verso uno dei tanti possibili domani. Volgersi verso gli eventi nascosti dietro le mobili cortine del tempo non è un’operazione nostalgica alla ricerca di una perduta età dell’oro, ma lavoro di illuminotecnica, un portare luce e visione, laddove la polvere del tempo si è posata e la memoria non aiuta.

È anche e soprattutto lavoro da minatore, una ricerca minuziosa delle vene auree, dei percorsi nascosti nelle faglie del tempo, di solide fondamenta su cui poggiare la costruzione di un domani diverso, auspicabilmente migliore.

Ciò è ancora più necessario per il teatro, arte effimera più d’ogni altra, di cui quasi tutto scompare, anche se oggi vi sono molti più strumenti di conservazione e documentazione rispetto al passato anche recente. È essenziale oggi più che mai, in un momento in cui tutto congiura per appiattirci in un perpetuo istante presente, in cui gli eventi passano veloci sotto i nostri oggi per sparire nel giro di pochi giorni.

Ma vi è anche un’altra ragione per volgersi verso tempi lontani: l’arte scenica è un bagaglio di conoscenze e tecniche tramandate di generazione in generazione, per lo più oralmente dal corpo del maestro a quello dell’allievo, e visivamente nella costruzione di un modo di vedere e far vedere. Senza questo passaggio non vi è futuro. Per dirla alla Carmelo Bene: non si può variare il canone, senza conoscere il canone. Senza quella che chiamiamo tradizione non vi è mutare d’orizzonti, anzi il rischio è quello di perdersi in un labirinto ritornando continuamente su passi e percorsi già ampiamente battuti.

Per questo l’operazione storica non è nostalgica ma audace propensione verso il non ancora. In questo mondo crepuscolare dove nuove forze si agitano sotto la coltre cercando di eruttare dal sottosuolo è importante volgersi verso luoghi e tempi da cui si possono trarre strumenti di evoluzione, non per analogia, perché nella storia la comparazione è nefasta, ma per simpatia di stimoli, per evitare gli errori, per ispirarsi a compiere imprese anche quanto tutto sembra indicare il contrario.

Volgiamo dunque lo sguardo all’indietro per ricercare alcuni fili giunti fino a questo problematico oggi e proviamo a riflettere se alcuni si possono riportare alla luce, se altri debbano essere definitivamente tagliati, se altri invece debbano essere ricollegati.

Ogni storico ha però un punto di vista che, per quanto provi a celarlo o a eluderlo, è presente e ineludibile. Le scelte su dove puntare lo sguardo è dettata dalle proprie riflessioni e dai propri ragionamenti. Umilmente bisogna tentare di far sì che il proprio sbirciare in un preciso e determinato istante possa incontrare e coinvolgere altri occhi.

Scostiamo dunque il sipario del tempo e dirigiamoci verso la Russia in un tempo storico estremamente fluido, tra il 1910 e il 1925, un periodo in cui le zolle tettoniche della storia si scontrarono e conflagrarono con tale violenza per cui tutto venne a cambiare. La società, l’economia, ogni regola del vivere fu messa a soqquadro: riforme sociali, Prima Guerra Mondiale, Rivoluzione d’Ottobre, guerra civile, epidemia di Spagnola, crisi economica, sogno e costruzione di uno stato socialista, tradimento di tutte le più fulgide speranze legate a un pensiero di libertà ed eguaglianza. In questo immenso rivolgimento il teatro fu protagonista e non comparsa. In tale irruente e travolgente rivoluzione artistica e culturale gli ingegni migliori andarono a cercare ogni strumento possibile, in ogni tempo storico e in ogni latitudine, per edificare un nuovo teatro che rispecchiasse una società giovane, magmatica, in via di definizione, anelante nuovi e inauditi orizzonti.

In questo ribollire caotico il primo filo rosso da portare fino a noi è qualcosa di cui poco si parla, come se fosse un tabù, anche se Milo Rau, lo ha inserito come elemento primario nel suo manifesto di Gent: ossia la ricerca di un rapporto fruttuoso, costruttivo, non conflittuale tra tradizione e innovazione. Vediamo dunque, per sommi capi, di riportare all’attenzione ciò che successe allora, quali impensati risultati si siano ottenuti e quali riflessioni ciò possa suscitare oggi.

Potremmo iniziare con uno scherzo: in quel torno di tempo Amleto era alter ego, maschera e travestimento di molti grandi uomini di teatro. Al di là dei progetti messi in opera o rimasti nel limbo dei sogni del cassetto (Stanislavskij invitò Craig per l’allestimento di Amleto al Teatro D’Arte, Vachtangov e Mejerchol’d desiderarono ardentemente confrontarsi con il principe di Danimarca senza mai riuscirci), il dubbio e l’oscillazione tra sperimentalismo e naturalismo fu il punto in cui si affisse il pendolo su cui l’innovazione russa di quel tempo si incardinò. Vachtangov più di tutti incarnò questo amletico e perpetuo dubitare passando da un campo all’altro con il pensiero però rivolto a quello appena abbandonato

Due le visioni, quella più legata a Stanislavskij, Suleržickij, Nemiròvič-Dančenko volta a ricreare, attraverso una quarta parete, un’illusione di realtà-specchio (con tutti i dovuti distinguo perché, come detto, la strada non fu senza svolte spericolate e brusche frenate per nessuno) e l’altra sull’asse Mejerchol’d (comunque figliol prodigo di Stanislavskij), Tairov, Ejzenštejn, Radlov, Ochlòpkov tendente maggiormente al manifestare tutto l’artificio della rappresentazione. Entrambe si confrontarono con quella che per convenzione possiamo chiamare tradizione: ossia le tecniche e le competenze dell’arte scenica tramandate dalla storia e dalle generazioni precedenti.

Entrambi i percorsi furono tortuosi, lo ripetiamo. Nel periodo preso in esame si innestarono influssi simbolisti, espressionisti, cubofuturisti e costruttivisti a complicare il quadro.

In questo dipinto se Mejerchol’d più di ogni altro attinse per le proprie diavolerie biomeccaniche a quello che Kryžickij chiamava il Baraccone, ossia al complesso delle invenzioni dei saltimbanchi, circensi, cantastorie popolari e repertori da fiera, varietà e rivista, non trascurò, (e nemmeno gli altri), il confronto con ogni possibile anfratto della storia del teatro per attingere tecniche e possibilità creative per rinnovare il teatro inventandone uno alieno alle formule trite dell’accademismo. Per Tairov il corpo dell’attore era uno strumento pronto a rispondere: «alla più lieve pressione» e cimentarsi in ogni possibile genere teatrale fosse pure un mistero medievale o un’operetta.

Persino Stanislavkij recuperò il mondo della pantomima per il suo Moliere e giocò con le leziosità comiche del Seicento francese, così come Mejerchol’d recuperò il mondo della Commedia dell’arte, della Pantomima classica, e le modalità rappresentative del Siglo de Oro. Il Dottor Dappertutto (così era chiamato) non disdegnò lo studio e le tecniche del Nō, del Kabuki e dell’Opera di Pechino, quest’ultima ammirata grazie alla tournée di Mei Lan Fang in Unione Sovietica.

L’invenzione del nuovo passò per il recupero e lo studio dell’antico di qualsiasi provenienza esso fosse purché permettesse un ampliamento dei mezzi espressivi dei registi e degli attori. Non si deve pensare però a dei calchi documentari o a un nostalgico ripristino di tecniche e modalità cadute nel dimenticatoio. Tutto questo esplosivo bagaglio di bottega teatrale fu innestato e ibridato con ciò che di meglio la tecnica dell’epoca potesse offrire dall’illuminotecnica, alla scenografia, alla nascente e sperimentale cinematografia. Non è un caso che Ejzenštejn, aiuto regista di Mejerchol’d ne La morte di Terelkin, teorizzò a partire dai melting pot del maestro, il noto manifesto sul Montaggio delle attrazioni.

Dove fiorì un’interessante evoluzione del DNA teatrale grazie alla tradizione fu la riscoperta del teatro fuori dai luoghi convenzionali: dagli sfondamenti in platea, alle piazze, alle fabbriche, fino al gasometro di Ejzenštejn con Maschere antigas di Tret’jakòv, il teatro russo del primo periodo sovietico, non disdegnò sperimentare nuove relazioni con il pubblico recuperando modalità antiche. Persino nelle nude astrazioni tubolari costruttiviste possiamo intravedere la simultaneità dei luoghi deputati medievali o l’Hashigakari (il ponte) del Nō.

Charlie Chaplin conviveva con il Siglo de Oro, e Dziga Vertov sperimentava proiezioni su tre schermi in spettacoli dove furoreggiava la clownerie, la pantomima o le scoppiettanti invenzioni del varietà. Passato e futuro si confrontavano nel presente effimero della scena, e lo studio storico e filologico nutrivano l’invenzione. Come scriveva Ripellino: «anche nelle regie in cui più si avverte la “follia” futuristica, le tradizioni del teatro ritornano con l’ellissi perpetua di un boomerang».

Oggi, contrariamente, nel rapporto tra ricerca e tradizione, ci si trova in uno stallo manicheo: o l’una o l’altra. Inoltre nella questione mettono le dita il Ministero e le banche intimando l’innovazione (ma finanziando ciò che è certo e sicuro) con parole vuote e senza senso come multidisciplinarietà o multimedialità che, come abbiamo visto, son presenti nel linguaggio della ricerca da secoli.

Ciò che in verità manca oggi rispetto a ieri sono principalmente tre cose: il tempo di studio (il malfermo sistema economico della nascente URSS, ma anche l’epoca zarista, permetteva di dedicarsi completamente alla propria arte senza distrazioni burocratiche); la connessione delle generazioni tra loro, congiunzione che permetteva il passaggio delle conoscenze e delle riflessioni, un passaggio di mano da maestro a apprendista necessario ma per vari motivi affievolito se non inaridito del tutto tra gli anni ’90 e 2000; infine la curiosità necessaria è, quando presente, impedita o, meglio, intorpidita da un sistema produttivo che premia il successo garantito e non l’esperimento rischioso. Ciò che risulta vincente non si cambia e così vediamo registi o compagini di talento replicare le formule perché funzionano e garantiscono quindi l’afflusso dei finanziamenti, dalle date di giro e delle commissioni.

Come si può notare non parlo di denaro. Per due ragioni: in primo luogo sono imparagonabili le condizioni economiche tra oggi e allora; in seconda battuta i soldi non fanno le idee.

La questione del confronto e dell’utilizzo della tradizione nello sperimentalismo invece mi pare molto pressante e attuale. Tutto sulla carta oggi punta verso l’innovazione ma non si concedono né tempi né modi per uno studio serio sui linguaggi. Inoltre la formazione si è decisamente impoverita rispetto a quanto accadeva nel periodo storico preso in esame. Se non si conosce il passato come si può innovare il codice? Se dalla memoria sono scomparsi anche gli anni più recenti, e parlo degli ultimi decenni del secolo scorso, non si può formulare un pensiero realmente innovativo (in una commissione di valutazione di percorsi di residenza mi sono sentire chiedere: ma chi è Kantor?).

Un esempio su tutti: molto ritorno del teatro in natura ricorda esperimenti e modalità degli anni ’70 (per esempio il Teatro delle Sorgenti di Grotowski) come alcune modalità delle comunità teatrali dell’inizio del Novecento (per esempio Monte Verità). Questi eventi e chi li animava avevano un orizzonte preciso, politico e artistico. Oggi invece sembra in massima parte (ci sono ovviamente ottime eccezioni) un ricalco o un ripiego o, peggio ancora, una moda. Inoltre manca un riferimento reale a tali esperienze, un dialogo a distanza, una riflessione sugli errori e i successi così da muoversi in avanti o per lo meno di lato.

Infine benché si parli tanto di ricerca risulta confuso cosa effettivamente si stia cercando. Un teatro nuovo? Una nuova forma di relazione? Un linguaggio riformato? Non è chiaro. Difficile trovare delle linee di evoluzione e di pensiero. Anche durante la forzata pausa Covid di tutto si è parlato tranne che di funzioni della scena o di come riformulare l’azione artistico-politica.

Il confronto con la tradizione, con il canone, è dunque fondamentale per non cadere in luoghi comuni e riproposizioni inconsapevoli. Come diceva Duchamp il compito di un artista oggi (si era gli inizi degli anni ’50) è uno solo: studiare, studiare, studiare. Il dovere più difficile di tutti. Confrontarsi come Giano con il passato e il futuro vivendo sulla soglia del presente, senza precludersi alcuna strada e incamerando, come nel sogno biomeccanico di Mejerchol’d, la maggior parte di tecniche possibili al fine di dare all’attore un bagaglio pesante ma preziosissimo di possibilità espressive. Un teatro nuovo può nascere solo dalle proprie ceneri, conoscere il fuoco che le ha prodotte è indispensabile per generare il nuovo.

Neighbours ph:@_Julien_Benhamou

Neighbours e Un discreto protagonista: a TorinoDanza dialoghi tra vicini lontani

|ENRICO PASTORE

Nel terzo appuntamento a TorinoDanza vanno in scena due prime nazionali: Neighbours e Un discreto protagonista, coreografie nate da incontri importanti e casuali in altre opere cruciali nella danza degli ultimi anni: da una parte Brigel Gjoka e Rauf “RubberLegz” Yasit si sono trovati a lavorare per William Forsythe in A quiet evening, mentre Damiano Ottavio Bigi e Lukasz Przytarski durante Transverse orientation di Dimitri Papaiouannu.

Neighbours nasce anche dall’incontro di due diversi linguaggi coreografici: Brigel Gjoka ha una formazione tecnica focalizzata sul contemporaneo e sulle tecniche di improvvisazione, mentre Rauf “RubberLegz” Yasit è un B-boy esponente della corrente astratta della breakdance. Sono dunque vicini, come recita il titolo Neighbours, ma nello stesso tempo i loro linguaggi corporei sono tangenti ma mai intersecanti. Così come le loro origini (albanese Gjoka e curdo Rauf) sono prossime, ma l’eccezionalità curda, popolo senza terra in perenne stato di guerra e di difficile convivenza con gli stati che li ospitano con ostilità, rende distanti le loro radici (per quanto anche gli albanesi nei Balcani conoscano la difficoltà delle convivenze etniche forzate).

Linguaggi, pratiche e origini differenti, forse lontane nella loro prossimità, hanno generato una coreografia (supervisionata dallo sguardo dello stesso Forsythe) tesa all’incontro. A fare da anello di congiunzione la musica originale suonata dal vivo dal musicista e compositore turco Ruşan Filiztek.

Neighbours appare al pubblico inizialmente come un’opera tecnica e ostica. Nel silenzio i due danzatori cercano di usare i loro complessi codici espressivi alla ricerca di un incontro. Un difficile equilibrio di geometrie e flessibilità, di pause e accelerazioni improvvise, di spigoli e curve, di muscolarità e grazia

Solo con il perdurare di tali incastri subentra la musica ad addolcire il dialogo, rendendolo più intimo e personale, così come la luce diviene più delicata, espressiva, meno asseverativa.

Solo a partire da questo momento Neighbours si trasforma in un oggetto coreografico caldo, sfuggente alla grande tecnica messa in campo dai due eccellenti danzatori, e pronta a concedere allo sguardo sfumature commoventi, persino carezzevoli, nonostante certa maschia ruvidezza. Solo a questo punto, quando la tecnica va oltre se stessa, si abbandona, si dimentica, ecco l’incontro, non solo tra i danzatori in scena, ma con il pubblico in sala.

Neighbours è un’opera di pazienza e racconta come solo tramite l’attesa e lo sguardo attento possa avvenire la vera conoscenza tra le persone. Il primo sguardo concede, spesso e volentieri, un’immagine deformata dai pregiudizi. Si vedono i luoghi comuni e non le eccezioni. In quest’epoca frettolosa in cui siamo costretti a voltare pagina in fretta, a dare un’immagine di noi stessi in un secondo, Brigel Gjoka e Rauf “RubberLegz” Yasit ci ricordano l’importanza del tempo affinché una verace comprensione possa emergere dopo le prime impressioni dettate dall’impulso.

Di natura diversa Un discreto protagonista di Damiano Ottavio Bigi, Lukasz Przytarski e la regista e drammaturga Alessandra Paoletti. L’incontro e la relazione sono anche in questo caso i protagonisti della coreografia, ma se in Neighbours si parte da un dato concreto, umano e tecnico insieme, in Un discreto protagonista abbiamo come base un elemento astratto e sfuggente come il vuoto.

I due danzatori sviluppano incontri, dialoghi, collisioni, lotte, su uno spazio vuoto, il quale assume aspetti differenti proprio grazie agli eventi che in esso capitano. La sviluppo è però freddo e le premesse restano opache e ostiche. Non è chiaro quale tipo di vuoto sia oggetto di riflessione. Si parla di vuoto matematico e di vuoto sapienziale, ma l’impressione è che ognuno debba trovarsi la sua strada in solitudine.

Un discreto protagonista è un’opera di grande livello tecnico incapace, nell’opinione personalissima e fallace di chi scrive, di proiettarsi empaticamente al di là del proscenio, dimenticando i presupposti intellettuali e filosofici per essere realmente oggetto caldo, aperto e vuoto per un incontro con l’altro. È prigioniero del suo stesso disegno e delle sue proprie aspirazioni.

Neighbours

BRIGEL GJOKA | RAUF “RUBBERLEGZ” YASIT & RUŞAN FILIZTEK
Albania/Regno Unito/Stati Uniti/Turchia

Fonderie Limone – Sala Grande 16, 17 settembre ore 20.45 – Prima nazionale
durata 65 minuti
coreografia e interpreti Brigel Gjoka, Rauf “RubberLegz” Yasit
creato in collaborazione con William Forsythe
compositore e musicista Ruşan Filiztek (Accords Croisés)
luci Zeynep Kepekli
costumi Ryan Dawson Laight
Una produzione Sadler’s Wells con il supporto di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
coproduzione Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Un discreto protagonista

DAMIANO OTTAVIO BIGI | ALESSANDRA PAOLETTI
Italia/Polonia

Fonderie Limone – Sala Piccola 16 settembre, ore 22.15, 17 settembre, ore 19.30 e ore 22.15 – Prima nazionale
durata 50 minuti

Concetto e direzione Alessandra Paoletti & Damiano Ottavio Bigi
danzatori Damiano Ottavio Bigi & Lukasz Przytarski
Torinodanza Festival
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
ONE DANCE WEEK Festival Plovdiv, Compagnia Simona Bucci/Degli Istanti
D'un reve Salia Sanou

We shall overcome: il sogno di Salia Sanou

Secondo appuntamento a TorinoDanza e si cambia completamente atmosfera. Dalle ieratiche e primordiali acque di Damien Jalet si viene trasportati in una scena politica, dove la storia si confronta con l’attualità in un giocoso sogno di libertà e uguaglianza. È l’aspirazione del coreografo e ballerino del Burkina Faso Salia Sanou, attivo sia in Francia con la sua compagnia Mouvements perpetuels, con sede a Montpellier, e a Ouagandougou con il Centro di promozione coreografico da lui fondato con Saydou Boro.

D’un reve si presenta in forma ibrida, tra coreografia e musical, un luogo di sogno dove la realtà presente e passata sono ben presenti. L’opera inizia con A change is gonna come di Sam Cooke del 1963, vero manifesto dei diritti civili in America. Il brano è cantato dal vivo da tutti i danzatori immersi fino alle caviglie in batuffoli di cotone. Sullo sfondo quattro ceste colme di bianchi fiocchi simbolo di un passato di schiavitù e oppressione.

D’un reve di Salia Sanou ph:@ laurentphilippe

La danza comincia mentre sullo sfondo vengono proiettate immagini d’epoca delle marce dei neri negli Stati Uniti negli anni ’60, mentre i danzatori ripetono le ultime parole di George Floyd, ucciso dalla polizia a Minneapolis nel 2020, da cui scaturì il movimento di protesta Black Lives Matter.

D’un reve inizia dunque con toni cupi, in cui subentra un certo sconforto, nel dire che i tempi cambiano ma certe cose restano sempre uguali. Presto subentra però un altro clima, dopo aver cantato We shall overcome, il capolavoro di Pete Seeger, poi portato in auge da Joan Baez sempre nel 1963, ma cantato prima di loro dalle donne afroamericane dipendenti dall’American Tobacco Company in sciopero nel 1943.

È a questo punto che i danzatori prendono dei grossi rastrelli e fanno scomparire il bianco cotone dietro il fondale facendo apparire il nero del tappeto danza. D’un reve cambia passo, si trasforma in un musical, una vera carrellata di successi musicali afroamericani, canzoni che, dagli anni ’30 a oggi, hanno cambiato il ruolo e l’immagine della comunità nera agli occhi del mondo e che tutti noi abbiamo ballato o ascoltato a partire da Get Up (I Feel like Being a) Sex Machine.

Salia Sanou vuole giocare con il pubblico, trasmettere il sogno di integrazione e parità di diritti e dignità a partire dalle festosità della musica, da quel linguaggio universale che unisce i popoli oltre i confini, i colori, le bandiere. La scena si trasforma in un dancing club anni ’70, con luci colorate, palchi mobili, e danza sfrenata.

Salia Sanou ci presenta una corporeità comune, costituita da corpi normali non atletici, la danza è sporca ma calda come il fruscio della puntina su un disco di vinile. Non si cerca la perfezione stilistica ma l’empatia, il coinvolgimento, la vibrazione dionisiaca dei corpi che ballano.

D’un reve di Salia Sanou ph:@ laurentphilippe

Il pubblico ha accolto calorosamente il sogno di Salia Sanou e dei suoi danzatori e cantanti. Gli applausi sono scroscianti tanto da concedere un piccolo bis di James Brown danzato anche dallo stesso Sanou.

D’un reve è un’opera vitale, persino ottimistica ma lascia profonde riflessioni in questo clima di elezioni politiche dove la destra e il suo pensiero sembrano invincibili. Applaudiamo la comunità nera quando ci intrattiene ma rimaniamo insensibili alle loro morti in mare, alle loro guerre causate dal postcapitalismo da noi abbracciato. Restiamo muti e sordi di fronte ai crescenti episodi di intolleranza e forse quindi i nostri applausi focosi sono ipocriti. Forse lo sguardo con cui osserviamo le opere della comunità nera è ancora velato da un esotismo di maniera, da una simpatia per un diverso creduto inoffensivo e legato al puro intrattenimento. Chissà quanti usciti dal teatro saranno stati contagiati dal sogno di Salia Sanou e dei suoi danzatori, e quanti invece stamattina avranno guardato con pietà mista a disprezzo il nero davanti al panettiere che chiede l’elemosina.

Fonderie Limone – Sala Grande 13, 14 settembre, ore 20.45 – Prima nazionale
durata 65 minuti (senza intervallo)

Ideazione e coreografia: Salia Sanou
con Lydie Alberto, Milane Cathala-Difabrizio, Ousséni Dabaré, Ange Fandoh, Virgine Hombel, Kevin Charlemagne Kabore, Dominique Magloire, Elithia Rabenjamina, Marius Sawadogo, Akeem Washko,
Siham Falhoune, Ida Faho
musiche: Lokua Kanza
testi: Capitaine Alexandre et Gaël Faye
video: Gaël Bonnefon
scenografia: Mathieu Lorry-Dupuy
luci: Marie-Christine Soma
costumi: Mathilde Possoz
Compagnie Mouvements perpétuels

Vessel di Damien Jalet ph:Yoshizuko Inoue

Metamorfosi e linguaggi oracolari: Vessel di Damien Jalet

TorinoDanza apre la sua edizione 2022 all’insegna di un mistero mistico e laico, una meditazione sulla genesi del mondo e della vita proposta da Vessel (del 2016 ma in prima nazionale) di Damien Jalet insieme a Kohei Nawa. Damien Jalet è una vera star del mondo della danza contemporanea, un coreografo a cui piace ibridarsi con altri linguaggi e lavorare di concerto con artisti di altre discipline. Tra le molte collaborazioni non si possono dimenticare quelle con Sidi Labi Cherkaoui, Marina Abramovich, Luca Guadagnino (nel remake di Suspiria), Riuchi Sakamoto (che firma la colonna sonora in Vessel insieme a Marihiko Hara) e infine con lo scultore Kohei Nawa autore delle scenografie non solo in Vessel ma anche nelle altre due opere che compongono la trilogia (Mist del 2020 e Planet [Wanderer] del 2021).

Damien Jalet propone in Vessel una corporeità primordiale, costituita da esseri polimorfi, asessuati e acefali, in perenne metamorfosi. Siamo al di là del genere, del raziocinio, in quel territorio ancestrale in cui il divino e il terreno si incontrano senza un preciso progetto, senza alcune apparente finalità, e giocano nel generare l’improbabile e l’inaudito.

Vessel di Damien Jalet ph:Yoshizuko Inoue

La scena si apre su una nuvola bianca, cratere di vulcano, vagina universale, fossa di germinazione ribollente, galleggiante sulle acque nere e tranquille dei primordi del mondo, su cui emergono dei totem composti di schiene, arti, glutei, mani e piedi. Questi idoli richiamano le divinità dei miti di Chtulu o gli improbabili spiriti de La città incantata di Miyazaki. Siamo costantemente nell’indefinito tra il mostruoso e il fiabesco.

Gli idoli si scindono, mitosi o partenogenesi priva di fecondazione. I sette organismi nuotato nel brodo primordiale, intorno all’isola e sull’isola, cercano di sperimentare formazioni e concrezioni stabili, ma restano attratti dal processo metamorfico. Niente è permanente. Nemmeno le unioni, le nozze alchemiche, possono nulla di fronte alla potenza del divenire.

Le creature giocano ora con il liquido bianco sobbollente al centro del vulcano. Soma divino, sperma universale, latte nutritivo. Gli esseri compiono le loro abluzioni e riprendono la trasformazione. Ecco da ultima sorgere la figura umana, con le sue membra formate e scultoree. Ma è solo l’illusione di un momento, Presto si inabissa nel latte e restano gli idoli acefali. Poi cala il sipario su un finale impossibile perché non vi è fine al transeunte. Il fiume della vita continua a scorrere. A una fine seguirà inevitabile un altro ciclo e così all’infinito, senza trovare una stasi convincente e stabile.

Vessel di Damien Jalet ph:Yoshizuko Inoue

La danza di Damien Jalet si integra in maniera organica con i costrutti scenografici, sempre significanti e mai corredo o decoro, così come con la musica che non descrive ma suggerisce un mondo prima dei mondi. In Vessel ciò che sorprende di più è la fisicità dei danzatori, il loro corpo si produce in un movimento che non è mai slanciato, atletico, dispiegati, ma al contrario contratto, controllato in ogni piccolo contrarsi e distendersi dei muscoli. Le schiene parlano, diventano volti e maschere, gli arti tentacoli e antenne, le unioni generano bocche, vagine, ani, ombelichi. Non vi è mai testa, come se si volesse puntare l’attenzione sull’aspetto istintuale della materia di voler perpetuamente cambiare forma, senza una progettualità o razionalità dichiarata. Siamo prima della coscienza, laddove il miracolo della metamorfosi suggeriva relazioni illecite e meravigliose tra il divino e il materiale.

Vessel è un’opera in cui l’opacità dei significanti si rassoda e solidifica nella chiarezza dell’intenzione. Damien Jalet e Kohei Nawa hanno partorito una creatura solenne e misteriosa, capace di parlare con la lingua della pizia, quel linguaggio oracolare oscuro nella sua pienezza di significato e dove l’interpretazione è un gioco tutto demandato all’orecchio dell’ascoltatore libero di costruirsi il vaticinio più consono ai propri desideri.

Fonderie Limone – Sala Grande 9, 10 settembre, ore 20.45 – Prima nazionale
durata 60 minuti

coreografia: Damien Jalet
danzatori: Aimilios Arapoglou, Nobuyoshi Asai, Francesco Ferrari, Ruri Mito, Jun Morii, Astrid Sweeney, Naoko Tozawa
scene: Kohei Nawa
luci: Yukiko Yoshimoto
musiche: Marihiko Hara, Ryūichi Sakamoto
Produzione: SANDWICH Inc., Théâtre National de Bretagne
Mirabilia Ph:@Andrea Macchia

Comunicare lo spettacolo: a Mirabilia nuovi linguaggi per le Live Arts

Mirabilia è un festival dedicato al circo contemporaneo e alla danza che si svolge tra agosto e settembre nei comuni di Alba, Busca, Savigliano e, per la parte più importante e corposa, nella città di Cuneo. Il Festival diretto da Fabrizio Gavosto cerca di dare un respiro europeo al progetto affiancando agli spettacoli, dislocati in ogni quartiere e parco cittadino, una serie di appuntamenti dedicati agli operatori alternando occasioni di mercato, incontri professionali e tavole rotonde.

Tra questi, di particolare interesse, è stata la giornata di convegno dal titolo Il ruolo della scrittura critica e drammaturgica nello sviluppo delle arti circensi. L’evento è stato organizzato in collaborazione con Adolfo Rossomando, direttore di Juggling magazine, Silvia Mei, studiosa e docente all’Università di Foggia, e la rete INCAm (International Network of Circus Art magazines). Diversi i motivi che hanno reso attrattive le argomentazioni emerse. Cerchiamo di riassumerle in brevi spunti di riflessione.

In primo luogo ci si è interrogati su come comunicare lo spettacolo alla pluralità di referenti possibili: pubblico, operatori e referenti istituzionali. Per ogni caso preso in esame va considerato un differente linguaggio, in parte ancora da inventare e sviluppare, perché differenti sono gli obiettivi: portare spettatori in sala, vendere o produrre un lavoro, finanziare l’attività di ricerca e sviluppo.

Innanzitutto occorre segnalare come molti artisti ancora credano che l’arte sia una forma di comunicazione, ossia che l’opera abbia finalità comunicative in sé, nonostante la riflessione e la pratica estetica e filosofica degli ultimi duecento anni abbia sgomberato il campo da questo fraintendimento. L’azione artistica non è una forma di comunicazione, quanto piuttosto una prassi del pensiero in azione. Inoltre l’opera d’arte possiede una certa sua opacità nonché una volontà propria rispetto ai propri creatori, indipendenza tale da permettere all’occhio dell’osservatore di entrare in essa e trarne messaggi e significati impensati e inauditi. Chiudere la visione, percezione o fruizione dell’opera in un unico univoco messaggio preclude all’opera la usa possibilità di coinvolgere e attivare l’occhio che guarda, relegato in posizione passiva e semplicemente ricevente. Tra opera aperta e opera chiusa non esiste una divisione manichea e precisa. I confini sono labili e grigi ma la tendenza è orientata verso una trasformazione dell’intenzione in tensione, non certo verso un travaso immutabile di un messaggio da un trasmettitore a un ricevente.

, Simone Pacini, Silvia Mei, Adolfo Rossomando

Non a caso all’artista oggi, nelle migliori e più avanzate produzioni, si affiancano altre figure professionali, quali il dramaturg, gli addetti stampa o gli esperti di comunicazione digitale pronti a curare gli aspetti dedicati al mondo della comunicazione al posto dell’artista, declinando l’oggetto secondo i vari pubblici di riferimento (professionali, istituzionali e generici). Comunicare e creare non sono creature di una medesima specie benché alcune prassi di comportamento possano dare l’illusione di una parentela tra cui, soprattutto, il furto di modalità artistiche da parte della comunicazione di massa. Purtroppo per la maggior parte dei casi sono gli artisti stessi costretti a curare tutti gli aspetti per mancanza di sufficienti finanziamenti e, da qui, forse, il fraintendimento e sovrapposizione dei concetti di comunicazione e creazione.

In questo panorama la critica potrebbe svolgere un ruolo significativo, come mediatori culturali, a patto però di inventare nuove modalità. La recensione dello spettacolo post-evento non può più essere il solo mezzo attraverso cui il pubblico entra in contatto con lo spettacolo. E questo per molti motivi primo fra tutti la quasi scomparsa delle lunghe teniture in teatro. Se uno spettacolo resta in cartellone solo una sera è chiaro che leggere una recensione a posteriori non porta pubblico in sala e ciò che succede a Torino potrebbe avere esiti diversi a Napoli o a Bologna. Oggi le recensioni servono per la maggior parte ad artisti e operatori come rassegna stampa, ma nei riguardi del pubblico generico restiamo indietro. Questo si percepisce anche dai progetti editoriali presentati dai colleghi stranieri (presenti al convegno Stacy Clark di Circus Talk dagli Stati Uniti, Cyrille Roussial di Jonglages dalla Francia, Ruby Burgess di Circus Diary dalla Gran Bretagna e Tim Behren di Voices Magazine dalla Germania). Tutti questi progetti, nati digitali, sono orientati allo studio delle arti circensi con contributi anche di grande spessore accademico, e orientati verso una circolazione delle opere sul mercato, quindi l’obiettivo appare diretto verso un pubblico specializzato, altamente alfabetizzato e costituito da professionisti dello spettacolo.

Ruby Burgess di Cyrcus Diaries

Non solo bisogna inventare un linguaggio ma riformulare le parole. Spesso si usano termini e locuzioni senza un vero significato nel contesto attuale della ricerca sulle arti performative. Un esempio su tutte: multidisciplinarietà e multimedialità utilizzare per indicare un futuro necessario e radioso per le live arts. Tali termini più che unire e creare alleanze inedite, sono divisive, perché presuppongono famiglie e tribù in realtà inesistenti.

Teatro infatti è parola nata a indicare un luogo e non un’arte. Teatron è il luogo da cui si guarda. L’arte era Koreia: la sinergica coesistenza di danza, musica e poesia (quest’ultima fu considerata appieno un arte solo a partire da Aristotele in quanto costituita da un insieme di regole). Multidisciplinarietà e multimedialità fin dall’origine dunque. E non è superfluo ricordare come durante l’Umanesimo e il Rinascimento, periodo di grande riflessione teorica da cui sorgeranno non solo il Teatro all’Italiana ma i principi della moderna arte scenica, la Commedia dell’Arte era bottega abitata da una sorprendente permeabilità di confini tra le arti e i generi: commedia, tragedia, drammi pastorali, numeri da saltimbanco (oggi diremmo circensi), imbonimenti da fiera, astuzie da cerretani. Unione proficua di cultura alta e bassa, capace di parlare ai re come ai popolani.

Saltando di secolo in secolo, se attraversiamo come uccelli in volo il Novecento, non osserveremmo altro che una ininterrotta teoria di ibridazioni, matrimoni impensabili, sconfinamenti. Pensiamo solo alla figura di John Cage, la cui influenza determinò mutamenti impensabili non solo nella musica, ma nella danza e nel teatro, per non dire delle arti visive come padre dell’happening e della perfomance. Pensiamo a Kantor, artista visivo capace di rivoluzionare il mondo del teatro.

Non resta che far capire alle istituzioni, per lo meno in Italia, non solo l’inutilità degli appelli alla multimedialità e multidisciplinarietà proprie al DNA delle live Arts, ma l’inefficacia delle divisioni e separazioni dei generi. È superfluo ricordare quanto tali divisioni creino cortocircuiti burocratici che se non fossero imbarazzanti indurrebbero al riso.

Forse, in conclusione, per operare un vero superamento dei generi si potrebbe aspirare piuttosto a una sorta di stato vegetale (non vegetativo) in cui come nella vita della pianta, le sue diverse parti possiedono specificità uniche e linguaggi propri ma tutti partecipanti e dipendenti dalla vita di un solo e unico organismo. Non solo una nuova biologia ma anche una diversa visione politica di appartenenza di cui in Italia siamo privi perché continuamente lacerati da divisioni e contrasti.

Cyrille Roussial di Revue Jonglages

Ultimo aspetto, ma non meno importante, riguardante ruolo e funzioni della critica è il fatto che il giornalismo culturale è divenuto una sorta di azione di volontariato e non più un mestiere riconosciuto e pagato. Fenomeno purtroppo non solo italiano da quanto emerso dal dibattito dove, anche in altri paesi europeo e non, la migliore delle risulta essere un pagamento discontinuo e non sufficiente. Questo provoca due effetti: il primo un necessario conflitto di interessi, essendo i critici spesso sostenuti dai festival e dagli artisti stessi; in secondo luogo la deprofessionalizzazione e la mancanza di giuste competenze le quali si formano solo con un dedizione costante e continuativa. La penuria di finanziamenti e sostegni all’editoria culturale risulta essere un gap quasi insormontabile per l’insorgere di una critica veramente indipendente ed efficace.

Molti dunque i temi emersi purtroppo, per mancanza di tempo, non sufficientemente dibattuti tanto da trovare proposte e strategie per instradare la discussione verso delle possibili vie di uscita. È stato comunque importante parlarne e questo è un indubbio merito di Mirabilia e dei curatori del convegno.

Il ruolo della scrittura critica e drammaturgica nello sviluppo delle arti circensi.

Convegno tenuto a Cuneo, presso il Rondò dei Talenti, durante Mirabilia il 2 settembre 2022

Link alle testate straniere specializzate in circo contemporaneo, ma non solo, presenti al convegno per chi avesse curiosità di esplorare i progetti editoriali dei nostri colleghi all’estero:

Circus Talk (USA) https://circustalk.com/

Circus Diaries (GB) https://thecircusdiaries.com/

Revue Jonglages (FR) https://maisondesjonglages.fr/revue/accueil/

Voices Magazine (D) https://circus-dance-festival.de/en/projects/magazin/

Biennale Danza 2022

Biennale Danza 2022: superare i confini e le barriere

Apparentemente sembra evidente il percorso dell’arte verso un affrancamento dalla centralità dell’umano enunciato dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Da qualche decennio si cerca l’ibridazione, la fluidità, gli accoppiamenti tra specie e stati diversi alla ricerca di quelle che Bruno Schulz nella sua splendida Bottega color cannella chiamava generazioni equivoche, e di quel corpo senza organi cui Artaud, seguito da Deleuze, anelava, perché privo di gendarmeria e gerarchia.

Potremmo chiamarle nuove metamorfosi laddove, come in Ovidio, l’umano, il divino, l’animale e il minerale si trasmutano uno nell’altro, alla ricerca di una nuova figurazione dell’umano non più umano. Il processo appare evidentissimo alla Biennale Arte, dal titolo Il latte dei sogni, dal libro imaginifico dell’artista surrealista Leonora Carrington, dove i mostriciattoli spaventosi disegnati sul muro diventano libro di fiabe per bimbi.

Nel passeggiare tra le opere dei Giardini e dell’Arsenale si scopre con meraviglia un fiorire di creature sempre in between: maschere, pupazzi, ombre, concrezioni cornee, fusioni, germinazioni, automi e robot, animali fantastici, deità mostruose. Non c’è sesso né genere, è un trasmutare e un trasumanar che “significar per verba/ non si poria; però l’essemplo basti/ a cui esperienza grazia serba”.

Anche la Biennale Danza, per il secondo anno sotto la guida di Wayne McGregor, si pone su questo sentiero fin dal titolo: Boundary-less, senza confini. Certo la danza, ancor più del teatro, fatica a superare la carnalità, perché di essa si nutre e nel corpo vivo del danzatore si incarna. E questo nonostante i ripetuti esperimenti di smaterializzazione tentati fin dagli anni ’70 del secolo scorso (pensiamo agli esperimenti di motion capture compiuti da Merce Cunningham, per fare un esempio fra tanti).

Il corpo in movimento resta fascinoso nonostante puzzi di umano lontano un chilometro. Esempio lampante il Leone d’argento Rocío Molina: nell’aspirazione al cielo, la carne si sporca di desiderio, di terra e di sesso, persino di una certa dose di perversione peccaminosa. La Carnación, la scarnificazione, non avviene. Anzi il tentativo dimostra ancor più la pesantezza della carne, nel tentare di scappare delle regole della gravità. L’elevarsi delle mani, i battere frenetico e sincopato dei piedi, l’arrampicarsi una sull’altro e viceversa, esaltano il terreno e l’umano più che il suo fuggir da esso. Inoltre l’abnorme durata, quasi di crescita cancerosa, vanifica le immagini più significative, proprio in una non necessaria reiterazione.

1- The Seven Sins – Pride di Marcos Morau con Gauthier Dance _ © Jeanette Bak

Tentativo diverso seppur altrettanto ambizioso The seven sins, il progetto di Eric Gauthier e della Gauthier Dance/Dance Company Theaterhaus Stuttgard affidato a sette coreografi (Sidi Labi Cherkaoui, Shron Eyal, Aszure Barton, Marcos Morau, Sasha Waltz, Marco Goecke, Hofesh Schechter) incaricati di ritrarre e interpretare i sette peccati capitali non più mortali, ma pur sempre peccati.

Eric Gauthier ci invita a non vedere i singoli pezzi come separati ma parti di un surrealistico (o forse iperrealista) cadavre exquis. Nella gola, nell’avidità e perfino nell’orgoglio è il corpo/massa o il corpo/sesso a prendersi la scena. Nessuna smaterializzazione o evanescenza o spiritualizzazione. Il corpo nella sua magnificenza, persin nel vizio più nero, nella rabbia o nell’accidia, si manifesta nella sua straordinaria capacità di crear grazia e pensiero attraverso la sua materialità e matericità. È questa la sfida: dentro i confini del corpo far vedere oltre la frontiera.

La mostra fotografica di Indigo Lewin sposta ancora l’asticella verso la presenza fisica, pesante e sudaticcia del corpo danzante. Le foto si dedicano all’immagine prosaica della danza, quella fatta di fatica, duro allenamento, sudore, lacrime, calzini sporchi.

Di tutt’altro tenore le opere di Blanca e Tobias Gremmler. La coreografa spagnola ci invita in un viaggio virtuale nel fantastico di un mondo immaginario in cui dieci persone partecipano a Le bal de Paris. I corpi/avatar vestiti da Maison Chanel navigano su fiumi, prendono treni e ascensori, viaggiano in stanze con prospettive ingannevoli e impossibili, camminano in labirinti pronti a rivelare a ogni svolta veri e propri giardini delle delizie. La storia d’amore è solo pretesto per il viaggio, divertente e disorientante perché decisamente immersivo. La lotta è tutta interiore tra il proprio corpo senziente ancorato alla realtà e l’occhio/mente pronto a credere all’illusione.

Le bal de Paris di Blanca Li Ph:@Blanca Li

Tobias Gremmler, noto al grande pubblico per le sue collaborazioni con Björk e gli Einstürzende Neubauten, ci offre una installazione di luce in cui si disegnano e appaiono esili fantasmi, ectoplasmi filiformi e danzanti, filamenti della consistenza di fumo di sigaretta capaci di rivelare nella luce una vita inattesa, equivoca, inquietante, ibrida. La danza è sublimata, è movimento nello spazio di creature aliene evocate da un’altra dimensione.

Da ultimo due piccole perle da osservarsi qualora si capiti ai Giardini nel Padiglione Italia. Due video rari, uno del 1923 e il secondo del 1925 in cui appaioni frammenti di danza di Mary Wigman e di Josephine Baker. Il primo quasi inquietante per la sua forza dirompente, quel battere i piedi e far da controcanto alla percussione, quel viso intenso, concentrato, quasi spiritato della Wigman; dall’altro un giocoso e spensierato giocare col corpo e con la nudità in un epoca in cui questo veramente faceva scandalo e non era cliché. Un ritornare per un momento agli albori della danza contemporanea, un’alba per lo più costituita da donne coraggiose (Loie Fuller, Chloé de Merode, Hanako, Sada Yacco giusto per fare qualche esempio) che mettevano in gioco il proprio corpo e la propria reputazione nell’inventare un nuovo modo di danzare

Una Biennale Danza alla ricerca di un oltrepassare i confini di se stessa e del genere. Non importa il successo o meno dell’impresa, conta il porre l’accento e la riflessione sul tentativo di superare un’umanità fallimentare e distruttiva. Si ricerca un oltreumano capace di emendare il peccato vanaglorioso di sentirsi padrone unico del pianeta e tale ricerca, non solo artistica ma politica più di ogni altra, si sostituisce alle mancanze dei governi attanagliati da populismi di sapore medievale, per indicare alla società, quella in cui un uomo può essere ucciso in mezzo alla strada mentre tutti filmano senza far nulla, che un altro mondo è possibile al di là dei colori, dei sessi, dei corpi. Forse l’arte tutta e non solo la danza o il teatro, hanno finalmente trovato una funzione credibile e attuabile.

2019 DI OHAD NAHARIN: COME SFUGGIRE ALLE GABBIE CULTURALI

Tra le colline del Monferrato nel comune di Moncalvo sorge da qualche anno Orsolina 28 Art Foundation, una fondazione privata a sostegno della danza contemporanea. Tra bellissimi colli, orti biodinamici, piscine colme di ninfee, serre tropicali, sorge un complesso di strutture nate per ospitare l’emersione di creazioni coreutiche, e ospita nel contempo luoghi innovativi dove mostrarle al pubblico. La Fondazione si è dotata infatti oltre che di una superba e ampia sala prove, anche di un’arena anfiteatro all’aperto, dove gustare la danza senza orpelli tecnici né luci artificiali, solo il corpo in movimento, e l’Occhio, uno spazio architettonico pensato insieme a Ohad Naharin, il celebre coreografo israeliano, inventore della Gaga Dance.

L’Occhio, l’avvenieristico spazio teatrale a Orsolina 28 Art Foundation

Questo spazio innovativo e futuristico, capace di ospitare circa trecento persone, è il luogo deputato per il debutto europeo di 2019, ultima creazione proprio di Ohad Naharin con la Batsheeva Dance Company. Parafrasando Dante prima di parlar di ciò ch’io vidi, dirò prima dell’altre cose ch’io vi ho scorte nel vivere quest’esperienza non limitata alla sola evidenza spettacolare.

L’intento di Simony Monteiro, ex danzatrice formata negli Stati Uniti presso la School of American Ballet e l’Alvin Ailey Dance Theatre e fondatrice di Orsolina 28, è quello non solo di fornire alla danza un luogo dove crescere e prosperare, ma circondare l’esperienza artistica con una fruizione del territorio votata a una filosofia di rispetto della natura. Orsolina 28 è infatti anche un’azienda agricola che persegue principi biologici nelle proprie coltivazioni, un ristorante dove poter gustare i prodotti e un moderno Glamping dove potersi rilassare a contatto con la natura. Orsolina 28 è quindi un incubatore di progetti coreutici ma anche un’azienda agricola unita a una moderna ricezione turistico alberghiera improntata al green e al wellness.

Partecipare al debutto europeo di 2019 di Ohad Naharin non è stato solo vedere uno spettacolo, ma sperimentare l’azione della Fondazione in tutte le sue sfaccettature, dalla visita alla proprietà, l’aperitivo con i vini di propria produzione, la cena con i prodotti dell’orto, e infine, entrando nell’Occhio, farsi colpire e attraversare dalle intense emozioni che i lavori del coreografo israeliano sanno sempre regalare allo spettatore.

L’Occhio è un insolito spazio performativo: il pubblico è disposto su due gradinate poste una di fronte all’altra. La scena è situata al centro, come una passerella d’alta moda. Le uscite sono laterali. L’occhio dello spettatore fatica a contenere tutta l’estensione di questo palcoscenico sui generis. Bisogna cercare le immagini, farsi necessariamente un proprio montaggio, unico per ogni occhio che guarda.

2019 si dipana come uno scorrere di immagini, tra la sfilata e la processione, una teoria di corpi, ibridi ed erotici, danzanti o semplicemente in cammino, sempre accompagnati da musiche ebraiche più o meno tradizionali. Non potendo comprendere le parole dei canti ci si deve far guidare dalle sensazioni e dalle emozioni. Ma è così fondamentale capire? L’atto di conoscenza proveniente dall’opera d’arte non scaturisce anche dal fraintendimento?

2019 di Ohad Naharin

2019 sembra essere un lavoro sulla nostalgia derivata dall’essere ingabbiati, corpo e mente insieme, nel luogo e nella cultura in cui ci troviamo a nascere. Sfuggire a questa attrazione è spesso o forse impossibile. Non resta che tendere verso una linea di fuga. La responsabilità è però condivisa con il pubblico. L’occhio che vede definisce il corpo che danza e si espone davanti a lui. Si compartecipa alla creazione non solo di una visione ma di un sistema di pensiero. Questo peso simbolico diventa fisico quando i corpi dei danzatori si sdraiano sui corpi degli spettatori seduti, spettatori che non guardano solo danza ma si guardano l’un l’altro come in uno specchio pronto a diventare un abisso. È come se nella struttura compositiva di 2019 vi siano intrecciati gli antichi miti greci di Persefone, la Pupilla il cui sguardo permette il rapimento di Ade, e il mito di Ylas, amico di Eracle, rapito dalle ninfe sorgenti dallo specchio d’acqua di una limpidissima fonte. L’occhio che guarda dalla duplice natura di rapito e rapitore.

La danza espressa dalla coreografia di Ohad Naharin è come sempre coinvolgente, emozionante, empatica, e tali valori sono portati all’eccesso proprio dalla grande prossimità. Ciò che colpisce sempre è l’unione di spontaneità e rigore, energia detonante ma controllata al millimetro. I corpi danzanti esprimono erotismo, sensuale ferinità, malinconia e abbandono, forza e fragilità, stati di forza perennemente cangianti non evocati da interiore reviviscenza ma dall’essere geroglifici in movimento, cangianti ideogrammi pronti ad accompagnare l’occhio che osserva in un vortice di sensazioni e riflessioni.

2019 di Ohad Naharin

2019 è un viaggio emozionante, di quelli che solo i grandi maestri sanno proporre, un percorso di trasformazione alchemica in cui l’animo di chi osserva esce di necessità profondamente cambiato. Potremmo quasi usare la parola pellegrinaggio, mettendoci in sintonia con il perenne migrare dei danzatori sulla scena-passerella.

Un ultima considerazione: Orsolina 28 Art Foundation è di sicuro un alieno nel panorama della danza italiana. Un luogo votato alla ricerca e alla cura dell’artista con possibilità che solo il grande mecenatismo privato può esercitare, sia per la quantità di fondi a disposizione, sia per la libertà dalle pastoie burocratiche dei fondi pubblici, ministeriali o regionali che siano. Di certo è un bene che i privati finanzino le arti, anche solo creando un percorso alternativo di finanziamento. Ciò che può offrire una istituzione come Orsolina 28 è però decisamente fuori scala rispetto all’intero sistema delle residenze. Sarà interessante comprendere in che modo l’ingresso nella filiera di questa astronave aliena potrà modificare l’assetto e il panorama non solo dalle danza italiana ma lo stesso sistema delle residenze artistiche in cui tutti i soggetti, senza eccezioni, si trovano ad agire con molte meno frecce al proprio arco. La speranza è che questa esperienza possa fungere da traino e da stimolo per l’intero sistema e induca il legislatore a considerare con maggiore attenzione l’istituto delle residenze artistiche come luogo in cui possono sorgere le giuste energie per una reale innovazione linguistica e formale.

Visto a Moncalvo d’Asti a Orsolina 28 Art Foundation il 18 giugno 2022

2019 di Ohad Naharin per la Batsheva Dance Company durata 75′

Festival Opera Prima

Residenze teatrali e sistema produttivo: proposte e riflessioni al Festival Opera Prima

Durante la diciottesima edizione del Festival Opera Prima organizzato da Teatro del Lemming nella città di Rovigo, oltre a un’interessante rassegna di spettacoli sempre bilanciati tra “senior” e “junior”, si è potuto assistere a un necessario e importante convegno dal titolo: Le residenze artistiche all’interno del sistema teatrale.

L’incontro è stato promosso dalla segreteria di Artisti nei Territori con la finalità di esplorare le possibili interazioni dell’istituto della residenza creativa con gli altri attori della filiera produttiva. La riflessione si è dipanata a partire da una serie di stimolanti domande: sarebbe utile o necessario regolamentare la relazione tra Residenze e produzione? Se sì, come? In che modo Teatri Nazionali, TRIC, Centri di Produzione possono entrare in relazione con il sistema delle Residenze Artistiche e viceversa?

Un ragionare a partire dalla volontà di costruire ponti in un panorama simile a un arcipelago in cui ogni isola procede secondo propri criteri e regole senza mostrare alcuna inclinazione apparente alla sinergia. Eppure i richiami alle reti è costante e monotono come un mantra.

Prima di esaminare le proposte e le tesi più interessanti emerse dal confronto è giusto rilevare un’anomalia inquietante: i diversi agenti del settore produttivo dello spettacolo dal vivo in Italia non hanno una idea comune di ciò che sia in realtà una residenza artistica. Ci si trova a essere protagonisti della parabola indiana dei ciechi e dell’elefante: ciascuno toccando con mano solo una parte del problema, pensa di esser giunto a conoscerne l’essenza. Insomma si ritorna all’arcipelago d’isole non comunicanti.

Come affermava Confucio quando le parole non corrispondono alle cose lo Stato declina. Cerchiamo di fare un poco di chiarezza se possibile. Innanzitutto il termine Residenza è foriero di equivoci: infatti se è vero che l’artista o le compagnie sono ospitate, per un certo periodo di tempo, in uno spazio e in un luogo, sono anche invitati/e a un viaggio e a un percorso di scoperta, non solo nei/dei processi creativi, ma nei/dei territori medesimi. Nel termine residenza quindi è presente il concetto di stanzialità ma manca il riferimento al nomadismo che ne costituisce il fondamento. Infatti come ricordato dal Vicesindaco e assessore alla cultura del Comune di Rovigo Roberto Tovo, non esiste processo di apprendimento scientifico che non preveda un periodo di studi in altra facoltà o centro di ricerca. Quest’ultima vive un certo nomadismo necessario al proprio espandersi. Con Residenza artistica (sia essa generata da un Centro di Residenza, sia da un progetto di Artisti sul Territorio, e benché quanto detto sia più accentuato nel secondo caso) si individua quindi una pratica mista costituita da movimento e stasi, benché il secondo termine venga dato come implicito. Proprio tale sottintendere genera pregiudizi, confusione e fraintendimenti.

Ciò premesso occorre sottolineare che la Residenza artistica come istituzione non ha scopi né produttivi né distributivi, compiti che devono essere assunti ed espletati da altri attori della filiera. Questo non vuol dire che le residenze non possano essere integrate nel sistema produttivo e distributivo e nemmeno che via sia sottesa una volontà autoescludente generante torri eburnee e riserve indiane. Significa solo la mancanza di funzione, orientata piuttosto verso la formazione e la creazione di un tempo di ricerca artistica in un territorio. Il rapporto che si instaura tra artista, struttura ospitante e territorio deve essere osmotico. Un travaso di esperienze, sensazioni, conoscenze, stimolato dal soggetto ospitante e che deve trovare una risonanza negli altri elementi dell’equazione.

La residenza quindi è un piano di convergenza e di incontro tra forze centrifughe e centripete: proiettato verso l’esterno il lavoro dell’artista, attrattiva verso il proprio centro l’azione del territorio nel suo desiderio/volontà/apertura di farsi conoscere. Un processo di permutazione di esperienze nutritive, un moto espansivo fecondo quanto più i soggetti impegnati sono aperti allo scambio.

Non necessariamente da questo procedimento deve nascere l’opera come prodotto finito da immettere sul mercato. Attraverso la residenza si inizia e si perfeziona un percorso che può portare alla finitezza, ma non la si deve presumere né dare per scontata benché l’intero processo residenziale lo finisca per stimolare. È un tempo di creazione in cui persino nulla può accadere e questo fa parte del rischio insito in ogni procedimento creativo. Se si preferisce invece il linguaggio aziendale oggi tanto di moda in ambito artistico chiamiamolo rischio d’impresa.

Se tali sono gli scopi e le funzioni delle residenze artistiche in quali modi si può integrare tale istituto nel tessuto connettivo del sistema Spettacolo dal vivo in Italia? Innanzitutto si dovrebbe immaginare una partecipazione, anche come semplici osservatori di processi, da parte degli altri protagonisti della filiera: Teatri Nazionali, Centri di Produzione, Tric, festival, circuiti, etc. Un osservare alla ricerca di semi fecondi da far crescere. Non quindi un obbligo a produrre o a distribuire ma un attento esplorare e scrutare i bordi, i confini, gli anfratti della creazione senza lasciarsi dominare l’attenzione dai luoghi consueti e sicuri da cui trarre i propri repertori.

Una seconda possibilità è stata ventilata dal direttore del Teatro Stabile di Torino Filippo Fonsatti, dirottare cioè l’insostenibile compito voluto dal nuovo decreto che designa il prossimo triennio di abitare i borghi fino a cinquemila abitanti, affidato dal Ministero ai Teatri Nazionali e ai Tric, redistribuendo l’onere e le rispettivi parametri e indicizzazioni a coloro che agiscono per natura e vocazione nei territori periferici. Se questa proposta venisse accolta dal legislatore (non prima di tre anni comunque) e quindi si facesse giungere maggiori fondi alle Residenze, non si risolverebbe il problema dell’integrazione dello strumento nella catena produttiva.

Inoltre da rilevare la promessa di Antonio Massena, Presidente della commissione per il teatro del MIC, di provare a equiparare le legislazioni a livello di Stato e Regioni, i cui parametri spesso sono non solo diversi ma opposti. Un caso su tutti quello della Regione Sardegna la quale ha reintrodotto gli Under 35 laddove il Ministero aveva lasciato cadere l’obbligo. Legislazioni in contrasto tra loro non aiutano certo un sistema già in affanno ben prima della pandemia e che ora, dopo due anni difficili, si appresta ad affrontare ancora maggiori difficoltà dovute all’incertezza non solo di recuperare i fondi per continuare le progettualità esistenti ma, in aggiunta, a dover probabilmente affrontare ulteriori emergenze prima fra tutte quella del rincaro energetico.

La sensazione avvertita ogni volta che si affrontano temi volti a semplificare, integrare, migliorare, emendare il sistema o alcune delle sue parti è che quanto più ci si avvicina al centro del potere politico e decisionale più l’immagine delle cose si fa sfocata e confusa, anche qualora si dimostri a parole una certa disponibilità costruttiva. È come se il legislatore e i grandi attori della produzione e distribuzione, di coloro cioè che si ritengono il fulcro nevralgico del sistema solare dello spettacolo dal vivo, in realtà siano la propaggine più estrema dell’impero e che il vero centro sia piuttosto situato in quel campo di asteroidi più o meno piccoli, i quali essendo più vicini alla realtà creativa, sono anche i depositari di una conoscenza più veritiera della realtà.

Manca quindi un ascolto reale da parte della politica e dei grandi soggetti produttivi. È come se alle proposte provenienti dal basso, da quel cuore pulsante e creativo, nascosto nelle pieghe dei territori, si risponda sempre distrattamente o con grandi promesse o con l’allontanare la soluzione dall’orizzonte degli eventi. Le cose sarebbero veramente facili a risolversi. Basterebbe prendere esempio da ciò che avviene all’estero, dalla Catalogna alla Slovenia o al Belgio dove i grandi produttori frequentano le residenze creative. Bisogna insomma che i direttori artistici tornino a vedere dal vivo esplorando i confini dell’impero, valutando le nuove proposte e le nuove idee, e si decidano a promuoverle quando ne vedono l’occasione. Non serve cambiare leggi o crearne di nuove. Basterebbe un poco di buona volontà. Ma come sempre si avverte netta la sensazione che il sistema non lo si voglia cambiare perché in fondo fa comodo che rimanga a compartimenti stagni.

Un ultima riflessione. Le residenze hanno fatto molto in questi anni per far emergere il sommerso, sono state in molti casi dei veri e propri presidi culturali in territori spesso abbandonati dallo Stato, assumendosi funzioni di educazione, formazione, sostegno delle fasce più deboli: anziani, immigrati, adolescenti, portatori di handicap. Certo non mancano anche esempi negativi di sfruttamento dei giovani, carenza di assistenza tecnica e formativa. Casi isolati ma presenti da emendarsi quanto prima. Nonostante alcune pecche le Residenze sono state spesso le uniche possibilità di creazione per molti artisti privi di un luogo proprio di lavoro. Lo strumento è quindi essenziale a dar respiro al sistema facendo emergere linfe vitali altrimenti nascoste e invisibili. Non basta però far spuntare la pianta dal terreno, serve irrigarla e concimarla per farla crescere forte. Tale compito come è già stato detto è affidato al legislatore e agli altri settori della filiera. Sarebbe il caso che costoro si assumessero al più presto la responsabilità e l’onere, prima della siccità incombente, prima che sia troppo tardi.

Rovigo 16 giugno 2022

Sono intervenuti al convegno:

MASSIMO MUNARO, LAURA VALLI e ALBERTO BEVILACQUA (segreteria Artisti nei Territori)

ANTONIO MASSENA (Presidente Commissione Consultiva MiC per il Teatro)

FILIPPO FONSATTI (Presidente Platea e direttore Teatro Nazionale di Torino)

HILENIA DE FALCO (C.RE.A.RE/Centro di Residenza Napoli)

ROSA SCAPIN (Bassano Opera Estate/Residenza AnT)

SILVIA MEI (storica del teatro/Università di Foggia)

FRANCESCA D’IPPOLITO (Presidente CRESCO – Coordinamento Realtà Scena Contemporanea)

FRANCO OSS NOSER (Presidente AGIS Triveneto)

PIERGIACOMO CIRELLA (Teatro Comunale di Vicenza/AnT)

SERENA GATTI (Azul Teatro/Pisa), ALESSANDRO SANMARTIN (Livello 4/Valdagno), CHIARA ROSSINI (Welcome Pro-ject/Torino-Berlino), CIRO GALLORANO (Cantiere Artaud/Arezzo)

Interplay

SPECIALE INTERPLAY: L’AMORE, LA MORTE E IL TEMPO

Il sentiero artistico tracciato da questa 22ma edizione di Interplay, festival della nuova danza guidato con mano solida e sicura da Natalia Casorati, prosegue approfondendo temi da sempre scottanti: l’amore degli amanti pompeiani fuso e immortalato nell’ultimo loro istante dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ispira il duo ideato dal giovane e promettente Adriano Bolognino; da Oriente giunge una morte di bianco vestita raccontata da Nanhee Yook, coreografa sudcoreana di grande spessore artistico che ha già attirato l’attenzione degli operatori, non solo asiatici ma europei; Lorenzo Morandini indaga la possibilità di sfuggire alle definizioni; infine Guy Nader e Maria Campos, esplorano la dimensione rarefatta del tempo con Set of Sets.

Adriano Bolognino apre il programma della terza serata alla Lavanderia a Vapore di Collegno con Gli amanti, un duo di forte impatto visivo ed emozionale. Le danzatrici Rosaria Di Maro e Giorgia Longo interpretano una coreografia che prova a immaginarsi la vita degli amanti pompeiani nel tempo precedente l’attimo in cui i loro corpi diventano una scultura fusa dalla violenza delle ceneri incandescenti del vulcano. Il movimento oscilla tra due poli: da una parte le pose plastiche in cui i corpi quasi si cristallizzano in figure di bassorilievo, e momenti in cui la danza si scioglie in gesti a volte fluidi, più spesso con accelerazioni contrapposte frenate improvvise, in cui la vita degli amanti si manifesta in una tensione verso l’altro più che in un afflato erotico. L’emozione che scaturisce da questo fluttuare tra la staticità statuaria e l’accelerazione-decelerazione riguarda più la compassione, nel senso proprio di patire insieme, nel vivere insieme a quei due corpi, l’amore privo di qualsiasi risvolto terreno di chi si approssima alla morte, un amore assoluto rappreso e irrigidito nel suo ultimo istante. La musica scelta, caratterizzata da un’atmosfera ieratica e solenne, ci spinge in questa direzione: lontano dalle braccia di Afrodite verso quelle di Persefone.

Rosaria di Maro e Giorgia Longo in Gli amanti di Adriano Bolognino

Se Adriano Bolognino coglie l’amore che precede la morte, la coreografa coreana Nanhee Yook ci immerge nell’atmosfera luttuosa che accompagna sempre il suo passaggio tra i viventi. Il titolo del suo pezzo breve, Talk about death, non lascia adito a dubbi, così come il bianco dei costumi considerato nelle culture orientali il colore del lutto. La morte non è presente come elemento traumatico, piuttosto si indaga la malinconia, il ricordo, ciò che rimane di una presenza. La morte è dunque vista nel suo essere un momento nel flusso delle vite, un processo di trasformazione e di passaggio, non un termine ultimo, benché in chi resti permanga una sensazione costante d’assenza e di mancanza.

Lorenzo Morandini porta in scena Idillio, un breve solo incentrato sulla volontà di inventare nuove parole e nuovi significati. I gesti vogliono provare a essere altro rispetto al consueto, la danza tenta di sfuggire alla tradizione culturale che le preesiste. Il risultato di tali tensioni rimane incerto. Non si riesce a percepire una vera fuga, quanto piuttosto un permanere in un’orbita da cui non si riesce a sfuggire. Non si scappa mai alla propria cultura. Si può al limite tentare di cambiare le regole del gioco ma solo quando si conoscono perfettamente le regole. Si può variare il canone solo nel momento in cui si è padroni del canone. Idillio di Lorenzo Morandini non riesce quindi del tutto nel suo intento proprio perché ricade nello stereotipo da cui cerca di fuggire: gesti e atteggiamenti partono dal noto, ma non riescono quasi mai a raggiungere terre sconosciute.

Al Teatro Astra incontriamo Guy Nader e Maria Campos, coppia artistica consolidata e affermata anche nel nostro paese. Set of sets è un pezzo di insieme ipnotico e suggestivo incentrato su un’immagine del tempo come ritorno e ripetizione. Ciò che si dipana davanti ai nostri occhi è una sorta di planetario in cui i corpi dei danzatori costruiscono orbite e attrazioni gravitazionali in perpetua traslazione nello spazio.

Questo complesso meccanismo di rotazioni, rivoluzioni, ripetizioni e variazioni costruisce complicati congegni di precisione in cui i movimenti dei danzatori, anche quando apparentemente casuali, definiscono con precisione la meccanica. Davanti ai nostri occhi si materializzano orologi cosmici formati da corpi in continua interazione. Il tempo non appare mai lineare, cronologico, quanto piuttosto una spirale in perpetua evoluzione tra il pendolo del ritorno dell’uguale e il mistero quantistico della simultaneità.

La musica, eseguita in scena dallo stesso compositore Miguel Marin, è una multiforme tessitura di loop elettronici e sampling su cui si innestano i ritmi della batteria. La trama sonora è il battito su cui si vengono a formare i sistemi planetari, il disegno ritmico di campi di asteroidi in perenne fuga e attrazione reciproca. I corpi ruotano su se stessi, su e con gli altri corpi: si scontrano, si accarezzano, rimbalzano come palline di un biliardo. Se il tempo è il protagonista primario, l’antagonista è di certo la gravità da cui la danza cerca perennemente di sfuggire. I volteggi acrobatici, i corpi lanciati e catturati quando sembrano destinati a una rovinosa caduta, sono una aperta sfida all’attrazione gravitazionale. La tensione tra la fuga e l’inevitabile ricaduta è la vera fascinazione di quest’opera complessa e ipnotica.

Interplay

SPECIALE INTERPLAY: UN VIAGGIO TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE

Seconda serata di Interplay, Festival della nuova danza di Torino, diretto da Natalia Casorati, questa volta in scena alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Il programma spazia tra Italia, Israele e Spagna, mostrando lavori che in qualche modo si posizionano sul confine tra innovazione e recupero della tradizione.

Si inizia con Jacopo Jenna con Alcune coreografie, lavoro in cui spicca un grande disegno drammaturgico volto a unire il linguaggio coreografico con il video e la partitura musicale. Alcune coreografie ricorda da vicino l’opera di Christian Marclay The Clock (2010) vincitore del Leone d’oro alla Biennale di Venezia. Se nel lavoro dell’artista svizzero, della durata di ventiquattro ore, si assisteva a un montaggio accuratissimo di immagini cinematografiche in cui protagonista indiscusso era il tempo nel suo scorrere ritmato da frammenti in cui ogni minuto della giornata era evidenziato da un orologio indicante ore e minuti in successione, montaggio intessuto su una partitura costituita di campionamenti e remix, nella coreografia di Jacopo Jenna, vediamo un incastonarsi di schegge e pillole di danze che perfettamente si incastrano e dialogano con ciò che la danzatrice esegue sulla scena.

La coreografia segue il montaggio video e traspone in un flusso innovativo ciò che le immagini, tratte da ogni genere di manifestazione danzata, colta o popolare, etnica o folclorica, spontanea o studiata, propongono alla visione dello spettatore continuamente portato a confrontare video e performance dal vivo. Così Pina Bausch, Trisha Brown o Merce Cunningham si alternano a Micheal Jackson, alla Haka degli All Blacks, i salti dei Maasai, il musical, le danze egizie di May Wigman, semplici video di You Tube in cui persone normali danzano prese dall’emozione.

Ramona Caia in Alcune Coreografie di Jacopo Jenna

Se l’opera si limitasse a questa carrellata video e al suo corrispettivo coreografico dal vivo, non sarebbe niente di più che un grande lavoro di montaggio. Tutto questo materiale non si limita a mostrarsi ma racconta un evoluzione di vita e morte e rinascita, di comparazione tra umano, animale e inanimato. Ogni cosa danza e manifesta il canto della vita a fronte della sua caducità. L’ultimo sguardo della danzatrice Ramona Caia, rivolto agli spettatori, lascia a noi la prossima mossa. Un invito a danzare la nostra coreografia.

Non solo. Ci troviamo di fronte anche a un confronto tra tradizione e innovazione, dove appare evidente che gli stimoli alla composizione possono venire da qualsiasi genere e materiale possibile, e come il calco genera sempre uno scarto dall’originale, un passaggio di testimone, una diffusione di stimoli che partorisce nuove forme a partire dalle vecchie. Un tema questo estremamente attuale in un periodo storico in cui sembra si sia formata una cesura tra le vecchie e nuove generazioni di artisti interrompendo parzialmente quel passaggio di tecniche e idee compositive donato da una generazione all’altra con il compito di apprendere e poi variare il canone ricevuto.

Altro tipo di confronto con la tradizione si assiste nel duo a firma Gil Kerer dal titolo Concerto per mandolino e orchestra in do maggiore di Vivaldi. Lo stesso Gil Kerer in coppia con Lotem Regev danzao il famoso concerto del Prete Rosso innestando sulla partitura ritmica della musica, una coreografia molto delicata seppur energica ed estremamente dinamica, fatta di sguardi e relazioni tra i due danzatori intervallati da momenti comici. Tra un movimento e l’altro infatti vi sono delle pause per riprendere fiato, sostenersi l’un l’altro nella fatica, bere acqua, momenti di autoironia in cui traspare tutta la fatica del danzare.

I due danzatori ci raccontano a parole, a modo loro, l’idea di base del concerto di Vivaldi volta a esaltare la difficile presenza del mandolino nell’orchestra. Strumento estremamente dolce e morbido, per esaltarsi in un ensemble orchestrale deve essere accompagnato per lo più dagli archi, dove quest’ultimi sono al servizio, come in ascolto, per permettere al loro compagno colmo di una poesia magica ma dalla voce flebile di poter apparire in tutta la sua forza espressiva. Un lavoro breve ma denso la cui essenza è costituita da un confronto sano e ironico con la tradizione sia danzata che musicale, proiettata non verso il passato, ma verso il futuro. L’opera è esaltata quindi da una drammaturgia pronta a parlare della delicatezza e del rispetto con cui andrebbero intessuti i rapporti umani affinché ciascuno possa far sentire la propria voce per quanto sommessa.

Gil Kerer e Lotem Regev in Concerto per mandolino e orchestra di do maggiore di Vivaldi

Chiude la serata il duo spagnolo formato da Carla Cervantes Caro e Sandra Egido Ibanez con il loro pezzo breve dal titolo Cuando somos. I corpi delle due danzatrici si fondono in unico essere ibrido formato da due entità distinte ma cooperanti. Una continua generazione equivoca in cui esseri intrecciati diventano insetti, creature mitologiche e favolistiche degne di apparire nei migliori bestiari medievali. Una visione del corpo che spinge a immaginarne di non convenzionali per ammirarne la meraviglia inaspettata e sorprendente. Un gioco di incastri, non solo ben studiato, ma poetico e ipnotico insieme.

Questa seconda serata di Interplay ci conduce dunque verso una esplorazione ragionata ed emotiva allo stesso tempo attraversando non solo il binomio tradizione e innovazione, ma soprattutto a volgere le nostre riflessioni sulla natura fragile dei rapporti umani da costruirsi con poeticità, delicatezza, decisione e ascolto estremo. Un secondo appuntamento perfettamente dosato in cui le tematiche e le tecniche si confrontano senza mai appesantire l’occhio dello spettatore. Una soireé che ci fa guardare, una volta tanto, con ottimismo al futuro dell’arte coreutica.