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Tatiana Pavlova: dalla Russia con ardore

|ENRICO PASTORE

Tatiana Pavlova, esule russa (oggi diremmo ucraina essendo nata nel 1890 a Ekaterinoslav sulle rive del Dnepr), è stata la miccia che causò non pochi cambiamenti nel nostro teatro ancorato, negli anni’20, ai mattatori, ai grandi artisti solitari circondati da gregari, un teatro molto distante dalle rivoluzioni nel campo della messinscena e del lavoro sull’attore che avvenivano in altri paesi europei, Russia, Francia e Germania in testa. Ma prima di parlare delle riforme messe in moto da Tatiana Pavlova nel nostro paese, cominciamo con la sua formazione, passo fondamentale per capire la portata dei cambiamenti di cui fu fautrice.

Come lei tenne a specificare la sua famiglia: «non ha mai avuto a che fare con l’arte, mai nessuno degli avi più lontani, né da parte di mio padre, né da parte di mia madre». La sua fascinazione per il teatro nasce a scuola, dove vede i primi spettacoli, cui vuole partecipare ma viene sempre scartata perché considerata non all’altezza. Questi rifiuti anziché placare il suo desiderio, lo stimolano. Crea recite in casa con i suoi fratelli e poi all’età di otto anni comincia a frequentare il teatro cittadino e, dopo aver imparato i monologhi a memoria, li prova in casa per se stessa.

Raggiunta l’adolescenza, siamo nel 1905, anno chiave nella storia di Russia per lo scoppio dei primi moti rivoluzionari, avviene finalmente per lei l’incontro che le cambierà la vita. In città arriva la compagnia di Pavel Nikolaevič Orlenev, per recitare I fratelli Karamazov. Tatiana ne è così impressionata da chiedere un incontro con il grande attore. Quest’ultimo è un professionista di grande talento ma dal carattere difficile pronto a dissiparsi in continui eccessi eppure capace di adottare in modo autonomo un metodo simile a quello di Stanislavskij. Non bisogna dimenticare, e questo vale anche per la stessa Pavlova, che non necessariamente bisogna essere stati allievi del maestro per assaporare l’aroma del suo metodo. Le grandi idee si diffondono, si espandono dal centro di emanazione e senza paura di commettere un errore documentario e storico si può facilmente adottare il principio antropologico della diffusione di stimoli, secondo il quale appunto le idee e le pratiche viaggiano nelle parole e nei corpi degli attori a una velocità diversa e indefinibile, attraverso variazioni e differenze.

Orlenev mantiene la parola e parla con i genitori di Tatiana i quali però nicchiano e rimandano a un futuro da definirsi. La ragazza è impaziente e scappa di casa raggiungendo la successiva tappa della tournée della compagnia. Qui viene inseguita dalla madre che la riporta a casa, ma Tatiana scappa una seconda volta. La madre la raggiunge ancora ma lei parte con l’Orlenev per la Siberia. L’attore scriverà un telegramma ai genitori affermando che la ragazza ha del talento e ne varrà la pena.

Così comincia il suo duro apprendistato teatrale secondo i principi del metodo di Orlenev. Il sistema adottato prevedeva tre fasi denominate: cervello, cuore e bocca. Innanzitutto l’attore doveva studiare, non solo il copione, ma l’intera opera del drammaturgo e persino l’epoca storica e le usanze del paese d’origine (per mettere in scena Ibsen, Orlenev andò a vivere addirittura in Norvegia per comprendere l’ambiente dei drammi); a questo si aggiungeva un’analisi puntigliosa del personaggio da tutti i punti di vista. A questa fase ne seguiva una più profonda e ardua: entrare nella sensibilità del personaggio, trovare nel proprio animo gli ancoraggi dove fare aderire la personalità da interpretare. Ultima: la ricerca di gesti, modalità, intonazioni capaci di proiettare all’esterno verso lo spettatore tali sentimenti animando la parola scritta, facendola vivere. Tutto questo non passava necessariamente attraverso la verità. Tatiana Pavlova racconta su questo punto un aneddoto interessante: «Durante lo spettacolo, piansi finché potei, con lacrime vere perché quella era la mia parte, ma lui mi si avvicinò dicendo che le mie lacrime non arrivavano neanche alla ribalta. Erano lacrime vere, ma aveva ragione lui le lacrime vere non arrivavano, devono essere lacrime di artista capace di farle sentire e soprattutto di indirizzarle».

Nonostante questo per Orlenev l’interpretazione passava attraverso una riviviscenza, per: «un logorio dello spirito che si traduce in una vera e profonda sofferenza fisica». Queste parole di Tatiana fanno capire come l’Orlenev volesse dall’attore un recupero interiore dei sentimenti propri del personaggio e che tali dovessero coincidere con quelli dell’interprete, il quale doveva essere in grado di manovrarli con la tecnica affinché non venisse sommerso tanto da soccombere. Era una forma recitativa in cui si miscelavano, in un equilibrio sempre da riformulare, abbandono e controllo.

Un altro punto fondamentale del processo artistico e creativo di Pavel Orlenev era l’organicità dell’insieme degli attori i quali, condividendo un metodo, dovevano recitare insieme in un’atmosfera comune. Tale approccio era diffuso in Russia in tutti gli ambienti d’avanguardia, fosse il Teatro d’Arte di Mosca o il Teatro Drammatico di Vera Komissarievžskaija, oppure in seguito gli esperimenti di Vachtangov, Tairov o Mejerchol’d. Questa coerenza interna della compagnia sarà uno dei portati principali di Tatiana Pavlova al teatro italiano.

Il sodalizio con Orlenev dura fino al 1910 quando Tatiana decide che è il momento di fare altre esperienze anche se per il suo maestro nutrirà sempre grande ammirazione e rispetto. Nel 1911 la troviamo dunque attrice al Teatro Drammatico di Mosca. Allo scoppiò della rivoluzione, avendo un passaporto Montenegrino, come straniera riesce ad espatriare, prima a Istanbul, e in seguito a Parigi. Nella capitale francese non trova l’ambiente teatrale che si potesse adattare a lei e decide di trasferirsi in Italia giungendo a Torino nel 1919.

Non conoscendo la nostra lingua all’inizio lavora per i film muti. Torino all’epoca ospitava, sulle rive della Dora, gli studi della Ambrosio Film, la prima casa di produzione cinematografica italiana e una delle prime al mondo, in un bel edificio industriale liberty (oggi inspiegabilmente in totale abbandono dopo aver ospitato per decenni il Teatro Espace, diretto dalla famiglia Bergamasco). La Ambrosio film divenne famosa in Europa non solo per le comiche di Robinet e di Fricot, non solo per il lancio del genere Peplum di cui Gli ultimi giorni di Pompei (1908) sono il capolavoro indiscusso della casa di produzione, ma soprattutto per i film dannunziani come La Gioconda degli Olivi e La fiaccola sotto il moggio (1916), La nave (1921) e soprattutto per Cenere (1917), unica interpretazione di Eleonora Duse sulla sceneggiatura di Grazia Deledda. Per la Ambrosio Film Tatiana Pavlova girerà alcuni film muti diretti da Aleksandr Ural’ski tra cui L’orchidea fatale e La catena del 1920 e Nella morsa della colpa (1921).

Durante questa attività cinematografica Tatiana non smette di pensare al teatro ma prima di cimentarsi sulle scene italiane deve impararne la lingua. I suoi insegnati saranno Armando Falconi, Cesare Dondini, direttore del Santa Cecilia di Roma e l’attore Tullio Germinati il quale reciterà al cinema con Visconti, Rossellini e Renè Clair. Ad aiutarla in questa fase di adattamento e di lancio nel panorama teatrale italiano è affiancata da Jakov L’vov, un avvocato e impresario, che seppe prima presentarla a Giuseppe Paradossi, membro di uno dei più grandi consorzi di teatrali e di distribuzione, e poi affiancandola per limare le asprezze del carattere e l’incertezza nella lingua. L’vov sarà fondamentale anche per la venuta in Italia del Gruppo Praga, formato dai transfughi del Teatro D’arte di Mosca in esilio tra cui figurerà il regista Šestov di cui si parlerà in seguito.

Nonostante tutti gli sforzi Tatiana Pavlova non perderà mai l’accento russo che sempre la caratterizzerà nel bene e nel male (Pirandello non la sopportava mentre D’Annunzio ne lodava il fascino) e, forse, non volle mai perderlo, per mantenere un tratto caratteristico ed esotico. Nel 1923 si sente pronta quindi a fondare una propria compagnia che debutterà al Teatro Valle con Sogno d’amore di Korosotov.

Nel lavoro con la sua compagnia unisce in sé il doppio ruolo di attrice e regista benché la parola in Italia non solo non era usata, ma mal se ne comprendeva la funzione e l’utilizzo. Sarà solo nel 1931 che il critico Enrico Rocca della testata Il lavoro fascista utilizzerà il termine proprio in rapporto a un lavoro della Pavlova.

Tatiana apporta nel lavoro di compagnia le prassi imparate da Orlenev e nei teatri di Mosca spiazzando gli attori italiani abituati a ben altre pratiche. Innanzitutto il lavoro si svolgeva in tuta, studiando l’intero copione e analizzando i personaggi. Oltre allo studio collettivo si univa un training fisico con esercizi di respirazione. Tatiana applica con qualche modifica il metodo cervello-cuore-bocca di Orlenev insieme alla vulgata stanislavskiana probabilmente appresa a Mosca. Utilizza tutti i linguaggi scenici (le luci soprattutto a sottolineare i momenti chiave e i cambi di atmosfera) per dare profondità allo sviluppo attraverso una organica composizione scenica. Inoltre abolisce la buca del suggeritore e gli applausi a chiamata limitando i ringraziamenti, anch’essi comunitari, alla fine dello spettacolo e caratterizzati da un semplice chinare del capo.

La critica italiana, soprattutto Silvio D’Amico, si accorge della novità. La recitazione si fa più intensa, veritiera. Lo spettacolo risulta più organico e compatto, dove gli attori si amalgamano in un ascolto e tensione costanti. Il testo risulta più profondo e la vicenda più avvincente e commovente. Per la scena italiana è una vera rivoluzione ancora dominata dalle grandi figure di mattatori e da un lavoro concepito in solitaria, dove le prove servono solo per concertare l’azione comune, le entrate e le uscite. Così scrive Sandro Paparatti nel 1975: «Tatiana Pavlova è stata colei che ha dato nuova vita al teatro italiano, colei che ha portato una ventata di novità […], colei che diede all’attore non solo la parola, ma l’anima, il movimento, il cuore, la libertà di esprimere se stesso, pur mantenendo per il testo e per l’autore il massimo rispetto».

Ogni innovazione richiama su di sé gli strali dei detrattori e i peana dei fautori. Di certo Tatiana Pavlova fa rumore e riscuote successo. La sua compagnia alterna testi classici russi a contemporanei italiani privilegiando Bontempelli, Rosso di San Secondo, Ugo Betti, Sulla nuova drammaturgia mantiene una posizione che ancora oggi avrebbe qualcosa da insegnare ai direttori artistici dei teatri stabili: «Non è meno diffusa, né meno sbagliata, l’idea che un lavoro, per essere rappresentato, debba contare o sulla notorietà del nome dell’autore, o sull’importanza delle raccomandazioni o della posizione sociale: e sono persuasa che a un ingegno originale le porte del teatro sono assai facilmente aperte. E come siamo tutti felici allorché ci troviamo di fronte a un lavoro che appassiona e si impone, dovuto a un autore ancora ignoto, il quale è destinato a salire, un bel giorno, ad alta fama».

Tra i meriti di Tatiana Pavlova vi è anche l’umiltà di chiamare altri registi a dirigere la propria compagnia, allargando così gli strumenti a disposizione per sé e per i suoi attori. Prima collaborazione con il finnico Strenkowski che dirige il grande successo di Resurrezione di Tolstoj che riceve dal pubblico ben diciotto chiamate d’applausi ed è salutato dalla critica come il successo dell’anno. Poi è la volta di Šarov del Gruppo Praga, e poi di Evreinov. In seguito Tatiana Pavlova chiama in Italia Vladimir Nemirovič-Dančenko, fondatore insieme a Stanislavskij del Teatro D’Arte di Mosca il quale dirigerà tra il 1932 e il 1934 Il valore della vita, scritto da lui stesso, Il giardino dei ciliegi secondo il carteggio con Čechov e quindi riportando nell’opera l’atmosfera di commedia, contrariamente alla regia di Stanislavskij, e La gatta di Rino Alessi. In seguito Nemirovič-Dančenko preparerà la Pavlova per la parte di Mirandolina ne La locandiera diretta da Guido Salvini.

Questi inviti rafforzeranno l’influsso della scuola russa in Italia rivoluzionando completamente il modo di recitare e gestire uno spettacolo, oltre a consolidare l’istituto della regia il cui ruolo non è quello del dittatore che impone agli attori la propria visione ma, secondo le parole dello stesso Nemirovič-Dančenko, ripetute più volte da Pavlova, di colui che aspira a: «ottenere che gli attori siano convinti di aver fatto tutto da sé».

I meriti e le collaborazione di Tatiana Pavlova sono innumerevoli sia nel teatro, nel cinema, nell’opera (dove lavora con i cantanti come se fossero attori di prosa) e nelle prime regie teatrali televisive per la RAI. Tra questi contributi non dimenticheremo l’attenzione dedicata alla pedagogia. Tatiana Pavlova è stata infatti, insieme e su invito di Silvio D’Amico, fondatrice dell’Accademia d’arte drammatica di Roma. Insegno dal 1935 al 1938 unendo le classi di recitazione e di regia in modo che gli allievi potessero provare quando avevano appreso. Per far questo rifiutava di stare agli orari e i suoi studenti, ammaliati dal suo sistema di insegnamento, disertavano le altre classi. Questo fu causa di attrito con Silvio D’Amico che nel 1938 la costrinse a dimettersi lanciandole accuse di anti-italianità.

Da questo momento inizia una sorta di declino scenico per Tatiana, nonostante avesse sposato Nino D’Aroma, biografo di Mussolini e direttore dell’Istituto Luce. La sua azione si dirigerà soprattutto verso l’opera lirica e il teatro televisivo. Una volta ritiratasi dalle scene continuerà a insegnare a Firenze al Piccolo Teatro.

Tatiana Pavlova fu un turbine nel sostanziale immobilismo delle scene italiane tra il 1920 e lo scoppio della Seconda Guerra. Certo c’erano le eccezioni: Petrolini, i Futuristi, Anton Giulio Bragaglia, i De Filippo, ma la consuetudine vinceva sulle novità che all’estero erano già comunemente indagate. Tatiana Pavlova ebbe però l’intelligenza di comprendere lo spirito di un paese ancora pieno di forze artistiche di grande livello e di cogliere l’aspetto più importante della cultura italiana: il connubio dello sperimentalismo con la tradizione. Certo questo si potrebbe dire di qualsiasi cultura ma forse in Italia tale aspetto è più accentuato a causa di un passato ingombrante e impossibile da ignorare. Tatiana Pavlova lo comprese e avviò una riforma percepita da pubblico e critica a volte come irruente a volte come gentile, ma di certo ferrea nella sua applicazione. In questo aspetto vanno forse ricercate le ragioni del suo successo oggi purtroppo parzialmente dimenticato nonostante le pubblicazioni anche recenti su di lei.

Ancora oggi la questione è costantemente dibattuta ma forse andrebbero mutati i termini: ogni sperimentazione si innesta in una tradizione. I due aspetti sono complementari e inscindibili. Tatiana Pavlova ne era consapevole e lo dimostra in questa sua dichiarazione: «nel cuore e nel genio di questi due artisti (Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko ndr.) il metodo è nato, o meglio rinato, dall’esperienza dei loro predecessori: e chi troviamo al posto di codesti predecessori? Lo ha dichiarato Stanislavskij in persona: un italiano, quello che l’Europa acclamò forse come il più grande attore dell’Ottocento, Tommaso Salvini».

Hanako

Hanako: il fascino della morte esotica

|ENRICO PASTORE

Hanako nacque con il nome di Hisa Ota in un piccolo villaggio nel Giappone centrale il primo anno dell’era Meiji ossia il 1868. La sua seconda nascita fu tenuta a battesimo da Loie Fuller in un albergo di Copenaghen nel 1901 dove era giunta rocambolescamente a seguito di una troupe di artisti nipponici senza aver mai prima calcato le scene.

Ecco come avvenne la sua seconda nascita raccontata dalla stessa Fuller: «Vennero tutti a salutarmi nel mio albergo e recitarono non so quale brano del loro repertorio. Scorsi allora, in mezzo agli attori, una dolce giapponesina che avrei volentieri consacrato prima attrice della compagnia. Ma per questi nipponici le donne non contavano e tutti i grandi ruoli erano realizzati da uomini. Tuttavia io avevo notato solo lei. Recitava un ruolo di terzo piano, è vero, ma con una intelligenza, con delle moine così divertenti, da topolino trotterellante. […] Quando la prova fu terminata riunii gli attori e dissi loro: se volete restare con me bisogna che mi obbediate. E se non prendete questa piccina come prima attrice non avrete alcun successo. E poiché ella aveva un nome impronunciabile, la battezzai seduta stante Hanako».

Il racconto della Fuller, allora impresaria di Sada Yacco, ci lascia intravedere alcuni aspetti interessanti: da una parte la grande abilità di impresaria di Loie Fuller nel saper fiutare il talento laddove nessuno era in grado di scorgerlo e, in secondo luogo, la sua capacità di spazzar via con un battito di ciglia l’intera tradizione giapponese che non conosceva, come la ignorava il pubblico e la critica. Loie vide in Hanako, così come aveva visto in Sada Yacco, la futura diva, la vedette esotica da mostrare allo spettatore europeo, e soprattutto francese, annoiato e sempre alla ricerca di succose novità ovunque queste provenissero. Da ultimo Loie sapeva che Hanako era portatrice di una femminilità e sensualità esotica che avrebbe elettrizzato il pubblico borghese.

Questi elementi furono fondamentali non solo per il successo di Hanako e Sada Yacco ma anche per Josephine Baker, la danzatrice nera che fece impazzire Parigi e la Francia. Il mondo dello spettacolo all’inizio del Ventesimo secolo scopriva il divismo e annesso a questo la potenza dei media di comunicazione, della stampa, della fotografia, che moltiplicavano le attese, le aspettative, i desideri. Tutto questo era amplificato dal mistero che aleggiava su tutto ciò che proveniva dall’Estremo Oriente di cui, allora, come per altri versi anche oggi, poco o nulla si sapeva.

Per comprendere appieno la capacità di Loie Fuller di spargere notizie ad arte (oggi le chiameremmo fake news) a fini pubblicitari e per aumentare le aspettative del suo potenziale pubblico ecco due episodi che ci aiutano a capire le strategie messe in atto dall’impresaria americana. Il primo riguarda Sada Yacco e su un suo presunto incontro a Buckingham Palace con la regina Vittoria al suo arrivo a Londra nel 1900. Secondo la stampa francese la Regina chiese se potesse fare qualcosa per l’attrice che l’aveva tanto impressionata e Sada Yacco rispose se potesse intercedere presso l’imperatore del Giappone pregandolo di concedere anche alle donne il diritto di andare in scena. Peccato la legge fosse già stata promulgata nel 1891! Quindi certamente la notizia arrivò ai mezzi di informazione da una fonte interessata a spargere una notizia falsa ma succosa.

Anche ad Hanako successe qualcosa di simile. Alla fine della prima tournée Hanako non tornò in Giappone ma si fermò ad Anversa. Qui la storia prende due strade diverse. La prima più veritiera racconta che Hanako non volendo tornare in Giappone dove da donna sola e abbandonata dal marito non avrebbe trovato una situazione stabile, cantò e danzò in un locale di cui in seguito acquistò la proprietà. Dopo questo passo cercò di costruire una compagnia con dei connazionali per sfruttare il successo ottenuto con la Fuller e ancora nelle menti degli spettatori. Dopo aver girato per l’Europa rimase senza soldi e chiese aiuto all’impresaria e amica americana che le offrì un secondo contratto.

La seconda storia raccontata dalla Fuller ci dipinge ben altro quadro. Hanako era stata presa in ostaggio da un connazionale che la sfruttava come ballerina e cantante per intrattenere rozzi marinai nel porto di Anversa. Hanako disperata chiese aiuto all’amica la quale inviò subito nelle Fiandre un connazionale che la liberò con sotterfugi dalle grinfie del losco oste e la riportò in treno a Parigi dove giunse povera e bisognosa. Ora il racconto è evidentemente fasullo e in realtà la Fuller pentita di aver lasciato andare troppo presto un’attrice di tanto talento, inviò al ristorante di Anversa la sua segretaria e Kaoru Yoshiwara, ex-attore e interprete. Kaoru non solo convinse Hanako a firmare nuovamente un contratto con la Fuller e a vendere il ristorante, ma divenne anche suo marito. Tutto questo ci racconta semplicemente come all’inizio del secolo le migliori menti dello spettacolo sapevano già sfruttare i media inventando notizie che potessero in qualche modo smuovere il pubblico. Tali strategie non solo le usò la Fuller, ma Marinetti, pubblicando il Primo Manifesto su Le Figaro e inventando forme di pubblicità occulta e ingannevole, e Tzara che per la sua prima serata dada parigina inviò alla stampa la notizia della certa presenza di Charlie Chaplin!

Dopo questa parentesi torniamo a Hisa Ota in arte Hanako. Come giunse in Europa? La sua infanzia e prima giovinezza è costellata di abbandoni. La sua famiglia la cedette a balia a Nagoya non potendo permettersi di mantenerla per i debiti del padre. In questa seconda famiglia fu addestrata alla danza e a suonare il Koto, una piccola arpa. Anche il secondo padre si indebitò per le scommesse e Hanako fu venduta a una compagnia di danzatrici girovaghe che attraversavano il Giappone centrale a piedi. Lasciò presto la compagnia e tornò a Nagoya dove si affiliò a una casa di geishe. Qui fu notata da un anziano costruttore che ne pagò il riscatto e la sposò. Era un uomo violento e autoritario e per Hanako non fu semplice. L’uomo però quando Hanako si innamorò di Azushima, un giovane intermediario di affari di Kyoto, la lasciò libera concedendole il divorzio, purché abbandonasse la città. La coppia partì per Yokohama, il porto aperto dagli americani al commercio con il Giappone nel 1859. Qui Azushima, finiti i soldi, fu richiamato dalla famiglia, e senza scrupolo abbandonò l’amante senza alcun sostegno. Hanako non potendo, e non volendo, tornare alla vecchia vita si imbarcò verso l’Europa con una compagnia di artisti, che dopo una tappa a Londra raggiunse la Danimarca dove fu scoperta da Loie Fuller.

Da questo momento in avanti la sua storia artistica non diverge molto da quella di Sada Yacco. Le sue performance, su testi giapponesi rivisti e riscritti secondo il gusto europeo da Loie Fuller, si basavano principalmente sulle sue famose morti in scena. A partire da La Martyre, passando Un drama au Yoshiwara, Poupèe Japonaise, La petit Japonaise e L’Ophélie japonaise, il sodalizio con la Fuller durò quasi ininterrottamente dal 1905 al 1914, attraversando tutte le migliori piazze europee e non solo. Fu ammirata da Isadora Duncan e Eleonora Duse, ma fu disprezzata da Gordon Craig, il quale non aveva risparmiato critiche nemmeno a Sada Yacco: «Hanako ci ha fatto credere a un mucchio di bugie, Lei e tutta la sua tribù ci hanno imbrogliato con l’orribile convinzione che tutto ciò che vogliamo sia il suicidio… Non lasciate che in Europa si pensi che lei e il suo modo di rappresentare in ogni più piccolo dettaglio riflettano l’arte del teatro d’Oriente. Non rappresenta il Giappone più di quanto il disegno sulle pagine centrali dell’Illustrated London News rappresenti l’antico spirito dell’India».

Una stroncatura senza appello. Gordon Craig pensava inoltre che le attrici giapponesi degradassero un’arte teatrale condotta ai massimi livelli per secoli dagli uomini, cosa per altro falsa, in quanto per secoli le donne ebbero una parte fondamentale in alcune forme spettacolari legate allo sciamanesimo e la danzatrice Okina fu la fondatrice leggendaria del teatro Kabuki. La questione però è quanto si intendesse Gordon Craig di teatro giapponese per esprimersi in questi toni. In verità non vide mai dal vivo uno spettacolo tradizionale nipponico. Tutto quello che sapeva veniva dai libri. E per questo gli sfuggì un tratto peculiare della cultura giapponese portato in scena sia da Sada Yacco sia da Hanako: la capacità di stratificare la propria tradizione con gli influssi provenienti da altre culture. Per secoli il Giappone è stato una fucina di reinvenzione di tradizioni importate dalla Cina o dalla Corea, a partire dalla scrittura, la religione, la pittura, il design. Il teatro non fece differenza. Il Nō, il Kabuki o le danze Buyo (quelle delle geishe per intendersi) incontrarono l’Occidente, utilizzarono tali elementi sovrapponendoli ai propri ma senza snaturarne i principi fondamentali.

Quello che non riusciva a comprendere Gordon Craig è che Hanako, inconsciamente e naturalmente, agì come fecero molti suoi connazionali usando le tecniche tradizionali adattandole al nuovo contesto. Non per questo erano meno giapponesi. Tutto questo è particolarmente evidente nell’incontro con Rodin, avvenuto a Marsiglia, sempre per tramite di Loie Fuller, durante l’Esposizione Coloniale del 1906, dove il grande scultore si era già innamorato delle danzatrici cambogiane. Da questa conoscenza scaturì una profonda amicizia durata negli anni.

Rodin in quel periodo era interessato a catturare il movimento nella danza. Di Hanako vide La Poupèe, la storia di una moglie gelosa dell’attenzione amore del marito verso le bambole da lui costruite. Dopo averlo scacciato di casa, un cliente entra nel negozio per cercare una bambola. L’unica che desidera è la più amata dal marito. La moglie la vende ma, pentita, si sostituisce alla bambola. Il marito tornato a casa e scoperta la vendita uccide la moglie. Rodin si innamorò dell’attrice Hanako e del suo modo straniante seppur iperrealistico di recitare e le chiese di posare per lui. Fu il soggetto più lavorato dal maestro in ben più di cinquanta maschere, oltre ai disegni e ai bozzetti. Da queste maschere, ottenute con ore e ore di posa estenuanti, per la difficoltà di mantenere le espressioni, si può intuire che ciò che per Rodin erano sentimenti ed espressioni reali impressi nel corpo, per Hanako erano i Mie, le pose tipiche del Kabuki. Un Mie, secondo la definizione che ne dà Savarese: «è un’espressione stilizzata dell’attore che culmina in una posa di tutto il corpo; enfatizza l’umore del personaggio in un dato momento del dramma, attraverso una particolare espressione del volto dopo aver mosso il torso e i fianchi».

Hanako dunque utilizzava le tecniche del Kabuki per rappresentare i sentimenti del proprio personaggio, e questo non stupisce perché nel cosiddetto mondo fluttuante, l’universo artistico giapponese, gli attori Kabuki e le geishe vivevano a stretto contatto. In origine addirittura condividevano la stessa arte. Tale vicinanza fu subito proibita dallo shogunato in quanto fautrice di disordini tra il pubblico.

Per gli Occidentali e per lo stesso Rodin, le espressioni di Hanako erano intese come l’affiorare di veri sentimenti attraverso il corpo. Niente di più lontano dal vero. Erano gesti stranianti ottenuti mediante lo studio del vero. Erano maschere in movimento. Ciò avviene in gran parte della cultura giapponese. Pensiamo ai bonsai: sono alberi veri ma non sono naturali, nel senso che sono opera dell’uomo sulla natura. E così l’Ikebana o l’arte dei giardini: per quanto si cerchi in natura non si troverà mai nulla di simile. Questa modalità era sconosciuta agli europei e Gordon Craig cercava dunque in Hanako qualcosa che non avrebbe potuto trovare perché giudicava e utilizzava parametri sbagliati. Per i giapponesi da sempre si è trattato di assimilare gli influssi e renderli nipponici e originali. La questione della verità non si è nemmeno mai posta. Essi arrivano all’essenza del dramma attraverso uno straniamento che parte del reale e lo trasformano facendo apparire il risultato a sua volta “naturale” benché non lo sia per niente. Ciò che importa è la verità del sentimento suscitato nell’osservatore.

Hanako rappresenta nella storia del teatro, in modo diverso da Sada Yacco, un suggestivo incontro con i teatri orientali proprio a causa del lavoro svolto con Rodin. Le maschere dello scultore francese ci fanno intuire un metodo di lavoro e come l’attrice giapponese utilizzasse la propria tradizione scenica pur in un contesto completamente differente. Lo sguardo occidentale, sia pro, sia contro, non seppe vedere il lavorio dell’attore su se stesso e sul personaggio perché non conosceva i fondamenti delle tradizioni estremo orientali. L’esotico non ci abbandona nemmeno oggi. Siamo sempre pronti a vedere nel diverso ciò che ci aspettiamo. La visione è qualcosa di complesso. Va coltivata e nutrita perché non sempre avere occhi significa vedere.

Leonor Fini: la teatralità inevitabile della vita

|ENRICO PASTORE

Leonor Fini nacque a Buenos Aires nel 1907 ma l’Argentina non sarà nella sua vita che una vaga reminiscenza di un incubo. Dall’Argentina sua madre Malvina fugge da un marito violento e autoritario e torna con Leonor bambina nella sua Trieste. Già da bambina Leonor rivela le doti d’artista che la caratterizzeranno tutta la vita: la creazione di doppi immaginari, il travestitismo, l’amore per la pittura, la curiosità morbosa che la porterà persino in obitorio per vedere i cadaveri. Nella città giuliana formerà e svilupperà le sue incredibili attitudini in un contesto vivo, cosmopolita, colto che la portò, a soli ventinove anni, ad essere già pienamente inserita nella pittura d’avanguardia europea esponendo i suoi quadri nell’alveo del surrealismo sia a Parigi che a New York. Aveva avuto numerosi amanti tra cui Max Ernst e i suoi travestimenti (famoso quello da cardinale), facevano già discutere la capitale francese avvezza a ogni stranezza.

Per raccontare però la vita e l’opera di Leonor Fini, definita dal Premuda come :«maestra di metamorfosi, misteriosa e inclassificabile», al di là dei dati puramente biografici, bisogna spingersi in territori inconsueti. Leonor, o Lolò come fu sempre chiamata, è un tipo d’artista visiva non inquadrabile in alcuna scuola (fosse Novecento o il Surealismo) per quanto i critici ci abbiano provato, tanto che per lei coniarono il termine sur-raffaellita tanto vago quanto inutile. Lei stessa era insofferente a qualsiasi affiliazione. Bisogna dunque inoltrarsi giocoforza nel Giardino di Armida da lei stessa costruito, affrontando i suoi labirinti e il suo specchio magico perché: «ella del vetro a sé fa specchio,/ed egli gli occhi di lei sereni a sé fa spegli». La figura di Leonor è assimilabile a quella di una una maga (mito che alimenterà per tutta la sua vita) capace, tramite la pittura, di evocare forze oscure, mostri custodi e pericolosi, specchi in cui trovare o perdere se stessi, in un gioco in cui al centro resta il mistero della rappresentazione.

Siamo inoltre in un luogo liminale, su un confine sottile tra più universi paralleli, dove il teatro ha un ruolo allo stesso tempo diverso e consueto in un continuo scambio tra vita e arte, e dove i due ambiti si confondono e si compenetrano. Leonor Fini amava dire: «mi interessa solo la teatralità della vita». E di questa esistenza terrena fece un teatro in cui difficile è distinguere il reale dall’immaginario. Alessandra Scappini con grande acume scrive: «La fantasia le permette di dare forma ad una molteplicità di immagini che riflettono le sue inquietudini, i moti che provengono dagli abissi, ma anche le sue concezioni che si manifestano nell’opera pittorica come teatro della vita “ulteriore” e “altra” rispetto al quotidiano. […] Per Leonor campeggiano fantasmatiche su un palco allestito proprio al limite tra conscio e inconscio, fra fantasia e storia personale».

Questo aspetto teatrale non è presente solo nella pittura ma in ogni aspetto del suo quotidiano. La sua casa di Parigi in rue Payenne al numero 11 per esempio, come notano Montesarchio e Varriale: «è un palcoscenico dove ogni attore può interpretare diversi personaggi, ognuno di essi però è fedele all’unica regista della rappresentazione che fa leva sull’illuminazione usata ad arte per rendere più misteriosi gli ambienti e più semplice l’atto di “purificazione” di se stessi attraverso la recitazione di un ruolo ogni giorno diverso».

A stabilire un rapporto stretto tra teatralità e agire artistico è ancora una volta la stessa Leonor: «fra il teatro e me, c’è un malinteso perché ho sempre amato e vissuto il mio teatro personale. Da bambina, fu come una rivelazione dell’attrattiva magica quando, per la prima volta, ebbi la possibilità di indossare maschere e costumi […]. Indossare un costume è come muoversi in un’altra dimensione, un’altra specie e spazio nel quale chiunque può crescere gigante, scendere nel mondo delle piante, diventare qualunque sorta di animale […]. Attraverso il misterioso processo di questi rituali dimenticati, chiunque trova se stesso». Leonor stabilisce un nesso tra la performance e la conoscenza di sé e del mondo. Un lavoro su se stessi e sul personaggio che attraverso il velame della maschera rivela l’essenza della vita. Leonor dunque fu di se stessa una continua performance, quasi un processo filosofico alchemico in cui attraverso il mutare della maschera e attraverso l’azione scenica pubblica sonda le possibilità e le leggi del mondo e della vita. Come una sciamana vive la sua esistenza terrena in una continua ritualità costituita da elementi legati alla rappresentazione.

Questa fascinazione teatrale inizia, come da lei stessa evidenziato, nell’infanzia nella sua Trieste dove, per sfuggire ai ripetuti tentativi di rapimento operati dal padre rimasto in Argentina, è costretta a travestirsi da maschio per non farsi riconoscere. Inoltre fin dalla scuola alimenta la leggenda di essere il doppio di se stessa. Alle compagne di classe e di giochi racconta infatti di essere stata scambiata bambina nella culla. In realtà la vera Leonor è stata rapita, lei è una sostituita. Non solo. Afferma di esser figlia di un gatto e di avere le pupille verticali come i felini, specie animale con cui avrà sempre uno stretto rapporto d’amore.

Leonor Fini è un’artista che inscena se stessa in mille possibili varianti tutte plausibili e tutte rivelanti un frammento di verità. Si nasconde per rivelarsi a sé e agli altri. O per lo meno a coloro che hanno occhi per vedere al di là della maschera e della rappresentazione. L’azione teatrale di Leonor Fini è un incantamento nel senso indicato da Massimo Bontempelli quando definisce il realismo magico: «Forse è l’arte il solo incantesimo concesso all’uomo: e dell’incantesimo possiede tutti i caratteri e tutte le specie: esso è evocazione di cose morte, apparizione di cose lontane, profezie di cose future, sovvertimento delle leggi di natura, operati dalla sola immaginazione». In questo passo vi sono tutti gli elementi caratterizzanti Leonor Fini: la maga, la veggente, l’evocatrice.

Tutti temi cari al surrealismo e sono da lei incarnati in modo del tutto personale garantendole una libertà di pensiero e una distanza dagli adepti di Breton, distanza che il fondatore del surrealismo mai le perdonerà. Leonor ha chiarito questo punto con molta chiarezza: «le appartenenze mi hanno sempre infastidito e vedevo più la mia differenza che l’eventuale affinità con la tendenza surrealista. Essi erano avidi di nuovi giovani per farne degli adepti […], Essi amavano fare dei processi, comunicare, condannare, stilare delle liste di libri che non bisognava leggere, erigere dei tribunali».

La sua distanza con il movimento, benché per molti versi ne condivida le pratiche pittoriche e di vita, si misura soprattutto nel ruolo ambiguo conferito alla donna. Se all’inizio del Surrealismo i padri fondatori conferiscono alla donna un ruolo subalterno di musa ispiratrice, oggetto del desiderio, femme fatale o angelo protettore, con il passare del tempo tale concezione si modifica verso la veggente, la maga, la strega, colei insomma che privilegiando la parte irrazionale e inconscia, vede ciò che la razionalità maschile non riesce a cogliere. André Breton arriverà a fine anni Trenta a concepirla infine come vertice di una rivoluzione: «la donna è la pietra angolare del mondo materiale/amata ed esaltata come la grande promessa e può salvare la terra». A questo proposito Jack J. Spector afferma: «L’attitudine dei surrealisti nei riguardi della donna riflette in larga misura il punto di vista di una società patriarcale – per questi scrittori e artisti maschi, la donna può essere utile come strumento di immaginazione o di piacere, ma non può facilmente trapassare questi confini a fornire contributi indipendenti, ed è per questo che dobbiamo rigettare la posizione recente che afferma i Surrealisti non essere antifemministi». Anche se Robert Short nota che: «non esiste altro movimento, a parte quelli specificamente femministi, in cui vi fosse una tale alta proporzione di donne attive e partecipanti». Se per gli storici la questione ha degli aspetti di ambiguità, per Leonor non vi è dubbio alcuno affermando senza mezzi termini che i surrealisti erano dei maschilisti.

Quella di Leonor però non è una lotta specificatamente femminista. Le sue attenzioni si rivolgono principalmente al matriarcato originario. Come dichiara il suo amico Jelenski: «la società immaginaria creata dalla Fini è dichiaratamente matriarcale, nella misura in cui essa ricrea l’organizzazione spirituale della società primitiva di natura, appunto, matriarcale. Tuttavia, questo non vuole essere segno di un’ipotetica superiorità femminile, bensì dell’appartenenza naturale a una cultura antichissima». Anche il questo Leonor misura una differenza e un’alterità.

Tornando alla sua opera pittorica e ai rapporti con la teatralità, essa è una pratica fondamentale per creare le condizioni di apparizione di un teatro immaginario. Le donne, le sfingi, i manichini, gli oggetti, le piante, sono tutti elementi di una scena in cui si nasconde e rivela l’io in cerca di se stesso. Un esempio può essere il Narciso di Leonor dove l’eroe non guarda l’acqua ma davanti a sé. E vicino a lui, quasi svanita c’è la ninfa Eco somigliante come una gemella a formare un dittico androgino. I loro riflessi nell’acqua guardano a propria volta lo spettatore, chiamato in causa per scandagliare dentro di sé l’inquietante somiglianza dei principi maschili e femminili incarnata dai due protagonisti del quadro. Non siamo quindi di fronte all’ostentazione di sé come manifestazione egotica ma come pratica di conoscenza non solo del proprio io nascosto ma delle regole che governano il mondo. Il rapporto tra immagini pittorica, immagine di sé en travesti, immagine fotografica, è sempre con il proprio doppio. Leonor velandosi si svela soprattutto a se stessa, permettendo il transfert allo spettatore tramite lo sguardo. Si osserva nello specchio tramite i suoi multipli, come in un caleidoscopio sempre mutevole.

Questa pratica è stata quasi sempre fraintesa soprattutto dalla critica italiana coeva incapace di concepire una donna fuori dalle righe e lontana mille miglia dall’angelo del focolare. Un esempio palese di malinteso è il famoso ballo in maschera a Palazzo Labia a Venezia del 1951 dove Leonor Fini partecipa con un vestito da lei stessa creato di angelo nero con tanto di ali. Al ballo ci sarà molta della illustre società con costumi creati da Christian Dior, nonché numerosi artisti come Dalì accompagnato da Gala. Il periodo storico vede un’Italia alle prese con la ricostruzione e la povertà e tale sfarzo ed eccentricità non viene digerito dalla stampa. A farne le spese sarà proprio la Fini per la quale da quel momento si farà strada, come afferma Di Santo: «una percezione maligna che si focalizza più sulla vita dell’artista che sul suo talento. Nascono leggende sulla sua persona e sul circolo di amicizie che la circonda. Una fama becera e bacchettona, pronta al facile giudizio di condanna verso una donna troppo libera».

La teatralità non resta confinata nella pittura, nella fotografia o nelle infinite maschere indossate nella vita quotidiana. Essa si misura direttamente con la pratica artistica focalizzata sul disegno di scene, costumi e maschere per l’opera, il teatro e la danza. Innumerevoli sono le collaborazioni: Balanchine, Barrault, Giorgio Strehler, Roland Petit (di cui sarà anche mecenate aiutando il coreografo a mantenere la compagnia con i propri donativi), Michele Galdieri e la compagnia di Anna Magnani, Jean Genet. Anche in queste collaborazioni Leonor porterà la sua modalità di rapporto con il pubblico, il suo travestirsi per rivelare, come nella famosa maschera da gatto ne le Demoisselles de la nuit che scatenerà le ire della prima ballerina Margot Fontayn, stella del Sadler Wells Ballet di Londra. Quasi a rivelare le sue doti di strega, dopo il litigio sulla maschera, alla seconda rappresentazione, la scenografia di Leonor crollerà in testa alla Fontayn, la quale, nonostante l’incidente, continuerà la propria performance.

Leonor Fini fa dunque parte di una specie d’artista che non relega la performance nello spazio angusto dell’arte, ma coinvolge tutta la quotidianità. La performance è prassi di una conoscenza antica, un comprendere il mondo tramite l’agire. E tale scandaglio del mondo e di se stessi è pratica crudele, feroce, frutto di grande disciplina in un connubio difficilmente ottenibile di abbandono e controllo. Su questo piano si misura l’alterità di Leonor Fini, una delle grandi artiste dimenticate o messe in ombra proprio perché lontane da una consuetudine tranquillizzante dell’arte come oggetto e prodotto culturale. L’arte come ricerca di sé, la teatralità utilizzata come metodo di conoscenza e non come mero spettacolo inquieta un sistema volto specificatamente all’intrattenimento e al consumo culturale. Leonor Fini mette in gioco valori antichi dove teatro è luogo da cui si guarda il mistero e se ne fa esperienza.

Renée Falconetti

Renée Falconetti: il destino del fuoco

|ENRICO PASTORE

Quella di Renée Falconetti, più che la storia di una straordinaria attrice dimenticata, è piuttosto il racconto di una performance unica avvenuta nel segno del fuoco e delle lacrime, che ha rischiato di essere irrimediabilmente perduta proprio per una serie ripetuta di roghi, quasi fosse reclamata dalle fiamme. Renée Falconetti si identifica, nella storia del cinema e del teatro, nella Giovanna D’Arco di Carl Theodor Dreyer in quella che secondo il critico Alessandro Cappabianca è stato :«quanto di più vicino a una vera e propria reincarnazione si sia mai verificato su un set cinematografico».

Il film di Dreyer fu per molti versi un campo di forza dove non solo si manifestarono in tutta la loro potenza esplosiva le possibilità evocative dell’immagine cinematografica, ma in nuce, e forse per la prima volta, gli effetti di un teatro della crudeltà ancora da teorizzarsi. Antonin Artaud è, nelle vesti del monaco Massieu, protagonista nel film insieme alla Falconetti, ma come afferma Antonio Attisani resta: «accanto all’attrice come uno spettatore affascinato e confuso», e in quell’osservare rapito vi è probabilmente la comprensione di una potenzialità che gli fece prendere coscienza di una possibilità futura di teatro della crudeltà. Dunque per parlare di una prefigurazione di attore e di performance teatrale dovremo passare attraverso il cinema.

Dreyer giunse in Francia dopo il successo de L’angelo del focolare del 1925 e gli fu affidato il compito di raccontare le gesta di Giovanna D’Arco attraverso una produzione colossal per l’epoca. Il budget si aggirò intorno alla cifra, enorme per il periodo, di sette milioni di franchi. La sceneggiatura fu scritta da Michel Champion basandosi sul libro di Joseph Delteil e sugli atti originali del processo. Tutto accade in un solo giorno, il 30 maggio 1431, quando avviene il supplizio e l’esecuzione sul rogo di Giovanna in un gioco di sovrapposizioni con la passione di Cristo.

Benché Dreyer fece spendere un’enormità allo scenografo Hermann Warm (lo stesso del Gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene), per la ricostruzione fedele del Castello di Rouen dove si svolsero i fatti, le riprese sono quasi esclusivamente limitate ai primi piani, usando prospettive insolite come a evocare le scene dipinte nei codici miniati medievali. Le riprese avvennero in un clima tutt’altro che agevole e sereno sotto una ferrea regola del silenzio, non risparmiando disagi fisici agli attori e soprattutto alla Falconetti, con scene ripetute ossessivamente alla ricerca della perfezione e attraverso una costante pressione psicologica. A tal proposito sorsero spontanee quanto fasulle leggende sulla crudeltà di Dreyer verso la Falconetti tanto da causarle disagi psicologici. In verità sembra che Renée condivise il metodo con il regista e si sottopose volontariamente alle ossessive ripetizioni, poi visionate e scelte insieme, sia alle disagevoli prove fisiche (come la rasatura dei capelli e la morsa ai piedi). Per quanto riguarda i problemi mentali ne fu affetta per tutta la vita. Stando alla testimonianza di Hermann Warm l’unica deroga alla verità e al realismo estremo voluto da Dreyer fu la scena del salasso, avvenuta sul braccio di una comparsa e non sulla Falconetti.

Renée giunse alla prova di Giovanna D’Arco dopo una brillante carriera teatrale avviata dopo gli studi al Conservatorio di Parigi nel triennio 1911-1914. Dopo l’esordio con L’Arlésienne all’Odeón si cimentò in commedie e drammi tra cui spiccano La dame aux camélias e Lorenzaccio di De Musset del 1928 anno in cui si incomincia a girare il film di Dreyer, A riprova delle mancate violenze psicologiche subite, dopo le riprese, non solo diresse il Théâtre de l’Avenue nel biennio 1929-30 e recitò in Phèdre nel 1930, ma si cimentò nuovamente in teatro proprio con il ruolo di Giovanna. Solo nel 1935 si ritirerà in Svizzera per l’aggravarsi di problemi mentali e inizierà il suo calvario doloroso che la porterà in fuga dalla guerra in Sud America, e infine al suicidio a Buenos Aires nel 1946.

Torniamo sul set di Dreyer e cerchiamo di capire in cosa consiste la straordinarietà dell’interpretazione di Renée Falconetti. Nell’osservare con attenzione l’immagine filmica della performance di Renée si nota in primo luogo una sostanziale differenza con gli altri interpreti, compreso lo stesso Artaud. Tale differenza si sostanzia in primo luogo attraverso una mancata recitazione sostituita da un agire/patire intenso e veritiero ottenuto grazie a una magistrale sottrazione di sé.

Ciò che osserviamo è un abbandono totale all’azione non attraverso una finzione, ma vivere mediante una maschera di una forza tale da costringere lo spettatore a interrogarsi sulla realtà di quanto scorre davanti ai propri occhi. Siamo al di là del recitare, è un vivere attraverso il corpo e un sentire mediante l’occhio, come disse Pasinetti: «mai attrice di teatro fu così poco teatrale». Citando Antonio Attisani possiamo dire, in maniera più profonda e mirata, che: «la protagonista […] tende a cancellarsi. Il suo volto, il suo corpo diventano un velario che lascia scorrere il caso, il tema al di là della persona, dimostrando concretamente cos’è la santità, il martirio dell’attore; gli altri sono testimoni di ciò che accade, testimoni imbelli, ma attraverso loro noi “vediamo la storia”: è questa la chance dello spettatore».

L’abilità di Dreyer è stata quella di saper evocare l’incarnazione del dolore e della sua trasfigurazione nel corpo attorico della Falconetti, attraverso le condizioni di lavoro e il realismo delle scene, utili solo all’immersione dell’attore nella materia più che all’occhio di chi guarda. Tutto avviene senza parole (se si escludono le didascalie), i visi sono naturali, senza trucco, solo quindi attraverso i corpi/ombre impressi sull’immagine crudele o, come la definisce Cappabianca, l’immagine estrema ossia quella: «che riesce a mettere in crisi, in senso quasi fisico, la nostra sicurezza […], quella che ci sconvolge perché non riusciamo più a credere che sia solo un’immagine». L’ombra si fa dunque più concreta della realtà, attraverso la maschera si palesa la dura realtà di un evento.

Forse con qualche azzardo potremmo paragonare la performance di Reneé Falconetti a quella di Ryazard Cieślak ne Il principe Costante di Grotowski, altro corpo di dolore capace di trasfigurazione e incarnazione.

Renèe Falconetti fu capace di far emergere il doppio, una Giovanna attraverso di sé e il proprio corpo, una Giovanna reale, in carne ed ossa, vivente, sofferente, morente davanti ai nostri occhi increduli. Come scrive Cappabianca: «amo la Falconetti, perché penso che in lei sia avvenuto, per una volta nella storia del cinema, una specie di miracolo della reincarnazione, e perché sento che, attraverso lei, Giovanna, guerriera contadina, mi guardi, guardi proprio me, indicandomi mestamente il destino del fuoco».

Queste parole riecheggiano potenti quelle di Artaud che, forse pensando proprio al martirio sul rogo di Renèè/Giovanna scrive ne Il teatro e il suo doppio: «la cosa veramente diabolica e autenticamente maledetta della nostra epoca, è l’attardarsi sulle forme artistiche, invece di sentirsi come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme». In verità Renée Falconetti colpisce nel segno, più che nella scena del rogo, nel calvario che la precede, in quegli sguardi come persi, rivolti dentro di sé, quel soffrire il dolore attraverso le lacrime, l’abbandono totale, il lasciarsi attraversare da ciò che avviene di lei e su di lei. Come dice Attisani: «Renèe Falconetti è una deità che […] incarna un sentimento di pietas, di compassione, di stupore per un mondo ridotto in cenere da una nefasta minoranza di ignoranti armati».

La crudeltà intravista da Artaud per mezzo della Falconetti è dunque una forma di rivelazione. Questa è una suggestione, seppur plausibile, e non una verità documentaria anche se è possibile che, come afferma Cappabianca: «l’esperienza del film di Dreyer e il rapporto con l’interprete di Giovanna, Renèe Falconetti, non solo abbiano segnato profondamente Artaud, ma che Dreyer abbia applicato, sul set del suo film, procedimenti e metodi da considerare, nel segno del rigore, come anticipazioni di quelli ipotizzati nel Teatro della Crudeltà». E tale svelamento avviene non tramite il realismo, ma tramite un’evocazione sinfonica di immagini espressive, che rendono reale l’ombra impressa nei singoli fotogrammi. Per questo il martirio di Renèe/Giovanna ci colpisce con tale forza d’urto e per usare le parole di Artaud: «in una parola, siamo convinti che nella cosiddetta poesia esistano forze vive, e che l’immagine di un delitto presentata in condizioni teatrali adeguate sia per lo spirito infinitamente più terribile della realizzazione di quello stesso delitto».

Se dunque in qualche modo Artaud mancò nel rendere attuabile la sua idea di Teatro della Crudeltà, attraverso Renèe Falconetti possiamo farci un’idea concreta di cosa intendesse. La storia però ha i suoi risvolti ironici nella tragicità del suo svilupparsi. Questa performance straordinaria all’interno di un film altrettanto extra-ordinario rischiò seriamente di essere niente più che un pallido ricordo annotato sulle recensioni di un’epoca lontana. Infatti la prima copia venne distrutta dal fuoco nel 1928. Dreyer provò a rimontarne una seconda con ciò che era rimasto del girato e con alcuni negativi dell’originale, ma anche questa pellicola andò in fumo nel 1929. Nel 1951 lo storico Joseph-Marie lo Duca scovò nei sotterranei della Gaumont una copia della seconda versione che sottopose a rimontaggio e applicando una colonna sonora la rese nuovamente di dominio pubblico. Per molti anni questa fu l’unica versione disponibile, finché nel 1981, ironia della sorte date le biografie di Falconetti e Artaud, fu ritrovata una copia non censurata in un manicomio di Oslo. Quest’ultima fu restaurata in Danimarca e riproposta finalmente al pubblico.

Renèe Falconetti morì a Buenos Aires, ormai dimenticata, per un probabile suicidio, ma ci ha lasciato in eredità una straordinaria prova d’attrice, in cui non vi è testo ma solo l’azione e, parafrasando ancora Attisani, la trasformazione di un corpo doloroso in un corpo glorioso. La possibilità che il corpo attorico senza l’ausilio del testo o della parola, possa essere parlante si sta facendo pallida nel teatro, in un tripudio di testi antichi, vecchi e nuovi, dopo un secolo, il Ventesimo che di tutto ha fatto per sganciarsi dalla sudditanza dalla parola scritta. Tale eredità sembra però essere stata raccolta dalla danza e dalla performance. Forse il miglior modo di ricordare un’attrice straordinaria come Renèe Falconetti e quella di recuperarne il lascito, rimparare a esprimersi col corpo più che con il logos.

Margarida Xirgu: il teatro non è divertimento, è sacrificio

|ENRICO PASTORE

Margarida Xirgu i Subirà, la più grande attrice spagnola del Ventesimo secolo, prese il primo applauso della sua vita all’età di soli otto anni. Era il 1886 ed era in una taverna in Catalogna. Un gruppo di operai le fece leggere un manifesto e lei, senza paura di rivolgersi a quell’uditorio di uomini adulti, con voce squillante di bambina lesse il suo primo testo in pubblico. Questo episodio fortuito segnò il suo destino come un marchio: sarebbe stata attrice e sempre schierata con la repubblica, tanto da subire gli attacchi dei falangisti di Franco, la perdita di tutti i propri beni, costretta a morire in un esilio che sarebbe durato trentatré anni.

Nella sua vita d’attrice si possono scorgere tre grandi periodi: un primo coincidente con il suo apprendistato e i suoi primi successi nella sua Catalogna, dove reciterà principalmente nella sua lingua d’origine e dove formerà la sua prima compagnia nel 1911; una seconda parte, la più ricca d’incontri e di successi, in cui si trasferisce a Madrid per recitare in castigliano. È questo il periodo dell’amicizia con Federico Garcia Lorca di cui fu la massima interprete e che si conclude nel 1936 con la partenza per il Messico. Infine dal 1936 al 1969 il suo esilio sudamericano tra Cuba, Argentina, Cile e Uruguay, paese in cui morì. Non riusci mai a tornare in Spagna per quanto lo desiderasse. Le sue spoglie sono state riportate al paese natale, Molins de Rei, solo nel 1988 per il centenario della nascita.

Fin dai suoi esordi Margarida Xirgu si oppose strenuamente al consolidato mestierismo del teatro: «il cedimento di fronte all’estrema volgarità al fine di lusingare e giocare con la sensibilità del pubblico ha sempre suscitato in me il massimo disprezzo». Non sopportava che il teatro si accontentasse di essere spettacolo. Era pronta a ogni sacrificio e a sottoporsi a una ferrea disciplina pur di raggiungere una coincidenza tra l’artificio e la vita.

La questione si stava affrontando in tutta Europa. L’inizio del Novecento era in subbuglio alla ricerca di un metodo per far vivere di vita autentica ciò che si animava sul palcoscenico. Vita? o teatro? Artificio o verità? Straniamento o immedesimazione? Per farla semplice tornava di moda la questione mai risolta del paradosso di Diderot: l’attore è più vero quanto più si distacca dall’imitazione e giunge alla verità tramite la tecnica, oppure deve cercare dentro di sé i sentimenti propri del personaggio e farli rivivere di fronte al pubblico?

In verità il paradosso è un falso problema perché la questione è mal posta. La verità è negli occhi di chi guarda. Ogni attore fuori dal comune ha trovato la sua propria strada e il suo toccare il cuore dell’osservatore è da sempre stata una ricetta più segreta di quella della Coca Cola, perché formata da un’indicibile mix di talento, genialità, tecnica, sensibilità. Ogni attore apprende una o più tecniche, le fa proprie, le trasforma, e prova a tramandarle, ma il nuovo discepolo, se talentuoso, ripete il ciclo permutando a suo modo la ricetta per giungere a quello modo al di là dei modi di cui parlava Carmelo Bene.

Il processo di Margarida Xirgu passa attraverso vari stadi difficili da raccontare perché nel farlo li si riduce a metodo quando, in verità, vi era un’attitudine sempre modificabile e perfettibile di rappresentazione in rappresentazione. Si deve per forza di cose semplificare, avvicinarsi per approssimazione, come per il problema della quadratura del cerchio.

Cominciamo con ordine. Il suo primo passo fu un rifiuto. Come accennato Margarida Xirgu si oppoese da subito alle abitudini vigenti. All’epoca gli attori imparavano a malapena la propria parte. All’inizio delle prove si affidavano al suggeritore per radicare il testo nella memoria. Lo studio del personaggio si limitava all’esteriorità, alla forma spesso scolpita tramite il mestiere e la consuetudine. Il regista poi era una sorta di vigile urbano, presente solo per dirigere il traffico delle entrate e delle uscite.

Margarida rifiutò tutto questo e apparve sui palcoscenici di Catalogna prima, e di Spagna poi, come un unicum: alla prima prova non solo conosceva la parte perfettamente a memoria, ma aveva studiato l’intero dramma e ragionato profondamente sul proprio personaggio. Non servendole il suggeritore, durante le prove, tutta la sua creatività era diretta a costruire una partitura di gesti, azioni, pause, silenzi che le permettessero di far emergere il personaggio facendo scomparire l’attrice.

Come spesso accade il suo processo creativo (non chiamiamolo metodo, parola che lascia sempre dietro di sé un gusto di meccanico) era un’inscindibile unione di tecnica e di istintualità o sensibilità acuita, oltre a un mettersi in ascolto di tutto ciò che accadeva intorno a lei per poter adattare fluidamente la partitura all’onda vitale pronta a formarsi nella rappresentazione. La partitura precisa da lei creata doveva sempre entrare in connessione con il flusso vitale che si sprigionava. Il suo era un sottrarsi rimanendo vigile, abbandono e controllo insieme. Le parole di Margarida non lasciano adito a dubbi: «che l’artista abbia una missione dovrebbe significare qualcosa in più che soddisfare con il successo il proprio egoismo». Come afferma Anna Caixach: «la ricerca in entrambe le direzioni, interiore-esteriore, dicotomia analoga alla relazione processo-composizione, sarà una costante nelle dichiarazioni di Xirgu o di molti di coloro che l’hanno vista recitare dal vivo». Per giungere a un tale risultato eliminò per prima cosa tutto ciò che era inessenziale al lavoro attorico, fossero scene o trucchi. Solo il necessario era messo in gioco.

È curioso come il processo di composizione della partitura ricordi molto da vicino le ricerche dell’ultimo Stanislavskij sulle azioni fisiche. Margarida Xirgu era infatti convinta che la vena emozionale della parte scaturisse dalle piccole azioni messe in parallelo con il testo poetico. Dal contatto di parola, silenzi, azioni, fluiva quella che potremmo chiamare la verità dell’interpretazione, anche se la parola verità è pericolosa. Si potrebbe dire piuttosto che si rivelava quella che i greci chiamavano Aletheia, quella verità che appare opacizzandosi, ma velandosi disvela.

Un altro elemento da non sottovalutare è l’incontro con la musicalità del verso poetico, soprattutto quello di Federico Garcia Lorca, il quale fece scaturire in lei una vena creatrice rivolta a far risuonare la parola, ad abbandonare il discorso per giungere al canto. La sua esplorazione della musicalità del testo andò a braccetto con la ricerca poetica di Lorca, il quale fin dai suoi esordi, fu affascinato dalle antiche forme popolari di canto apprese negli anni di studio nella sua Granada con il maestro Manuel De Falla.

L’incontro tra Lorca e Margarida fu naturale. Federico poté ammirare la Xirgu a Granada il 13 marzo del 1915 quando l’attrice interpretava magistralmente Elettra di Hofmannsthal al Teatro Cervantes. Federico aveva solo diciassette anni ed era accompagnato dal suo maestro Martín Domínguez Berrueta. L’impressione prodotta su di lui dall’attrice fu così forte che nel 1926 provò a inviarle, attraverso Eduardo Marquina, il manoscritto della sua Maria Pineda. L’opera non le venne mai consegnata ma infine i due si incontrarono nel 1926 all’Hotel Ritz di Madrid dove Federico le lesse il dramma incontrando il suo entusiasmo. Questo fu il primo passo non solo di una grande amicizia ma di una sorta di sodalizio poetico-artistico. Questo lo si può desumere dalle parole accorate di Margarida: «[…] fino a quando finalmente non ho incontrato il mio autore. Si è realizzato il sogno di tutta la mia vita artistica: il teatro spagnolo si arricchì di un valore nuovo; con un poeta brillante e meraviglioso, che in pochissimi anni si è fatto conoscere e ammirare da tanta gente. Da allora la mia personalità non mi ha più interessato, erano i suoi versi a rapire il pubblico, era lui, solo lui».

Lorca, da parte sua, la ricambia: «Margarida Xirgu ha un raro istinto nella percezione e nell’interpretazione della bellezza drammatica […] è capace di catturare il volo poetico che non si trova nelle parole, che permane nell’aria, fa una frase e l’altra». E ancora. «Margarida ha l’inquietudine del teatro, la febbre di molteplici temperamenti, La vedo sempre come crocevia di tutte le eroine».

Un innamoramento artistico vicendevole che portò la Xirgu a interpretare per la prima volta numerose opere e poesie di Federico. Margarida fu la protagonista della prima di Bodas de Sangre l’8 marzo del 1933 (che divenne film in Argentina nel 1938 per la regia di Edmundo Guibourg), di Yerma il 19 dicembre del 1934, evento funestato dai falangisti che la contestavano sapendo delle sue simpatie di sinistra, e la toccante prima di La casa di Bernarda Alba nel 1945 dopo molti anni dalla morte del poeta.

Margarida provò a convincere Lorca nel fatidico 1936 ad abbandonare la Spagna per seguirla in tournée in Messico. Era il 26 gennaio a Bilbao. Margarida Xirgu rappresenta con successo la dama Bobe di Lope de Vega nell’adattamento di Federico. Fanno insieme quello che sarà un ultimo recital insieme. Lui declamerà parte del suo Romancero gitano e l’attrice una selezione di brani classici. Margarida insisteva perché l’amico la seguisse lontano dalla Spagna e dall’incombente guerra civile. Federico tentennava perché attendeva il permesso dei genitori del suo amante Juan Ramírez de Lucas, ancora minorenne. Per questo Lorca si dirige a Granada. Margarida gli ha già inviato due biglietti. Ma gli eventi precipitano. Lorca sarà ucciso il 19 agosto del 1936. Margarida apprese dell’assassinio di Federico oltreoceano.

Molti anni dopo a Salto in Uruguay, all’inaugurazione di un monumento in memoria di Federico Garcia Lorca, Margarida fu invitata insieme alla sua compagnia a recitare tre frammenti di Bodas de Sangre. Il pubblico intervenuto non si aspettava di assistere a una performance decisamente fuori dal comune che non solo rivela il talento di una grande attrice ma tutto il dolore di una donna che perde il suo caro amico e si confonde con il personaggio del dramma, una madre costretta a seppellire il figlio. Queste le parole dell’attrice Conceptión Zorrilla presente all’evento: «Quando Margarida concluse quella sorta di lamento viscerale calò un silenzio mortale. Chi avrebbe potuto applaudire qualcosa di simile? […] Ciò che era apparso era una madre che piange il figlio morto […]. Io credo che quel giorno Margarida stesse sotterrando Federico, poiché non era l’attrice, era la madre, nemmeno l’amica, proprio la madre con la sua disperazione. Era una specie di accumulo di dolore di tutta la vita e che di colpo raggiunse un canale dove sfogare quella sofferenza e ne pianse e lo gridò e lo urlò, e quelle persone, e quegli attori furono privilegiati per essere stati testimoni di quello spettacolo unico nel quale il teatro si era confuso con la realtà senza alcuna linea di demarcazione: Stava recitando o non stava recitando?».

La domanda finale di questo commovente e straziante documento ci fa comprendere come lo storico e il ricercatore siano impotenti a descrivere un processo creativo. Sembrerà banale ma vince l’antico adagio “prendi l’arte emettila da parte” o, se vogliamo essere più aulici, valgono le parole di Lao Tze nel Tao Te Ching: «dimentica di aver dimenticato». I metodi, gli artifici, le prassi, i grandissimi attori li abbandonano pur usandoli. Superano la stessa regola da loro stessi emanata. Come Bach ne L’arte della fuga supera lo stesso canone da lui stabilito e sistematizzato. Margarida condusse il suo pubblico in uno spazio in cui le parole non possono descrivere, balbettano, perfino ammutoliscono e resta la commossa ammirazione di un processo creativo unico e irripetibile.

Come posteri abbiamo la fortuna non solo di poter ammirare una sua performance nel film di Edmundo Guibourg, ma di poter ascoltare la sua voce nelle registrazioni del 1961 dove recita il Romancero Gitano dell’amico Federico. E così nelle orecchie ci risuona la sua voce un poco arrochita che canta: «Verde que te quiero verde/verde viento verdes ramas…».

Asja Lācis: ingegnere dell’avanguardia, Arianna nel labirinto

|ENRICO PASTORE

La vita e l’opera di Asja Lācis (1891-1979) benché poco conosciuta, non si può dire sia stata dimenticata. Dal 1968, anno della sua riscoperta, momento chiave per la rinascita delle utopie rivoluzionarie e comunitarie anticapitaliste, si può dire sia iniziata la sua graduale riscoperta. Eppure Asia Lācis è stata vittima di gravi omissioni, soprattutto dagli esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno in primis) che provarono a rimuoverne le tracce soprattutto rispetto all’amicizia e all’influenza di Asja nei confronti di Walter Benjamin, cancellando dediche e la sua firma negli articoli scritti a quattro mani (per esempio Napoli del 1925 apparso sulla Franfürter Zeitung).

Non solo. Il suo nome e la sua opera vennero rimossi, in senso psicologico del termine, proprio con la fine della stagione che va dal 1968 al 1977 ossia con la fine della seconda ondata riformatrice e anticapitalistico. Dalla storia in genere, e da quella del teatro in particolare, si volle dimenticare tutta quella fervente stagione rivoluzionaria e utopistica che si manifestò tra gli anni ’20 e ’30 sull’asse Mosca-Berlino, arteria in gran parte costruita da Asja Lācis. Non è un caso che proprio Walter Benjamin usi questo termine nella dedica in Strada a senso unico: «Questa strada si chiama/ VIA ASJA LĀCIS/dal nome di colei che/DA INGEGNERE/ l’ha aperta dentro l’autore».

Per raccontare l’intera vita di questa donna straordinaria si dovrebbe, per essere ragionevolmente esaurienti, scrivere un libro corposo. In questa sede, breve per necessità, punteremo i riflettori su alcuni tratti fondamentali del suo agire artistico inscindibile dall’aspetto politico e pedagogico, che ne possano ricostruire, almeno parzialmente, le colonne di pensiero filosofico volto a sostenere l’arco del suo fare e pensare teatro.

Asja Lācis appartiene a quelle rare figure d’artista capaci di diventare scintilla da cui si dipartono innumerevoli fuochi, una stella attorno a cui vengono a gravitare miriadi di pianeti, lune e asteroidi a formare un labirintico sistema planetario. Ovunque ella abbia risieduto in vita (e i luoghi da lei frequentati sono legione in un nomadismo artistico continuo e infaticabile), – da Riga, San Pietroburgo e Orel, da Mosca a Berlino a Monaco di Baviera, e poi Capri e Napoli, Odessa, il Kazakistan e Valmiera, solo per citare i più importanti -, in ogni città Asja sia transitata è stata capace di trascinare come un fiume in piena chiunque entrasse nella sua orbita, sia in coloro attirati dal fascino ed entusiasmo da lei emanato sia in coloro che ne provavano antipatia.

Asja Lācis fu un tratto d’unione tra idee e personalità artistiche, promuovendo non solo la ricerca artistica ma il passaggio di conoscenza tra le due realtà teatralmente più fervide e irrequiete dell’epoca: la Germania e l’Unione Sovietica. Asja, allieva dei corsi Bestùzěv a Pietroburgo, (allora quasi gli unici corsi di livello universitario a cui una donna potesse accedere) e a Mosca dello studio teatrale di Fedor Komissaževskij (fratello di Vera, la Duse della Russia zarista), poté frequentare, con curiosità inestinguibile, tutto il meglio che il teatro russo d’avanguardia potesse offrire (soprattutto Mejerchol’d verso cui si professò sempre debitrice). Il suo apprendere non fu esclusivo: frequentò e conobbe i principali poeti e autori, prese parte alle riunioni sindacali dei lavoratori, si occupò di pedagogia prendendosi cura dei cosiddetti Besprisorniki, ossia gli orfani della Prima Guerra Mondiale e della susseguente Guerra Civile.

Tutto questo bagaglio di conoscenze venne travasato in Germania dove conobbe e collaborò con Brecht, Piscator, Fritz Lang, Toller, e infine Walter Benjamin. Non solo promosse l’amicizia tra quest’ultimo e Brecht ma anche quella con Tret’jakov. Favorì inoltre la conoscenza del cinema di Dziga Vertov in Germania tramite il celebre critico Krakauer. E nel suo ritornare in Russia, introdusse e agevolò la conoscenza del teatro rivoluzionario e proletario tedesco negli ambienti artistici sovietici, favorendo anche la venuta dei principali protagonisti (Asja era al fianco di Brecht durante la visita di Mei Lan Fang in URSS, e con Piscator a Odessa). Tradusse le drammaturgie sperimentali russe in Germania e scrisse un libro sul Teatro Proletario tedesco in Unione Sovietica. Asja Lācis è dunque un crocevia, è Arianna, signora del labirinto delle avanguardie artistiche di ispirazione comunista e agit-prop. Forse nel Novecento il solo John Cage condivide con Asja tali capacità attrattive e di congiunzione, questa capacità di infiammare e fecondare.

L’azione artistica di Asja non può e non deve essere scissa dalla visione politica che l’animò tutta la vita, persino nei periodi bui di carcerazione a Riga, o negli anni di confino in Kazakistan (il suo agire artistico fu spesso osteggiato sia dalle SA in Germania, sia dall’ortodossia in Unione Sovietica). Tale ferreo rigore lo apprese in primo luogo nello studio di Fedor Komissaževskij, il quale: «era convinto che il teatro non potesse esistere senza filosofia […] io ero d’accordo con lui sul fatto che l’arte deve essere presa sul serio e non può essere prodotta da persone prive di una visione del mondo». Tale ardore e intensità di pensiero fu alimentato da una volontà incrollabile già presente in giovanissima età quando lasciò la Lettonia: «per Pietroburgo con un fagotto e un rublo in tasca» e frequentò i corsi anche quando rincasando la sera: «sentivo le palle di fucile fischiarmi sul capo».

La sua visione estetico-politica emerge in maniera nitida e cristallina nell’attività che svolse con i ragazzi orfani, i Besprisorniki, azione messa a punto durante il suo primo incarico a Orel nel biennio 1918-1919. Anziché dirigere un teatro e dedicarsi all’attività registica, Asja si accorse che: «per le strade di Orel, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle cantine, nelle case distrutte vivevano schiere di bambini abbandonati: i Besprisorniki». Asja decise di occuparsi di loro e visto che abitava un’antica e spaziosa casa, scenario di Nido di nobili di Turgènev, parlò del suo progetto con il responsabile dell’istruzione popolare Ivan Michail Čurin, il quale, entusiasta, appoggiò il progetto e approntò le necessarie modifiche allo stabile per accogliere i bambini.

Asja si accorse di non poter utilizzare con loro la prassi consueta al lavoro teatrale e decise, senza mezzi termini di cambiare strada e perseguire una metodologia altamente innovativa: «Quando si prova con i bambini un dato testo, si lavora fin dal principio per una meta precisa. Per questa strada non avrei potuto raggiungere il mio scopo, che era la loro educazione estetica, lo sviluppo delle loro facoltà artistiche e morali. Io volevo che il loro occhio vedesse meglio, che il loro orecchio udisse più finemente, che le loro mani facessero dal materiale informe oggetti utili».

A partire da questo assunto divise il lavoro con gli orfani in più sezioni: pittura, condotta dallo scenografo di Mejerchol’d Šestakòv, musica, educazione tecnica (costruzione di oggetti, costumi, maschere, scene) e infine ritmo, ginnastica, dizione e improvvisazione, al fine di raggiungere una forma artistica condivisa e collettiva.

L’improvvisazione era il centro nevralgico attraverso cui: «le forze latenti si liberavano attraverso il processo di lavoro e le capacità che si sviluppavano si unificavano». Gli educatori non erano maestri ma osservatori, si ritiravano e lasciavano che i bambini stessi facessero naturalmente emergere le proprie attitudini. L’azione educativa si opponeva con decisione al principio capitalistico tendente a sviluppare un particolare talento: «l’educazione borghese stimola gli individui unilateralmente, Per dirla con Brecht: essa vuole “commercializzare” l’individuo e le sue facoltà. La società borghese pretende dai suoi membri che producano merci il più rapidamente possibile, e questo principio si palesa nell’educazione dei bambini in tutti i suoi aspetti. Se, per esempio, questi bambini giocano al teatro, hanno sempre il risultato davanti agli occhi: la rappresentazione, l’apparizione davanti al pubblico. Così va perduta la gioia del produrre giocando».

Soltanto quando i bambini sentivano la necessità di un incontro con un occhio esterno si favoriva un evento preceduto da una parata pubblica e un’apertura verso un pubblico formato da altri bambini, apertura sempre tendente verso la festa benché venisse stimolato il confronto dialettico tra il pubblico e gli esecutori. Tale confronto non era censorio o valutativo ma volto a una comune crescita, ma soprattutto era un teatro di bambini per bambini in cui l’educazione alla collettività e alla condivisione era il punto focale. Queste le parole di Benjamin in Teatro proletario di bambini: «le rappresentazioni non sono la meta vera propria dell’intenso lavoro collettivo […] Qui le rappresentazioni avvengono di passaggio, si potrebbe dire: per sbaglio, quasi come uno scherzo dei bambini, che interrompono per una volto lo studio per principio mai terminato». Si puntava, per dirla sempre con le parole di Benjamin: «non all’eternità dei prodotti, bensì all’attimo del gesto».

Il testo di Benjamin fu scritto nel 1928 per promuovere il progetto di Asja in Germania. Johannes Becher e Gerhard Eisler le proposero infatti di creare un teatro per bambini alla Karl-Liebknecht-Haus di Berlino. Per l’occasione il filosofo produsse un testo che in prima stesura (oggi perduta), risultò troppo ostico. Fu così che venne riscritto nel titolo oggi conosciuto Programma per un teatro proletario di bambini.

Nel 1927, dopo un periodo di malattia ed esaurimento nervoso, Asja Lācis, insieme a Nadežda Krupskaja, la vedova di Lenin, all’epoca alto funzionario del Narkompros, il Commissariato del popolo per l’istruzione, tornò ad occuparsi dei Besprisorniki. Questa volta creò un cinema per bambini diretto e promosso dai bambini: «Il famigerato mercato delle pulci: Sucharevka. Di giorni i bambini incustoditi del vicinato gironzolavano intorno e imparavano l’arte di commerciare, truffare e di guadagnare denaro; di notte vi istallavano il loro campo. Nelle vicinanze c’era un cinema-teatro molto grande, il Balkan, Era quello che ci voleva. Organizzare un cinema per bambini significava accettare la lotta contro lo “spirito” di Sucharevka».

Benché ci sia ancora molto da raccontare sulla vita di Asja Lācis, l’essenziale della sua visione del mondo è contenuta in questi due aspetti: creare relazioni e scambi di conoscenza, e smobilitare l’ossessione produttivistica e commerciale del capitalismo creando collettivi per bambini in cui l’educazione puntasse verso uno sviluppo completo della persona tramite una forma di insegnamento senza parole, basato sull’osservazione, la gestualità e l’improvvisazione teatrale. Il teatro è visto quindi come uno strumento di prassi filosofica, di pensiero in azione. E se i bambini furono i principali destinatari di questa innovativa metodologia pedagogica, essa fu declinata da Asja per i lavoratori dei Kolchoz, per le compagne detenute nel confino in Kazakistan, per gli operai delle fabbriche.

Asja Lācis volle cambiare il mondo e di certo vi riuscì. Lasciò tracce del suo passaggio in ogni animo, attrasse ed entusiasmò. Il suo caro amico Benjamin scrisse per lei le parole più belle: «lei poteva appunto uscire dal portone, girare l’angolo e stare sul tram: ma dei due dovevo esser io, a ogni costo, il primo a vedere l’altro. Perché se lei m’avesse sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come un deposito di munizioni». Peccato poi gli storici si siano preoccupati di nascondere quella miccia, sperando forse che nessuno se ne accorgesse. La miccia è sempre lì, in attesa di occhi pronti a detonare.

Emmy Hennings-Ball: un usignolo e un piccolo angelo

|ENRICO PASTORE

Nel manifesto inaugurale del Cabaret Voltaire del 5 febbraio 1916 Emmy Hennings-Ball, la compagna di Hugo Ball (si sposeranno nel 1920) è al centro del dipinto. Lo sguardo triste, i capelli biondi a caschetto, i lineamenti scavati da una vita di sofferenze e privazioni. Anche l’anonimo recensore del Zürcher Post ne riconosce la centralità: «però la stella di questo Cabaret è Emmy Hennings. Stella di mille notti e di mille poesie. Come anni fa stava in piedi dinanzi a un giallo sipario frusciante di un cabaret berlinese, con le braccia allargate sui fianchi, florida come un cespuglio in fiore, così anche oggi presta il suo corpo alle stesse canzoni con fronte sempre più altera, ma rispetto ad allora un po’ più scavata dal dolore». Richard Huelsenbeck ammetteva candidamente: «I suoi couplet ci hanno impedito di morire di fame».

Questa centralità di Emmy Hennings-Ball nel periodo zurighese di Dada è stata però negata dalla storia. L’unica donna fondatrice del Cabaret Voltaire, culla del dadaismo, diviene un ombra appena nominata. Lontana dalle speculazioni dei colleghi uomini, più radicata nella prassi performativa appresa sui palchi di tutta Europa, Emmy lascia la scena alle teorizzazioni e alle sperimentazioni poetiche di Hugo Ball e Tristan Tzara. Eppure la troviamo ancora al centro quando il 17 marzo 1917 al n.19 della Bahnhofstrasse di Zurigo si inaugura la Gallerie Dada. Insieme al Hugo Ball lascerà la gallerie solo dopo undici settimane il 25 giugno per il Canton Ticino dove risiederà fino alla morte.

La vita di Emmy Hennings-Ball fino al fatidico 5 febbraio del 1916 era stata lastricata di dolore, privazione, povertà e persino umiliazione. E in tanto aere bruno tanto amaro “che è poco più morte” sempre il suo cammino è stato illuminato dalla fiaccola d’amore per la scena.

Nata a Flensburgo il 17 gennaio del 1885, appena adolescente sente il richiamo del teatro, passione che sostiene passando da un lavoro all’altro. A soli diciotto anni sposa Joseph Paul Hennings con cui abbandona ogni remora e si concede interamente alla vita d’artista. In soli due anni di matrimonio Emmy partorirà due figli. Il primo morirà nei primi mesi, la secondogenita Annemarie fu affidata alla nonna, dopo la separazione o, più probabilmente l’abbandono, del marito. Annemarie si ricongiungerà alla madre solo a Zurigo quando finalmente riuscirà a guadagnarsi una seppur frugale e precaria stabilità.

Per Emmy comincerà una vita nomade in varie compagnie che la condurranno in tournée per tutta Europa. Dopo aver conosciuto lo scrittore John Höxter, collaboratore della rivista letteraria d’avanguardia Die Aktion (testata su cui Emmy pubblico articoli e poesie), si trasferisce a Berlino. La capitale tedesca degli anni precedenti il primo conflitto mondiale è animata da svariate correnti artistiche, dall’Espressionismo alla Secessione, e i luoghi eletti al dibattito e discussione delle nuove idee artistiche non sono ampollosi centri accademici, né i luoghi deputati all’alta cultura, ma in quei luoghi equivoci, liminali, che saranno i Cabaret, spazi vergini in cui potranno confluire geni e reietti, ricchi mecenati in cerca di trasgressione e poveri anarchici senza un marco in tasca.

Quando si dice Cabaret non dobbiamo pensare a un genere specifico o a un lontano parente di Zelig. Erano per lo più caffè, bettole scalcinate, osterie, birrerie in cui si esibivano artisti votati a un’arte leggera, a volte malinconica, colma di allusioni e fascinazioni di libertà sessuale, il cui repertorio era formato da canzoni, poesie, numeri di varietà, musica dal vivo. Erano soprattutto luoghi di ritrovo, discussione e sperimentazione. Solo durante la Repubblica di Weimar, con l’abolizione della censura, i Cabaret innalzeranno il livello delle prestazioni artistiche e si trasformeranno in luoghi di dibattito politico oltre che artistico, tanto da attirare la rabbia dei nazisti che si affretteranno a chiudere i più eversivi (anche perché molti degli artisti erano di origine ebraica).

A Berlino Emmy Hennigs lavorerà principalmente a Cafè des Westens e al Neue Club prendendo parte al Neopatetische Cabaret dai toni decisamente espressionisti. È questo per Emmy un periodo di disordine: frequenta molti uomini, diventa morfinomane e dipendente dall’assenzio. Nel 1911 si ammala gravemente di febbre tifoide e una volta guarita si converte al cattolicesimo. La svolta religiosa non la allontana però dai disordini. Il lavoro teatrale non le garantisce entrate stabili. È costretta a fare piccoli lavoretti, commettere furti, perfino darsi alla prostituzione. È più volte arrestata e racconterà queste sue esperienze in due romanzi Gefängnis (Prigione del 1919)e Das Brandmal (Il marchio del 1920).

Da Berlino si trasferisce a Monaco dove lavora al cabaret Simplicissimus, locale frequentato da artisti del calibro di Frank Wedekind, Karl Kraus, Alfred Döblin divenendo l’amante dello scrittore rivoluzionario Erich Mühsam. Continua la vita tra accattonaggi, arresti per l’aiuto fornito ai disertori, la prostituzione. È in questo ambiente che farà conoscenza con Hugo Ball, legandosi definitivamente a lui. Nel 1915 la situazione si fa sempre più difficile e i due decidono di trasferirsi a Zurigo.

La città svizzera all’epoca era un crogiuolo di fuoriusciti provenienti da tutta l’Europa belligerante: ricchi capitalisti, rivoluzionari anarchici e comunisti (Lenin si trovava spesso al Cafè Terrasse a giocare a scacchi), artisti pacifisti (per esempio Romain Rolland). Nonostante la vitalità di Zurigo per Emmy Hennigs e Hugo Ball sbarcare il lunario risulta impresa difficilissima. Senza mezzi e senza amici vengono registrati dalla polizia come prostituta e protettore. Così Emmy Hennigs descrive quel primo periodo nei suoi diari: «All’epoca la città era quanto di più internazionale si potesse immaginare. Lungo il molo si sentiva parlare in tutte le lingue. […] Non senza invidia guardavamo la gente che dava da mangiare ai gabbiani e ai cigni. Preferisco non dire di cosa ci nutrivamo noi».

Nonostante queste privazioni e umiliazioni Emmy e Hugo, dopo aver provato a esibirsi in un paio di cabaret di Zurigo, decidono di aprire al n. 1 della Spiegelgasse nel quartiere di Niedersdorf il Cabaret Voltaire. In questo luogo, destinato a cambiare la storia delle arti del Novecento, i due coniugi troveranno finalmente notorietà, rispetto e un poco di tranquillità tanto da arrischiarsi a far venire dalla Germania la figlia Annemarie. Ecco come Hugo Ball descrive la nascita del celebre locale: «Sono andato dal signor Ephraim, il proprietario del Meierei, e gli ho detto: “per cortesia, signor Ephraim, datemi la vostra sala. Desidero fare un cabaret”. Il signor Ephraim era d’accordo e mi ha dato la sala. Allora sono andato da un conoscente e l’ho pregato di darmi un quadro, un disegno, un incisione, poiché desideravo fare una piccola esposizione connessa al cabaret. Sono andato dagli amici giornalisti di Zurigo e li ho pregato: “Diffondete alcune notizie. Deve diventare un cabaret internazionale. Vogliamo fare le cose per bene”. Mi hanno dato dei quadri e hanno pubblicato le mie notizie. Il 5 febbraio abbiamo avuto un cabaret».

Le serate erano un susseguirsi di canzoni per lo più cantate da Emmy Hennigs (soprattutto quando la situazione si scaldava per le provocazioni di Tzara, Janco e gli altri) e da M.me Leconte, lettura di poesie simultanee (come ad esempio il famoso L’amiral cherche une maison à louer di Tzara, Janco e Huelsenbeck), musiche di Shönberg, orchestre di balalaike, pezzi danzati per lo più dalle allieve di Laban, il quale, dopo il debutto del 5 febbraio era a dir poco entusiasta dell’operazione.

Emmy Hennigs oltre a cantare canzoni, eseguiva numeri con le marionette e leggeva alcune sue poesie. Il 29 febbraio insieme a Hugo Ball lesse La vita dell’uomo di Andreev. Così descrive la serata Hugo Ball nei suoi diari: «una pièce leggendaria, dolorosa, che amo molto. Solo i due protagonisti principali appaiono in carne e ossa, tutti gli altri come marionette da incubo. La pièce inizia con un urlo da parto e termina con una danza selvaggia di ombre e di larve. Persino il quotidiano rasenta l’orrore». E in una lettera alla sorella Maria Hildebrand – Ball: «L’altro ieri ho letto (insieme a Emmy) La vita dell’uomo di Andreev. Ci siamo chiesti se saremmo piaciuti. Ma è stato un tale successo che adesso ripeteremo la lettura il prossimo giovedì».

Le serate avevano sempre più successo ma nonostante le stranezze dei versi simultanei, delle poesie fonetiche di Hugo Ball (per esempio Gadij Beri Bimba ripresa dai Talking Heads nel 1979), gli strani costumi, le risse, le danze con le maschere di Janco la regina della serata è sempre Emmy Hennigs Ball: «Il successo più grande lo ha Emmy. I suoi versi vengono tradotti a Bucarest dove lei ha una numerosa colonia di amici. I francesi le baciano le mani. È amata incondizionatamente. Legge brani dalle poesie che ti abbiamo mandato […] Infine canta le sue piccole tenere canzoni». I brutti momenti sembrano alle spalle. In una foto del 1918 si vedono Hugo Ball e Emmy Hennings ritratti insieme in quello che sembra un parco. Lui fuma un mozzicone di sigaretta e con le mani alla vita sembra aver lo sguardo soddisfatto. Emmy, nel suo vestito semplice a righe, è invece di tre quarti. Sembra essersi voltata perché chiamata all’ultimo istante. Il suo volto è scavato, il corpo gracile, e gli occhi hanno una profondità che solo la sofferenza può dare. Lei non sorride. Sembra averne perso la facoltà. Forse avverte che quello che stanno vivendo è solo un breve istante.

In breve tempo infatti Ball e Tzara si allontanano e dissentono sempre più su come portare avanti il movimento. Oltre a divergere sulle funzioni del movimento a cui avevano dato vita, Tzara ormai era proiettato verso Parigi e Ball invece, convertito al cattolicesimo, si stava ormai dedicando alla teologia. Il 9 aprile 1919 si concluse l’ambiziosa avventura di Dada a Zurigo. Le danze di Susanne Perrottet (danzatrice e collaboratrice di Laban) su musiche di Schönberg e quelle di Käthe Wulff (altra allieva di Laban e partecipante all’esperienza comunitaria di Monte Verità ad Ascona) su coreografie di Sophie Taeuber Arp, ci parlano ancora di una partecipazione femminile al movimento Dada poco studiata e documentata.

Per Emmy Hennings e Hugo ball si apre la strada verso il Ticino, mentre il baraccone dadaista si dirige verso la capitale francese. Nel 1920 i due si sposano. Emmy inizia a pubblicare i suoi romanzi e le poesie. Collabora su alcuni giornali con scritti e pubblicazioni. Hugo muore nel 1927 e Emmy non si risposerà. Negli anni ticinesi, anni poveri in cui è costretta a lavorare come governante, stringerà amicizia con Hermann Hesse che non solo l’aiutò economicamente più volte, ma la ricordò come: «un usignolo e un piccolo angelo». Fu lui a pagare le spese per funerale e sepoltura nel piccolo cimitero di Gentilino accanto a Hugo Ball nell’agosto del 1947. A parlare di Emmy Hennigs Ball restano i suoi libri, testimoni della sua vita dolorosa negli anni berlinesi e monacensi, le sue poesie malinconiche, e i ricordi teneri del marito contenuti nei suoi diari. Gli storici del dadaismo sembrano invece dimenticare l’apporto e il sostegno che questa donna solo apparentemente gracile diede al movimento più irriverente e anarchico tra le avanguardie storiche.

Valentine de Saint-Point

Valentine de Saint-Point: futurismo e lussuria

|ENRICO PASTORE

Entrata in scena di Valentine de Saint-Point secondo Severini: «Quella sera montò sul palcoscenico della Salle Gaveau per illustrare il suo manifesto (della Lussuria nrd.). Era una elegante e bella donna, non più giovanissima, ma ancora in gamba, capace di mettere in pratica il suo manifesto con una notte di lussuria, e fare un’ora di scherma alla mattina, Quella sera portava un enorme cappello, il cui diametro era come quello di un ombrello, non solo largo, ma alto, pieno di piume, brillantissime».

Marinetti è ancor più affascinato nonostante tutto il suo “disprezzo della donna”: «sensualissima bocca giovanile sotto due immensi occhi verdi le cui ciglia rimando coi riccioli d’oro a diadema di perle autentiche si richiamano alla sontuosità di un calzare d’argento a sinistra e all’anello pesante occhiuto e scintillante che invetrina il più bel piede di donna del mondo». Di sicuro Valentine de Saint Point sapeva attirare lo sguardo del pubblico. E sapeva rubare la scena, se dobbiamo stare alle parole della giovane moglie di Marinetti, Benedetta, la quale, dopo averla incontrata col marito al Cairo negli anni Trenta, disse ingelosita e senza mezzi termini: «Una donna che esalta la prostituzione e che canta la lussuria, non mi pare che stesse al suo posto in mezzo a noi!».

Il matrimonio cambiò Marinetti ma non Valentine de Saint-Point che dopo averlo ricercato per guadagnarsi l’indipendenza, se ne disfece in fretta per amor di libertà. Valentine de Saint-Point (il cui vero nome era Anne Jeanne Valentine Marianne Desgalns de Cassiat-Vercell) fu, fin da giovanissima ,uno spirito incapace di piegarsi alle gabbie della consuetudine, ai costumi prudenti e castigati, ritta come torre ferma di fronte al vento forte dei pettegolezzi e delle maldicenze della cosiddetta buona società.

Nata nel 1875 e orfana di padre in tenera età, si sposò a soli diciotto anni con un uomo ben più anziano di lei. Il professore di lettere ebbe il buon gusto di morire solo sei anni dopo e Valentine si risposò con un collega del marito, professore questa volta di Filosofia, da cui divorziò solo quattro anni dopo. Imparata la lezione si diede in libera unione con il critico italiano Ricciotto Canudo con cui divise gli anni accesi della sua vicinanza al futurismo.

Nel mondo artistico non entrò però nel 1912 con i suoi manifesti, futuristi solo a posteriori e per appropriazione marinettiana. Vi era entrata con tutti gli onori come poetessa di cui Apollinaire diceva, già nel 1908 all’uscita dei Poèmes d’Orgueil: «ha innalzato mirabili canti lirici, talvolta aspri come profezie» e ancor prima come romanziera con una Trilogia sull’Amore e sulla Morte e come musa di Rodin su cui scrisse un saggio ambiguo apparso sulla Nouvelle Revue dal titolo La doppia personalità di Auguste Rodin.

Innovativo per le visioni esposte e prova della vis polemica di Valentine è un articolo apparso su Les Tendances Nouvelles del 1913 dal titolo Il teatro della donna, Valentine afferma senza mezzi termini come nel teatro a lei contemporaneo la donna sia a dir poco annichilita: «evocata quasi esclusivamente come oggetto del desiderio». Esempio lampante è l’insistenza sul tema dell’adulterio attraverso cui; «la donna prende un amante perché è elegante, o semplicemente per curiosità di qualche nuovo divertimento […] e se la situazione si compromette, la donna si dà alle lacrime come un bambino sorpreso in una malefatta e di cui si limita a chiedere scusa». Nella drammaturgia teatrale secondo Valentine si manifesta tutto il dominio posto dall’uomo sulla donna ingabbiata e vittima di una visione maschile pregiudiziale. E la figura emblematica di tale visione di una donna prigioniera dei sentimentalismi svenevoli e passivi cari all’uomo è nientemeno che il vate Gabriele D’Annunzio. Per Valentine il teatro della donna era ancora tutto da scrivere.

Questo articolo sul teatro e la donna è il preambolo dell’incontro tra Valentine e il futurismo italiano. Se in linea di principio vi era certa aria comune tra Marinetti e Valentine de Saint-Point, (il mito della guerra, il sospetto verso le suffragette e il parlamentarismo femminile), tale similitudine regge solo a un primo sguardo. Le divergenze appaiono nette proprio rispetto al ruolo giocato dalla donna. E fu quindi in risposta al primo Manifesto del 1909, dove al punto nove si proclama appunto il “disprezzo della donna”, che Valentine scrisse il suo Manifesto della donna futurista in cui afferma senza mezzi termini: «La maggioranza delle donne non è superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Essi sono uguali. Tutti e due meritano lo stesso disprezzo. […] È assurdo dividere l’umanità in donne e uomini, esso è composto soltanto di femminilità e mascolinità». Valentine orienta il proprio pensiero non verso una guerra dei sessi ma piuttosto verso la riscoperta del mito dell’androgino, caro a circoli teosofici e misterici parigini.

L’idea di donna proposto è lontano dalle svenevolezze o dalla fragilità. I suoi modelli sono: «Le Erinni, le Amazzoni, le Semiramide, le Giovanna D’Arco, […] le Giuditta e le Charlotte Corday; le Cleopatra e le Messalina, le guerriere che combattono più ferocemente dei maschi». L’idea della donna forte deriva dalla convinzione della lotta impari posta di fronte all’universo femminile per far emergere il proprio talento nonostante gli ostacoli posti sul proprio cammino dagli uomini e dalla natura.

Una donna combattente quindi, per niente succube dei maschi e padrona dei propri desideri, soprattutto sessuali. Questa determinazione a illuminare la forza dell’eros dal punto di vista della donna era già ampiamente espressa nel suo romanzo La femme et le désir del 1910.

Valentine rimprovera agli attacchi misogini di Marinetti e compagni, contenuti nei vari manifesti futuristi, di aver dimenticato la potenza di Eros, il figlio di Poros e Penia, colui che nulla possiede se non i propri espedienti e la propria intelligenza, forza vitale primordiale, generatrice e innovatrice. Come nel Simposio platonico secondo l’opinione di Fedro: «nessuno è così vile cui amore in persona non accenda di fiamma divina. Così, quell’uomo diventerà eguale a chi è per natura valorosissimo», per Valentine de Saint-Point è la lussuria, non più intesa come vizio, lo stimolo per le grandi imprese delle anime forti al di là del sesso di appartenenza. E per questo :«si deve fare della lussuria un’opera d’arte fatta, come ogni opera d’arte, d’istinto e di coscienza». Non è dunque un peana all’imperio dei sensi ma padronanza composta di volontà cosciente e abbandono estatico.

Valentine aveva fatto apparire il suo Manifesto della Lussuria prima su Le Figaro e poi a Milano in forma di volantino quasi a ripercorrere i passi di Marinetti, il quale la ammise nel direttivo del Futurismo, movimento nel quale, oltre alla Marchesa Casati: «occhi di giaguaro che digerisce al sole la gabbia d’acciaio divorata», non annoverava altre donne, se non fedeli servitrici e segretarie. Fan e difensore delle teorie di Valentine in Italia fu Italo Tavolato, il Karl Kraus di Trieste che nel 1913 sulle pagine di Lacerba difenderà a spada tratta il Manifesto della Lussuria nella sua Glossa e lo fece utilizzando gli stilemi del Credo cattolico: «Io credo nella comunione carnale che vivifica lo spirito, nella remissione delle virtù, nella vita terrena. Amen».

Valentine de Saint-Point però non si sentì mai pienamente parte del movimento futurista e presto le sue strade si dirigeranno verso altri lidi. Devota al Cerebrismo, teoria artistica propugnata dall’amante Ricciotto Canudo, si diede alla danza inventando la Métachorie, movimento astratto del corpo nello spazio senza accompagnamento musicale in contrappunto alla parola poetica. Nel Manifesto della danza Marinetti criticherà aspramente tali esperimenti: «Valentine de Saint-Point concepì una danza astratta e metafisica che doveva tradurre il pensiero puro senza sentimentalità e senza ardore sessuale. La sua Métachorie è costituita da poesie mimate e danzate. Disgraziatamente son poesie passatiste […] astrazioni danzate ma statiche, aride, fredde, e senza emozioni». Nonostante la riprovazione di Marinetti, Valentine portò i suoi esperimenti in tournée in tutta Europa e negli Stati Uniti.

La strada di Valentine, artista a tutto tondo e femminista sui generis, procedette verso orizzonti distanti dall’arte. Questo non prima di aver dato alle stampe una tragedia “L’anima Imperiale o l’Agonia di Messalina” che prova a dar forma a una delle donne modello del suo manifesto. Poi si spinse nei territori della spiritualità, dapprima cercò di fondare un tempio delle spirito in Corsica e poi, in seguito alla stretta amicizia con René Guenon, trasferendosi a Il Cairo dove si convertì all’Islam prendendo i nome di Rouhya Nour El Dine. Dimenticata da tutti visse i suoi ultimi anni libera ma indigente. Morì in Egitto, terra natale di Marinetti, sola e in povertà.

Il suo nome oggi è quasi del tutto dimenticato, relegato in poche righe e qualche citazione nelle opere dedicate al Futurismo, come se ne avesse fatto parte a tutti gli effetti o come fosse una semplice curiosità esotica. In realtà Valentine de Saint-Point condivide il destino di molte altre donne, affiancate ai movimenti di avanguardia dal mondo maschile più che dalle proprie opere o convinzioni. A volte venne loro affibbiato un ruolo passivo di mute muse, altre furono semplicemente considerate figure di sfondo, rarità poco influenti, non riconoscendo loro alcun originale apporto al pensiero dei fondatori maschi. In realtà Valentine de Saint-Point, così come Leonor Fini, Leonora Carrigton o Remedios Varo per il surrealismo, e come Emmy Ball-Hennigs per il dadaismo, non erano le vallette o le mascotte dei movimenti artistici, erano esse stesse grandi artiste, con proprie idee, e volontariamente rifiutarono di essere incasellate in modalità cui parteciparono ma non abbracciarono interamente. Tutte loro furono voci in contrappunto con le posizioni dominanti e cercarono di portare un punto di vista diverso alle questioni poste dai colleghi uomini. Solo in questi ultimi anni si sta compiendo una rivalutazione del loro ruolo, riportandone alla luce il valore e l’indipendenza di pensiero. Possiamo solo augurarci come Valentine de Saint-Point che:«i sentieri tracciati possano divenire larghi viali, grazie a coloro che ci seguiranno e che avranno tentato».

Vera Komissaržèvskaja: lo spirito del gabbiano

|ENRICO PASTORE

Čajka, gabbiano in russo, è sostantivo femminile, e nessuno seppe incarnare il suo spirito come Vera Komissaržèvskaja. Fu lei a salvare la prima de Il gabbiano all’Aleksandrinskij di Pietroburgo il 17 ottobre 1896 da un fiasco senza appello benché, per l’ostilità del pubblico, la sua voce fosse solo un sussurro. La sua Nina, delicata, colma del lirismo e delle contraddizioni insufflati da Čechov, fu l’unico personaggio ad emergere in un mare di mattatori miranti solo a far brillare il proprio ampolloso accademismo.

Vera Komissaržèvskaja fu sempre legata a Il gabbiano fino a far coincidere la sua vita con le sue atmosfere e aspirazioni. L’ultimo suo telegramma prima della morte ci racconta di un innamoramento mai cessato: «nell’universo eterno e immutabile resta soltanto uno spirito – Čajka».

Vera Komissaržèvskaja nacque a Pietroburgo il 27 ottobre 1864 in un famiglia di cantanti lirici. Da loro forse ereditò la bellissima voce, con toni morbidi, avvolgenti, tanto ammirata dai poeti simbolisti e dal suo sterminato pubblico. Stanislavskij la ricorda appartata da tutti a cantare nostalgiche canzoni tzigane alla chitarra durante le prove de I frutti dell’istruzione, dove avevano recitano insieme nel 1891.

Benché ai suoi funerali tutti la ricordarono, nelle corone che accompagnavano il feretro, come una donna fragile come un fiore, un giglio infranto o un bianco mughetto, ella fu forte, impavida, capace di fare scelte difficili e gestirle con sicurezza. Ella piuttosto personificava le contraddizioni di un’epoca come ricorda Znoska Borodin: «Incarna un tipo di donna nuova che, come Nora, afferma la sua personalità, proclama il suo io e parte alla conquista dei suoi diritti […] ma in lei si esprime anche tutta l’angoscia di un’epoca catastrofica».

La Russia infatti all’inizio del secolo Venti era dilaniata da lotte sociali che sfociarono in moti tumultuosi anticipanti quella Rivoluzione d’Ottobre ch’ella non vide mai. Il teatro rifletteva le dinamiche contraddittorie di un nuovo che lottava per nascere e di un vecchio sistema duro a morire. Il suo animo perennemente alla ricerca dell’altezza risultava eternamente insoddisfatto, incapace di trovare nella realtà la base per far emergere le sue alte aspirazioni.

Lunačarskij scrisse: «non poté mai scollarsi dalle ali del proprio talento una cenere di lutto», e Blok, parlando dei suoi splendidi occhi che tanto sapevano ammaliare chiunque la guardasse: «Vera Fedorovna Komissaržèvskaja vedeva molto più lungi di quanto potesse un occhio comune, non avrebbe potuto altrimenti, perché aveva negli occhi una scheggia di specchio magico, come il ragazzo Kaj della fiaba di Andersen. Perciò questi grandi occhi azzurri ci affascinavano tanto: il suo sguardo alludeva a qualcosa di immensamente più grande di lei stessa». Lo specchio della Regina delle Nevi però inquinava i pensieri e i cuori, creava angoscia e insoddisfazione, mali di cui Vera mai seppe liberarsi.

Nel 1902 diede l’addio all’Aleksandrinskij dove recitò per lunghi anni. Benché i maligni ricondussero quella scelta a un’insanabile malanimo con la Savina, sua acerrima nemica, in realtà Vera Komissaržèvskaja non trovava più stimolo a recitare secondo i vecchi schemi accademici. Nemmeno i rivoluzionari esiti del Teatro d’Arte riuscivano a infiammarla e fu così che decise di aprire un suo proprio teatro in via Oficèrskaja a Pietroburgo. Il Teatro Drammatico durò solo due stagioni e nella sua breve storia riuscì, con alterne fortune e querelle mai sopite, a far emergere tutte le contraddizioni di un’epoca in cui visioni contrapposte dell’arte scenica si confrontavano senza esclusione di colpi.

Vera Kommissaržèvskaja era vicina ai poeti simbolisti ospitati regolarmente nel suo salotto il sabato: Blok, Kuzmín, Sologub, tra i poeti, ma anche pittori e scenografi del gruppo Mir Iskusstva come Bakst e Sapunòv. In un primo tempo però cercò, per il suo nuovo progetto, di conquistare alla causa Čechov, il quale resistette. Fu questo rifiuto a spingerla definitivamente verso l’obiettivo di dar vita alla scena simbolista. Per raggiungere il suo scopo ella non vide altro regista capace dell’impresa se non Mejerchol’d. In comunenutrivano i dubbi verso il sistema di Stanislavskij.

Mejerchol’d giungeva a Pietroburgo proprio dopo aver abbandonato il Teatro Studio ed era già attirato nell’orbita simbolista. Vera per battere tutti sul tempo lo volle incontrare a Mosca nel 1906 ed entrambi si infervorarono per il nuovo progetto di stagione da cominciarsi nell’autunno. Questo fervore non durò a lungo perché tra i due doveva conflagrare il conflitto tra il talento di una grande attrice e i dettami della nuova regia. Inoltre Mejerchol’d avrebbe iniziato il suo periodo immobilista e gelido non propriamente adatto alle corde di Vera.

Suor Beatrice, Hedda Gabler, Pelleas e Melisande, sono tutte opere in cui la critica e il pubblico non videro altro che lo strapotere di un regista che soffocava il talento di un’attrice immensa caduta in sua balia. In verità i documenti e le lettere ci disegnano un quadro molto diverso in cui Vera appare tutt’altro che un fragile colomba nelle grinfie di un rapace.

Vera Komissaržèvskaja si mostra come una impresaria capace, decisionista, con un talento innato nel comprendere le regole non scritte del teatro (decidere per esempio se un debutto facesse più scalpore a Mosca o a Pietroburgo). Soprattutto era lei ad assegnare le parti, e decisamente appare per niente supina alle decisioni di Mejerchol’d. Suggerisce, indica, propone, attenta ai minimi particolari. Il dissidio con il regista era piuttosto estetico e metodologico. Vera non poteva né voleva andare laddove Vsevlod Emil’evič si stava dirigendo: il teatro convenzionale.

Una prova di questo fu proprio Balagànčik (il baraccone) di Blok, la prima opera del regista a utilizzare le maschere della Commedia dell’Arte e la pantomima, evocando un teatro di burattini. Non fu un caso se Vera non recitò, e nemmeno fu un caso che la Verigina, giovane attrice anche lei insoddisfatta dal Teatro d’Arte, descriva lo spettacolo e il lavoro del regista con voce piena di entusiasmo. Due grandi flutti della storia convergevano e lo scontro era inevitabile. Lo spettacolo infatti fu causa di una grande alzata di scudi tra i simbolisti, sia Belyj che Blok lo criticarono. Il pubblico si divise. La rottura era inevitabile.

:«Negli ultimi giorni, Vsevlod Emil’evič, e io ho pensato molto e sono giunta a una profonda convinzione, che noi due vediamo il teatro in modo diverso, quel che Voi cercate, non è quel che io cerco. La strada che porta ai fantocci, questa è la strada che Voi avete percorso in tutto questo tempo […] ciò mi si è rivelato in pieno in questi ultimi giorni, dopo lunghe meditazioni. Io guardo il futuro negli occhi e affermo, che per questa strada noi non possiamo procedere insieme». Con queste parole Mejerchol’d fu licenziato. Chiese pubblicamente sul giornale Rus’ un arbitrato che gli fu concesso. Stanislavskij stesso era nella commissione la quale deliberò a favore della Komissaržèvskaja.

Vera però aveva visto giusto. Il teatro a cui lei aspirava non era più in vista. Le sperimentazioni del Teatro d’Arte, di Mejerchol’d e di tutto ciò che sarebbe venuto dopo il 1917 non erano più un luogo in cui un’artista come lei avrebbe trovato spazio. Stava giungendo il tempo del baraccone non del tempio dell’arte.

Vera lo capì e nel 1909 decise di lasciare le scene: «Mi ritiro, perché il teatro in quella forma cui esiste oggi – ha smesso di sembrarmi necessario, e la strada, che intrapresi alla ricerca di nuove forme, ha cessato di parermi vera». Decise un’ultima tournée che la portò nelle più remote province dell’impero fino a Samarcanda e Taskent. In queste città della Via della Seta la compagnia contrasse il vaiolo. Vera soccorse i suoi colleghi e recitò finché anche lei fu colpita dal morbo che la ricoperse di croste e pustole suppuranti. Perì il 10 febbraio 1910, nello stesso anno in cui morì Tolstoj. Si stava spegnendo il vecchio mondo e il nuovo stava per nascere con un ruggito di cannone.

I funerali durarono giorni. A ogni stazione folle commosse lanciavano fiori e versavano lacrime. Decine di migliaia parteciparono alle esequie rendendo omaggio a una donna che volle a tutti i costi cercare un teatro necessario, un teatro riformato dalle abitudini desuete dell’accademismo dei teatri imperiali. Purtroppo in questa lotta perì molto prima di contrarre la malattia. Il nuovo che cercava era già diventato vecchio, e il nuovissimo non era più per lei. Il suo talento immenso fu stritolato da due terribili zolle tettoniche e non ebbe scampo.

Mejerchol’d lo capì e scrisse: «In effetti ella morì, non di vaiolo, ma del male di cui morì Gogol’ – l’angoscia. L’organismo stremato dallo squilibrio tra la forza della vocazione e i reali compiti artistici, assorbì il contagio. Anche Gogol’ aveva una malattia con un lungo nome latino, ma che c’entra?».

Tutto questo non toglie meriti alla lotta di Vera Komissaržèvskaja, una donna di grande talento che seppe dar voce alle contraddizioni della propria epoca, un tempo storico tremendo per molte nazioni: il finis Austriae, il liberty, la belle epoque, un mondo sul baratro di un capovolgimento che avrebbe cambiato tutte le regole del gioco, in Russia più che altrove. Vera Kommissaržèvskaja ebbe il coraggio di combattere per i suoi ideali artistici e per questo, nonostante fosse una diva, intraprese le strade più difficili. Ne uscì sconfitta? Ognuno può rispondere secondo sentimento. Personalmente credo che non si possa parlare di fallimento. Fu un tentativo meritevole e le due brevi stagioni del suo teatro diedero luogo non solo a esperimenti simbolisti interessantissimi e preziosi, ma misero a nudo le grandi questioni che stavano nascendo: quale il rapporto tra la regia e gli attori? Quali quelli tra testo scritto e scena? Quale il ruolo del teatro nel proprio tempo? Cosa doveva nascere dopo il naufragio dei teatri accademici?

Se Stanislavskij aveva la sua ricetta e se Mejerchol’d stava trovando la sua, Vera Komissaržèvskaja cercò infaticabilmente le risposte senza riuscire a trovarle. Ella incarnò le contraddizioni della sua epoca, e fu suo grande merito cercare di sanare due mondi inconciliabili. Come Nina restò tra Trigorin e Treplev e per tutta la vita si immedesimò con quel gabbiano morto a cui cercò, instancabile di ridonare la vita.

Madeleine G

Madamigella Luisa e Madeleine G: le sonnambule danzanti

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|ENRICO PASTORE

Quando Franz Anton Mesmer, verso la fine del Settecento, divulgò la sua teoria sul magnetismo animale, mai avrebbe pensato alle influenze e ricadute nel campo dell’arte e della danza in particolare.

L’ipnosi, da lui pensata come effetto magnetico di un fluido universale, era da lui concepita come utile solo in campo medico come cura alternativa. E se tra i medici lo scetticismo prevalse all’entusiasmo, in campo artistico lentamente la sua teoria fece strada riportando al centro la questione del corpo espressivo.

Mozart, amico di Mesmer, ne Le nozze di Figaro, fa un breve accenno ironico al magnetismo, ma ancora non si rivela l’aspetto più inquietante e affascinante del fenomeno. Sarà Bellini nel 1831 con La Sonnambula a introdurre, seppur inconsciamente, la questione: Amina sonnambula è responsabile delle sue azioni? Quanto dell’anima si rivela in uno stato incosciente?

A palesare uno stato ancora più allarmante e perturbante sarà Edgar Allan Poe con due racconti che indagano la soglia della morte in stato ipnotico: se il corpo è morto, l’anima o la coscienza parlante dove sono? Corpo e anima sono una cosa sola? O come affermavano i meccanicisti da più di due secoli il corpo non è nient’altro che un orologio? Descartes diceva senza mezzi termini: «io non sono questo corpo». Ma non era l’unico: partendo da Vesalio autore del De humani corporis fabrica nel 1543, passando da Lutero a Pascal, da Hobbes a Newton, i grandi filosofi e scienziati dei secoli XVI, XVII e XVIII si prodigarono nella dimostrazione che nella coscienza risiedeva la natura umana e non nel corpo, semplice strumento la cui rottura non doveva commuovere più che quella di un aratro. Descartes per dimostrare il suo assunto si diede alla vivisezione di animali vivi asserendo che non avvertivano dolore non avendo coscienza.

Quello che filosofia e scienza volevano mettere in soffitta erano le credenze magiche, la possibilità di influsso dell’anima sul corpo, l’idea insomma che tra cielo e terra ci fosse molto di più. La natura e il corpo umano erano macchine prevedibili, comprensibili, studiabili, quantificabili. L’irrazionale e l’incomprensibile venivano banditi, per lo meno nell’alta società colta, mentre nei ceti bassi e rurali resisteva quello che potremmo chiamare, citando De Martino, il pensiero magico.

Mesmer e la sua teoria aprirono improvvisamente una porticina in questa fortezza inespugnabile di certezze, un pertugio di cui approfittarono prima i medici e poi gli artisti. Nell’Ottocento prima in Francia, poi in Italia e Germania, cominciarono ad apparire, nei salotti e in seguito nei teatri, strani spettacoli nati dalla giunzione di scienza e arte che furono causa di accesi dibattiti.

Un caso fu la coppia formata da Auguste Lassagne, ex-prestidigitatore, e la moglie sonnambula Prudence Bernard. Si esibirono in Italia nel 1850 prima creando scandalo in Torino, dove numerosi scienziati e medici, proposero con una scommessa di smascherare gli imbroglioni. Ovviamente la sfida andò a monte, ma in Milano, al Ridotto della Scala, lo spettacolo interessò nientemeno che il Manzoni, il quale ne fu così impressionato da tentare esperimenti in prima persona su una sua serviente ventenne nella sua villa di Lesa a cui assistette anche il Rosmini. Non solo: nella sua casa di Milano invitò a esibirsi la coppia Italiana formata dallo Zanardelli con la figlia Elisa.

Dai salotti fu breve il salto sui palcoscenici dei teatri. A partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento Francesco Guidi e Madamigella Luisa di esibirono in lunghe tournée tanto da approdare al Valle di Roma nel 1872. La loro esibizione constava di tre sezioni (modello desunto dai francesi e poi mantenuto dai successori): esperimenti fisiologici (catalessi, anestesia, abolizione dei sensi, etc.), esperimenti psicologici (chiaroveggenza) e un’ultima parte, la più importante per il nostro discorso, chiamata estasi musicale in cui Madamigella Luisa, accompagnata da musica eseguita dal vivo al pianoforte, si tramutava in statua offrendo al pubblico immagini di rara potenza emotiva. Si aprivano le porte al meraviglioso e a tutta una serie di interrogativi e questioni tutt’ora al centro del dibattito.

Prima di passare tali questioni in sommario esame, dobbiamo fare una necessaria premessa. Quello che emerge da queste esibizioni non importa fosse vero o fosse illusione premeditata. Per il pubblico e per gli osservatori l’effetto ammaliante era indiscusso e fortemente presente. Solo gli scienziati si affannavano a screditare tali spettacoli in quanto mettevano in crisi secoli di concezione meccanicista e razionalista del corpo e della medicina, anche se in effetti ci furono numerosi ciarlatani finiti sotto processo e di costoro se ne fecce beffe persino Petrolini.

Proviamo dunque a elencare i motivi di attrazione e di discussione, alcuni dei quali ritornano nei dibattiti odierni sul ruolo della donna. Innanzitutto il tema della bambola animata o dell’automa. La donna danzante sotto ipnosi suscita nel pubblico una fascinazione ambigua verso un corpo animato da fili invisibili in uno stato comatoso che ricorda la marionetta. Uno stato artificiale tra la vita e la morte di cui oggi troviamo traccia nelle IA o nei robot della nuova fantascienza in cui la vita sintetica è quasi sempre femminile, in quanto esempio di alterità fonte di inquietudine.

Secondo aspetto: la finta morte. Poe nei suoi racconti del mistero e dell’orrore esprime proprio questo aspetto nel ritrarre il signor Valdemar o in Rivelazione mesmerica. Se il corpo è morto la coscienza è viva? Cosa anima il corpo? Sembrano questioni dei massimi sistemi ma pensiamo alla temperie culturale della seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento dove movimenti occulti, spiritisti, antroposofici si interessavano morbosamente di questi temi.

Ultimo: una danza o delle pose plastiche in cui l’anima, l’emotività si rivela nel corpo senza l’intervento di una ragione cosciente riportano alla memoria questioni che la scienza e la religione credevano aver sepolto per sempre. L’estasi musicale restituisce il ricordo dei culti misterici, delle pizie, delle baccanti, persino delle streghe. Un irrazionale magico in cui l’azione della psiche agisce sul corpo portatore del divino estatico. Il teatro, come scrive Clara Gallini, ridiventa il luogo del meraviglioso. Da sottolineare che tale emersione avviene, nella quasi totalità dei casi, attraverso il femminile. La donna e il suo corpo, pur se sotto la maschera imposta dell’isteria e della malattia mentale, torna a essere terreno fertile per l’immaginazione inconscia, la creazione istantanea del bello non razionalmente concepito. Purtroppo non dobbiamo dimenticare come in queste esibizioni vi fosse nel pubblico e nella critica un certo voyeurismo stimolato da una sessualità inibita soprattutto nel femminile.

La vera esplosione di interesse e le principali ricadute in campo artistico avvengono però nel Novecento quando sulle scene prima francesi e poi tedesche (dove esplode il fenomeno), fa la sua comparsa nei teatri il duo formato dal dottor Magnin e da Madeleine G., una giovane madre di due figli, di origine russa, con qualche rudimento di danza classica come ogni rampolla di famiglia borghese, e affetta da ricorrenti mal di testa. Magnin scoprì che sotto ipnosi Madeleine G. reagiva alla musica e alla poesia danzando in un modo spontaneo, ricco di emozioni, fuori da ogni canone estetico e tecnico allora praticato.

Proprio questa capacità coreutica estremamente emotiva, capace di esprimere l’inconscio con tale potenza, colpì come un maglio l’ambiente artistico mitteleuropeo dove già con il Simbolismo stava aprendo la porta verso il mondo del mistero, dell’irrazionale e dell’immaginazione. Quando Madeleine G. appare sulle scene di Monaco di Baviera nel 1904 si scatena l’ammirazione e la sorpresa. George Fuchs parla apertamente di ebbrezza dionisiaca, mentre molti critici affermano l’identità dello stato della giovane danzatrice inconsapevole con l’artista preso dal proprio mondo immaginativo e creativo.

Inoltre affascina il binomio, tanto caro a Thomas Mann, tra malattia e arte. Ma sarà soprattutto questa porta aperta verso l’inconscio a influenzare il nascente Espressionismo, per non parlare delle teorie della nuova danza, prima fra tutte quella di Rudolf von Laban e l’idea del Körperseele, del corpo vestito dell’anima. Nella comunità di Monte Verità ad Ascona, Laban, Charlotte Bara e Mary Wigman indagarono a lungo e profondamente questa emersione dell’irrazionale e dell’inconscio nella danza.

Una porta una volta aperta diventa un passaggio entro cui passeranno in molti. Pensiamo a Dada e al Surrealismo, dove l’inconscio e l’automatismo giocano un ruolo fondamentale nello scardinare gli accademismi imperanti. Nel Surrealismo poi la donna è protagonista, sia come musa ispiratrice (si pensi a Max Ernst) ma soprattutto ai contributi delle artiste portatrici di una visione magica, sciamanica, animale come Leonora Carrington, Leonor Fini, Frida Kahlo, Remedios Varo, giusto per fare qualche esempio.

Madamigella Luisa e Madeleine G. sono state pioniere inconsapevoli di un nuovo sentire, di un rapporto diverso con il corpo, di una visione innovativa dell’immaginario artistico nel secolo che stava iniziando. Dimenticarsi delle sonnambule danzanti significa rimuovere non solo un momento fondamentale nella storia delle arti, ma una scarto decisivo verso una liberazione della femminilità dai gioghi imposti dal maschilismo per secoli.

Probabilmente tutto questo non era nelle intenzioni di nessuno dei protagonisti di tali esibizioni. Illusione, meraviglia, mistero erano alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, parte di una nascente spettacolarità, certo relegata ai margini del milieu culturale, ma presenti ed influenti. Non sempre un cambio di prospettiva nasce da un progetto. A volte le cose accadono perché i tempi sono pronti e perché è necessario.

Ricordiamo dunque le sonnambule e il ruolo da esse giocato nel ridefinire i ruoli della donna nella nostra società non ancora liberata dai pregiudizi, e dove la femminilità è ancora considerata qualcosa di alieno da possedere e dominare.