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Il pranzo della domenica di Serena Balivo e Mariano Dammacco

Kantor diceva che il Teatro parla sempre della morte. E non perché si rappresentino delitti, tragedie o pietose morti. Il teatro ci mette in comunione con il senso della nostra finitezza. Dal buio sorgono le immagini e i personaggi che, dopo un flebile soffio di vento, ritornano nell’ombra. Come scriveva Shakespeare siamo tutti attori che si pavoneggiano e si agitano sul palcoscenico per il tempo a noi assegnato, e poi nulla più s’ode. Vita e teatro si rispecchiano. Non è finzione, è menzogna che si fa verità di carne.

La morte ovvero il pranzo della domenica, di Mariano Dammacco, interpretato superbamente da Serena Balivo, ci fa sentire fin da subito la presenza della Signora in nero. Quelle bottiglie sul fondo del tavolino fanno tanto pensare a quelle di Morandi, così ordinarie, vuote, abbandonate. E quando compare lei, con la sigaretta, seduta al tavolo con gli occhi fissi, emerge anche la figura di uno dei giocatori di carte di Cezanne. Su quel tavolo appaiono una selva di nature morte. Tutto in quell’immagine, così semplice e così ordinaria, ci riporta alla stasi della tomba.

La donna seduta, non più giovane, ci racconta del suo pranzo domenicale, appuntamento che non vuole perdere per nulla al mondo. Un pranzo con i genitori ultranovantenni di cui ci viene raccontato con dovizia di particolare tutto il menu. È una stazione di un viaggio verso la morte. I vecchi si stanno preparando al funerale, lo sognano, mentre la figlia cerca di esorcizzare il momento. È raggelante, benché in alcuni momenti il racconto ti obblighi a sorridere.

Quei genitori sono i nostri. Li possiamo riconoscere. Io per esempio non ho potuto non pensare a mia madre, le sue polpette divine, il suo sentirsi in dovere di metterti al corrente di tutte le tragedie di cronaca e della situazione geopolitica mondiale. È noiosa, a volte, ma cerchi di sopportare perché sai che un giorno quei discorsi ti mancheranno. E poi le fissazioni, l’ordine maniacale, il senso del decoro, tutti ci ricorda genitori comuni, condivisibili, e per questo quell’ansia di morte che pervade la scena è così opprimente che se non ci fossero le risate sarebbe insopportabile. L’ipostasi della Jouissance di Lacan, quella terra oltre il confine del piacere, dove il godimento è inestricabilmente connesso con il dolore.

La morte ovvero il pranzo della domenica, rende vivi e concreti i nostri timori. Quella sensazione orribile, riassunta da Serena Balivo nell’immagine dei saluti dalla finestra, che ti attaglia talvolta nel pensare: “forse è l’ultima volta che ci vediamo”. Ridere di queste sensazioni è il più grande risultato del teatro, ribaltare l’angoscia nel suo contrario, vincere la paura della morte confrontandosi con lei faccia a faccia.

Lo spettacolo però non è solo il racconto, è soprattutto il corpo dell’attore. Serena Balivo ha il perfetto controllo delle sue capacità espressive. Riesce a padroneggiare una gestualità vivace, colorita, intensa e difficilissima, in quei movimenti a scatto, come di marionetta, in quei repentini congelamenti dell’azione, non come se ci fosse un ripensamento, ma come se nel frattempo si sia riscritta la programmazione, nelle routine e i loop, come leitmotiv e frasi poetiche, che si stagliano in contrapposizione alla narrazione. Il dosaggio sapiente dei toni e delle espressioni rende il racconto avvincente anche se in fondo si racconta niente di diverso di un semplice pranzo domenicale con il suo arrosto con le patate e pastine con l’amaro e il caffè a chiudere.

Un pranzo che è consueto ma anche arcaico. E non solo perché il legame tra il cibo e i morti sia stretto ancor oggi, ma in quanto il timore di non aver fatto “tutto per bene”, come dice il padre della donna, ci accomuna ai nostri avi. Il non essere ricordati, non aver meritato questa vita agli occhi di chi rimane, forse è paura ancor più forte della morte stessa. E questo pranzo della domenica ce lo ricorda ossessivamente.

Mariano Dammacco e Serena Balivo sono riusciti a creare un lavoro che coniuga la leggerezza della serenità con il panico generato dal timore della perdita. Come spettatori ci si sente dilacerati dal piacere e dall’orrore. Solo il Teatro con la maiuscola, quello evocato da Kantor all’inizio di queste riflessione, può osare tanto. È raro incontrarlo ma quando succede provi la strana sensazione di una gioia mista a inquietudine. Ma questo è il suo compito. Come diceva Artaud il teatro ha il dovere ricordarci che il cielo può caderci in testa ogni minuto.

La morte ovvero il pranzo della domenica

Torino, Cubo Teatro | 17 gennaio 2025

Durata 60′

Uno spettacolo con Serena Balivo
Ideazione, drammaturgia e regia Mariano Dammacco
Musiche originali Marcello Gori
Consulenza spazio e luci Vincent Longuemare
Oggetti di scena Andrea Bulgarelli / Falegnameria Scheggia
Foto di scena Angelo Maggio
Ufficio stampa Maddalena Peluso
Produzione Compagnia Diaghilev
Con il sostegno di Spazio Franco (Palermo) e di Casa della Cultura Italo Calvino (Calderara di Reno)

FACCIAMOLA FINITA CON LA CRITICA TEATRALE

Questo scritto inizia con una confessione dolorosa e finisce con una scommessa. E viola fin dal principio la regola non scritta secondo cui è meglio in un articolo non parlare di sé. La questione però è sia personale sia generale e, secondo me, non si poteva affrontare che in questo modo. Portate pazienza e seguitemi.

Ho passato gli ultimi mesi a chiedermi incessantemente se non fosse il caso di finirla con la critica. Questo disagio, o necessità, si faceva giorno dopo giorno più urgente e molesto, pretendendo che smettessi di rimandare la sua risoluzione. E più differivo, più calava il desiderio di seguire festival e spettacoli. Per qualche tempo mi sono nascosto dietro le ricerche per il mio ultimo libro, cercando di convincermi che quella fosse la causa, che non avessi il tempo di scrivere altro, che ero completamente assorbito in un mondo affascinante, lontano e poco conosciuto, ma sapevo che erano misere scuse proprio perché trovavo più ammaliante il passato e non il presente.

La verità è che non avevo e non ho più fiducia nella critica in sé e nei modi in cui viene esercitata. Lasciamo perdere per un momento la spinosa questione dei conflitti di interesse perché sono purtroppo sistemici, anche se, bisogna dirlo, limitano, e di molto, la libertà e sono un vulnus all’autorevolezza della critica in sé. Bisogna però riconoscere che se festival e teatri non contribuissero alle spese della critica, attività dello spirito non più paragonabile a un vero lavoro e per lo più manifestazione di volontariato culturale, la questione sarebbe già risolta da molto tempo.

Una recensione, dobbiamo riconoscerlo, oggi è un atto futile, diretto per lo più al piccolo mondo antico dei teatranti e degli uffici stampa. Il pubblico non le legge o, se lo fa, non ne è minimamente influenzato, perché per la maggior parte escono post eventum, dopo che lo spettacolo di cui si parla si è già spostato in un altro territorio, e questo spesso non per la pigrizia del recensore, ma perché stanno scomparendo le teniture, a parte nei Teatri Nazionali e Tric, unici soggetti ad avere un budget che le permette. Inoltre il pubblico non legge in generale, lo dicono i dati sempre più allarmanti che vengono pubblicati e questo senza considerare il fenomeno di analfabetismo funzionale che tocca il trenta per cento degli adulti, percentuale che secondo l’OCSE, ci pone all’ultimo posto tra i paesi industrializzati.

La recensione è inutile non solo perché si rivolge alla ristretta popolazione di quella riserva indiana chiamata teatro, ma anche in quanto genere malato di aridità. Non vuole generare curiosità, moto d’animo bizzarro e ormai raro, né accendere il desiderio. Si accontenta di informare e spiegare, asetticamente, imparzialmente, senza trasporto. La recensione deve essere scientifica come la diagnosi di un medico.

La recensione poi nasconde un desiderio egoistico: mostrare ai propri lettori e alla concorrenza di essere sul pezzo, di svariare da Nord a Sud nel territorio nazionale, di essere quindi ricercati e autorevoli. Le testate ovviamente sono affette dalla stessa mania di presenzialismo. Ciò che conta sono i numeri e non la qualità di visione e il tempo dedicato allo studio e al dialogo con l’artista. Più che critici ci stiamo tutti trasformando in influencer senza però aver la capacità di influenzare massivamente, anche perché per quanto si voglia passar per inclusivi, di fatto si è altamente elitari, persino all’interno del proprio settore dove circoli e circolini si sentono investiti dalla divinità del ruolo di custodi del sapere. E non sto parlando solo di accademici e giornalisti, ma anche di referendari o non referendari, etc. Chi è fuori da queste categorie è anomalia da ignorare nella convinzione che un tesserino, un lavoro all’Università o l’appartenenza a una giuria siano un certificato di competenza.

Questo è il triste panorama entro cui si segue l’amato teatro. Inoltre si è sempre meno liberi di dire la propria opinione senza incorrere nelle ire di organizzatori, direttori e uffici stampa che si sono sobbarcati la spesa della tua venuta, per non parlare degli artisti risentiti per quello che hai scritto come fosse un’offesa personale e non un parere tecnico e personalissimo volto a essere utile.

E qui si arriva al secondo punto: la forma è anch’essa costrittiva come uno strumento di tortura medievale. Innanzitutto non si deve portar via a chi legge più di cinque o sei minuti. Frasi brevi, sintassi semplice. Si deve cominciare con il come, dove e quando senza tralasciare nessuno e riassumere la trama per includere anche quelli che a teatro vanno per la storiella, possibilmente con qualche riferimento dotto per far vedere di essere competenti ma senza esagerare per non turbare il lettore. Se la trama è mancante si descrivono scene e movimenti riferendoli a fenomeni sociali o artistici del presente, o a immagini pittoriche e/o letterarie. Infine si chiude con qualche commento riassuntivo che, senza giudicare del bene e del male, inquadri lo spettacolo nel suo presente e, per quanto possibile, ne spieghi l’intenzione. La parte del leone la fa la drammaturgia e il testo. Raramente si parla di tecnica dell’attore o di composizione registica o coreografica, giudicando queste questioni troppo specialistiche per il lettore medio, disinteressato, a quanto pare, a comprendere i meccanismi dell’arte di cui, si suppone, sia appassionato.

Un mantra ricorrente è: la critica non deve essere giudicante. Quindi per non sembrar di quelli che tranciano giudizi, si fanno giri di parole e acrobazie per dire senza dire. Ma tutto questo è una grande ipocrisia perché abbondano e crescono tutto l’anno premi e premietti, si esibiscano liste di preferenze e best off, come se questi non fossero giudizi di merito. Soprattutto però è grave il calare un velo di silenzio su quello che non si approva, che è scomodo da raggiungere o, peggio ancora, sconosciuto. Geografia e visibilità vanno a braccetto e qualche volta, talento, resta escluso e negletto.

Tutti questi lacci e laccioli che richiamano alla mente gli affatturamenti di Artaud, sono all’origine del mio disagio, sentimento in conflitto perenne con l’amore verso un’arte a cui ho dedicato più di trent’anni della mia vita. E questo scontro richiama altre emozioni disturbanti: rabbia e frustrazione. Non sorprende quindi che alla fine uno si chieda: ma chi me lo fa fare? E sono sicuro di non essere il solo a vivere questa lotta interiore tra passione e avvilente realtà.

Perciò non resta che decidere: smettere? Continuare a ripetersi: «Finita. È finita. Sta per finire. Sta forse per finire» differendo l’inevitabile come Clov in Finale di Partita? Oppure cercare di recuperare il piacere di andare a teatro e scrivere di e per il teatro?

Il punto è che non voglio rassegnarmi al sistema, a quello che Fisher chiama realismo capitalista, fenomeno capace di inaridire qualsiasi velleità di cambiamento, ma mancando il piacere e il desiderio scema. E non parlo di volgare soddisfazione, ma di ardore, di fiamma d’amore che muove alla conoscenza, alla curiosità, a voler porgersi domande le cui soluzione è altamente improbabile. «Amor mi mosse che mi fa parlare» così dice Beatrice a Virgilio, perché è «Amor che muove il sole e l’altre stelle». Artaud scriveva: «Se noi potessimo amare, amare subito, la scienza sarebbe inutile, ma noi abbiamo disimparato ad amare» e senza questo Amore che è desiderio dell’Alieno da sé, non c’è piacere, ma solo mestiere. Uso la parola Alieno inteso come sconosciuto, straniero, anomalo, come ciò è allo stesso tempo perturbante e affascinante, che attrae e respinge, quello a cui se tu fossi sano di mente non ti avvicineresti perché prudenza e senso comune ti direbbero che è sconveniente ed equivoco. E il desiderio che spinge a immaginare mondi diversi, a richiedere di cambiare pelle, di trasformarsi, mutare, evolversi. È il desiderio di volare che determina la necessità delle ali.

E per provare piacere devo, in primis, recuperare la libertà di trovare una forma, di sperimentare un modo diverso di parlare di danza e di teatro, opere d’arte in movimento. E per farlo desidero essere libero dal dover spiegare alcunché. Philippe Daverio diceva che non c’è niente al mondo di più facile da capire dell’arte: basta guardare. Ma aggiungeva che bisognava: «avere il coraggio di dire perché e di indagare». Questa ricerca deve potersi spingere in ogni direzione, come nel gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, dove un’equazione richiamava un frase musicale e questa un poesia da cui si sviluppava un nesso alla vita biologica e così via.

Lessing scriveva: «Guardato isolatamente, un pensiero può essere molto insignificante o davvero avventato; ma può essere reso importante da un pensiero che lo segue e, insieme ad altri pensieri che possono sembrare egualmente assurdi, può rivelarsi un utile anello di congiunzione». È nella catena di immagini che evocano altre immagini, ghirlanda per ognuno diversa, che si ricompone ciò che è frantumato riunendo, come in un puzzle, l’infranto specchio di Dioniso ben sapendo che ogni soluzione è provvisoria come un mandala di sabbia. Vorrei che a un testo critico venisse sottratta ogni illusione di risultato per restituire, qualora se ne fosse capaci, una visione, per quanto precaria, di teatro-mondo.

Per questo desidero lasciarmi trasportare dal flusso delle immagini non più opposta al logos, stabilirmi in quella regione dove, come dice Lessing: «la ragione ritira la sua guardia dalla porta e le idee irrompono alla rinfusa». L’opacità dell’opera d’arte non deve entrare in conflitto con la supposta chiarezza dello scritto. L’arte, soprattutto quella dei corpi, è ambigua ed equivoca proprio perché moltiplica i possibili significanti e così dovrebbe restituirla una recensione. E questo non vuol dire votarsi all’inintelligibile, ma saper suscitare con le proprie emozioni quelle altrui, significa saper evocare immagine da immagine senza pretendere di riferire, educare o, peggio ancora, spiegare qualcosa a qualcuno.

La critica non ha niente a che vedere con l’informazione. È l’opposto complementare dell’arte. Non la rispecchia, non la descrive, non la risolve, la problematizza, la rende un oggetto su cui riflettere e nel farlo stimola a conoscerla, a frequentarla, o osservarla traendone piacere o disgusto, attrazione o repulsione e questo senza descrivere o illustrare il semplice atto d’esecuzione, bensì suscitando le possibili implicazioni che quello strano rito ci propone sempre nuovo e sempre uguale da migliaia di anni.

Finirla con la critica diventa così non un gesto definitivo e personale, ma un atto pubblico. Provare a cambiare i modi attraverso cui raccontare un’opera d’arte di teatro, con la certezza quasi matematica di fallire nell’intento, ma tentare infischiandosene delle regole e delle leggi non scritte. Visto che la critica non è un lavoro, ma una passione che si esercita nella volontà, che sia per lo meno divertente, gioiosa, libera di cercare strade impervie e stimolanti. Per combattere l’avvilimento non resta che ritrovare il desiderio spasmodicamente, senza compromessi, senza curarsi delle conseguenze, dei pareri, dei giudizi, dei consigli perché tanto, come cantavano i CCCP: “verranno al contrattacco, ma intanto adesso…”

Lo specchio di Dioniso: Carmelo Bene secondo Clemente Tafuri

Durante l’edizione 2024 di Testimonianze, ricerca, azioni, il festival di Teatro Akropolis in quel di Genova, è stato proiettato l’ultimo traguardo del viaggio di Clemente Tafuri nella parte maledetta del teatro. Un lungo pellegrinaggio alle radici dell’arte scenica che ha illuminato le figure di Massimiliano Civica, Paola Bianchi, Gianni Staropoli, Carlo Sini, e ora in quest’ultima stazione dedicata a Carmelo Bene, ci conduce in una terra nebbiosa, mitica e ancestrale, dove mirabili miraggi prendono corpo dal fumo che nasconde gli scogli pericolosi che ci attendono dietro e al di là della meraviglia.

Carmelo Bene si rifrange in infiniti specchi, e viene riflesso dal suo teatro. Come Rinaldo e Armida, dove la maga si specchia nella propria immagine e il guerriero cristiano, ormai dimentico dei suoi eroismi, viene riflesso dall’occhio della donna. Ma chi regge lo specchio? “ella del vetro a sé fa specchio, ed egli / gli occhi di lei sereni a sé fa spegli” (Gerusalemme Liberata XVI, 20, 7-8). Parrebbe che sia Rinaldo, sottomesso ad Armida, ma in una stampa del 1628 è la stessa Armida a reggere lo specchio mentre i due amanti sono avvinti in un intreccio di corpi e di sguardi. L’importante è che entrambi “mirano in vari oggetti un solo oggetto” (Gerusalemme Liberata XVI, 20, 6).

Nel mondo barocco, così vicino al quel Sud del Sud dei santi che tanto amava Carmelo Bene, lo specchio è metafora ricchissima della realtà scissa in immagine. Pensiamo agli specchi di Velasquez e di Vermeer: chi riflettono? Personaggi immaginari o noi pubblico attirati, come Alice nella tana del Bianconiglio, da questo precipitare di immagini riflesse. E non è di questo che si parla se si allude al teatro e non allo spettacolo?

Infatti lo specchio pertiene al dio della scena, al fanciullo Dioniso, prima che venisse fatto a pezzi dai Titani. Come racconta Carlo Sini, la storia dello specchio di Dioniso, ha molteplici significati. Il Dio-fanciullo, unico e indiviso, si specchia nel molteplice e, ammaliato dalle immagini, resta indifeso, vittima dei Titani, simboli dei desideri e degli appetiti, che lo sbranano in mille pezzi. L’uno si frantuma nel molteplice, Vi è una ulteriore accezione, più nascosta, che riguarda il mistero della conoscenza: lo specchio è il mondo racchiuso in un immagine, lo specchio è lo strumento che permette allo sguardo di vedere, ma soprattutto di ricordare. Lo dice Carmelo in uno stralcio di intervista: la conoscenza è sempre un rammentare.

Carlo Sini però ci parla di un terzo e più profondo significato: Dioniso vede nello specchio i Titani, vede le spade sguainate, e non si sottrae all’atto violento. Si lascia smembrare, perché solo nel frangersi in mille pezzi come uno specchio, può tornare unito. E questo atto di sacrificio è comune a Carmelo Bene, ben colto da Clemente Tafuri. Carmelo si è lasciato fare a pezzi dalle proprie immagini, si è abbandonato alla frammentazione nei tanti Amleto, Pinocchio, Otello, Lorenzaccio, etc. E questo farsi a pezzi, questo scomparire nel molteplice abbandonando l’ego, era sacrificio necessario per far apparire il teatro, arte che, vien più volte ricordato agli smemorati contemporanei, non ha mai a che fare con la letteratura e la storia, perché queste fanno famiglia con la rappresentazione e non con la conoscenza.

Per essere come Dioniso nello specchio, bisogna abbandonarsi, farsi ammaliare e perdersi come Rinaldo, dimenticare la propria identità. Bisogna insomma “complicarsi la vita” per usare le parole di Carmelo. Bisogna vaneggiare per non rappresentare. Bisogna dire senza riferire. Un mantico e maniaco delirare che “restituisca l’aria al suo vento insensato”. Questo per Carmelo Bene era il teatro.

E quanto è necessario oggi ricordare le sue parole, oggi dove tutto è racconto, dove si è obbligati a riferire schiavizzati dall’essere comprensibili a tutti i costi, invece di scegliere d’essere evocativi. Il significato è protagonista e non la selva dei significanti. Bisogna raccontare per filo e per segno, essere didascalici, spiegare tutto bene, quando non ci sarebbe nulla da spiegare. E tutto questo perché ci siamo dimenticati di cosa sia il teatro secondo Carmelo Bene: un non luogo in cui, a volte, si dà il miracolo dell’apparizione. Un non luogo che non ha tempo né spazio, come lo specchio di Dioniso.

Alla fine degli anni ’80, in una lunga intervista con Richard Kostellanetz, John Cage raccontò queste storielle Zen: Quando giunse il momento di scegliere il sesto patriarca del buddismo Zen, il quinto patriarca organizzò una gara di poesia in cui ognuno avrebbe dovuto esprimere la propria comprensione dell’illuminazione.
Il monaco più anziano nel monastero disse: “La mente è come uno specchio. Raccoglie polvere e il problema è rimuoverla”. C’era un giovane in cucina, Hui-Neng, che non sapeva né leggere né scrivere, ma al quale fu letta tale poesia e disse: “Oh, potrei scrivere una poesia migliore di questa, ma non so scrivere”. Allora gli domandarono di dirla e lui lo fece. La scrissero e diceva: “Dov’è lo specchio? Dov’è la polvere?”. Fu così che diventò il sesto patriarca. Qualche secolo più avanti in Giappone c’era un monaco che faceva sempre il bagno. Un giovane studente gli chiese: “Se non c’è polvere, perché fai sempre il bagno?” E l’anziano monaco rispose: “È solo un tuffo, nessun perché.” Carmelo Bene, avrebbe risposto, è la mia vanità.

Ovviamente qualcuno potrebbe dire, leggendo queste mie righe, che non ho parlato molto del film. La verità è che, come ogni forma di grande teatro o grande arte, non c’è racconto che possa restituirlo. Carmelo Bene diceva: non si dovrebbe dare un attore che riferisce e, chi scrive, lo pensa del critico. Se posso darti lettore solo il riassunto di ciò che ho visto ti farei perdere tempo. Per usare le parole di Carmelo Bene: “lo spettatore dovrebbe non poter mai riuscire a raccontare quel che ha udito”. Se ho fatto bene il mio lavoro, lettore, ti ho fatto venir voglia di vedere questo strano specchio di Dioniso.

Per questo ho parlato di specchi di cui il film è ennesima immagine, uno specchio esso stesso, dove possiamo vedere un mondo e un teatro di cui tutti ci siamo dimenticati.

La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro: Carmelo Bene – Durata 54’circa

Regia: Clemente Tafuri | Con: Valentina Beotti, Margherita Fabbri, Daniela Paola Rossi | Fotografia e montaggio: Clemente Tafuri, Luca Donatiello, Alessandro Romi | Riprese e audio: Luca Donatiello, Alessandro Romi | Produzione: Teatro AkropolisAkropolisLibri

Biennale Danza 2024: la danza del pensiero

|ENRICO PASTORE

We Humans. Noi Umani. Questo titolo della Biennale Danza, la quarta per la direzione di Wayne McGregor, fresco di rinomina per un altro biennio. Un’affermazione che nasconde una domanda sulla nostra identità di umani del Ventunesimo Secolo. Guerre, movimenti migratori, crisi economiche ed emergenze climatiche, malattie che si diffondono sempre più velocemente, questo il panorama di un Occidente neoliberista già salutato in declino all’inizio del Novecento, ma lento a dissolversi e con esso il pensiero coloniale e patriarcale che lo contraddistingue., Nei romanzi di fantascienza di William Gibson questa cinquina di concause genera il grande Jackpot, dai cui sconquassi sorgerà una società che cerca soluzioni provando a manipolare il passato per migliorare il proprio presente. Curiosamente anche Shiro Takatani in Tangent si ispira al film di Johann Johannsson Last and First Men (2020) in cui l’umanità lontana due miliardi di anni manda un messaggio indietro nel tempo per informarci della nostra prossima estinzione. Un futuro che interroga e dialoga con il passato. Non è sempre stato così? L’arte e il pensiero artistico non hanno sondato la tradizione, ispirandosi, fraintendendola, facendola a pezzi, per trovare soluzioni al presente?

We Humans. Umani alla ricerca della propria identità, desiderosi di creare un nuovo modo di abitare e di convivere. Il nemico dichiarato è il capitalismo neoliberista e il suo pensiero binario: noi o loro, con noi o contro di noi. Si immaginano piuttosto configurazioni accoglienti, non escludenti, in cui come in un caleidoscopio si formino nuove aggregazioni polivalenti e policentriche. All’Occidente, sempre più al tramonto, quell’Occidente dallo spirito coloniale e predone, si oppongono le tradizioni dimenticate o, meglio, rimosse, alla ricerca di radici altre, di un pensiero non antropocentrico, in cui trovare l’armonica convivenza di tutte le creature. Anche in questo caso viene in mente la fantascienza, il Ciclo della Fondazione di Asimov, e il pianeta Gaia dove tutti i suoi abitanti interconnessi hanno sviluppato un sentire condiviso di mutuo sostegno. Un pensiero molto presente anche nel lavoro del colombiano Rafeal Palacios e della sua compagnia Sankofa Danzafro in Behind the South: Dances for Manuel.

Questo movimento oppositivo al neoliberismo è animato da una militanza gentile, passiva, debole. Lo ricorda Claudia Rankine nel suo testo introduttivo al catalogo di questa Biennale Danza citando il movimento cinese TangPing (sdraiarsi a terra) e il quiet quitting americano. Se però quello cinese è una galassia di appartenenza che attrae al suo centro i singoli individui, il quiet quitting è un atteggiamento personale, non ufficiale, in cui gradualmente si rinuncia a ciò che sembra necessario ai più: possesso e consumo. Si fa marcia indietro, senza clamori, senza lotte apparenti, come delle gocce d’acqua che battono la pietra e col tempo saranno in grado di modellarla. Come afferma il Leone d’oro Cristina Caprioli: «la rivoluzione non basta più, né immaginarla né metterla in atto». Occorre cambiare la nostra lingua e il modo di ragionare. Caprioli vede nella danza un laboratorio in cui proporre e sondare “proposte alternative ai nostri modi di essere e di metterci in relazione”, una danza: «multipla per scelta, singolare nell’essenza, collettiva nella sua ricaduta». Shiro Takatami, da parte sua, ricorre invece a Kant e al suo invito a considerare l’uomo non un mezzo ma un fine.

We Humans. Umani in riconfigurazione. Una messa in discussione dei concetti tradizionali dell’Occidente, in cui l’umano non è più il centro e il fine della creazione, ma un elemento fra i tanti e il cui comportamento, sano o tossico, influisce su tutto l’intero bioma. E il principale elemento da riconsiderare e riformulare è il corpo. Vera Paravel e Lucien Castaing-Taylor in Humani corporis fabrica, video istallazione ispirata alla celebre opera di Andrea Vesalio del 1543, che per prima fondò l’idea di un corpo macchina, mette in discussione la rappresentazione complessiva della natura del corpo minando la tradizionale separazione tra visibile e invisibile, tra superficie e interiora. Immagini da sonde chirurgiche laparoscopiche, operazioni a cuore aperto, interventi al cervello con paziente vigile, anziani con malattie degenerative della cognizioe in cerca dei propri ricordi, cadaveri placidamente curati e lavati da infermiere all’obitorio, immagini scioccanti, urticanti, che parlano di una fragilità in cui è insita la meraviglia, di un corpo che vive o muore in virtù dell’azione di altri esseri che coabitano al proprio interno. Nell’osservare le rappresentazioni di questo corpo fragile eppur resistente non si può fare a meno di pensare alle parole di Cristina Caprioli: «nessun corpo, nessun linguaggio sarà mai in tuo possesso, dovrai piuttosto prendertene cura e lasciarlo andare».

Il corpo oggi non è qualcosa di esclusiva appartenenza al regno di natura. L’eterea inconsistenza della virtualità, gli ibridi umano-macchina, ci parlano di una problematica e non innocente fusione tra l’essere di carbonio e quello di silicio. Nicole Seiler e il suo Human in the loop, indaga i possibili punti di fusione tra umano e IA ispirata dal pensiero di Donna Haraway, filosofa americana madre della teoria Cyborg, Secondo la Haraway l’ibridazione tra umano e macchina permette il superamento dei dualismi tradizionali, verso degli esseri con identità fluide e mutevoli, non sessuate, con identità: «permanentemente parziali e punti di vista contraddittori». Seiler in Human in the loop esplora le possibilità di questa fusione e i possibili rapporti di potere tra silicio e carbonio facendo eseguire e interpretare all’improvviso a una coppia di danzatori nel vivo della scena le istruzioni provenienti da una IA. Quali i margini di libertà dell’umano rispetto agli ordini impartiti da una macchina? A chi è dovuta l’autoralità dell’opera? È proprio necessario un autore/autrice? Domande di una certa complessità che, va detto, riecheggiano l’opera di Cage in cui le stesse questioni venivano indagate attraverso l’uso di operazioni casuali.

We Humans. Una Biennale Danza dal forte orientamento politico, a braccetto con la sezione Arte che intitola la propria esposizione Foreigners Everywhere e in cui protagonisti assoluti sono un pensiero e una pratica artistica gender fluid, postcoloniale, femminista e, nuovamente, anticapitalista. Movimenti migratori, popoli condannati, perseguitati e dimenticati, corpi e sentimenti d’amore non binari che chiedono a gran voce o con flebili sussurri il diritto a essere accolti. Queste sembrano le questioni più scottanti che inquietano il mondo dell’arte visiva come la danza. In questo articolo non abbiamo parlato molto di danza. Ci siamo soffermati sul pensiero che spinge la danza, che la infirma e la genera. Il danzare dello spirito è forse meno coreografico di quello del corpo? Cristina Caprioli in Flat Haze dice: «camminare è già una forma di coreografia». Forse bisogna spingerci oltre, nel mondo delle idee, dove i concetti vorticano furiosi e liberi di intrecciarsi in un ballo primordiale da cui nascerà, forse, il mondo di domani.

Nicole Seiler HUMAN IN THE LOOP

Durata: 70′

Ideazione: Nicole Seiler

Performance, collaborazione artistica: Clara Delorme, Gabrile Obergfell

Coproduzione: Cie Nicole Seiler, Arsenic, Centre d’art scénique contemporaine Lausanne.

Cristina Caprioli FLAT HAZE

durata: 60′

Coreografia: Cristina Caprioli

Produzione: ccap 2019-2022

Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor DE HUMANI CORPORIS FABRICA

Durata 115′

Cinematografia, Suono, Montaggio: Verena Paravel, Lucien Castaing-Taylor

Produzione: Norte Production, CG Cinema, Rita Production, S.E.L.

Come gli uccelli de Il Mulino di Amleto

Il 10 ottobre 2023, anteprima del Festival delle Colline Torinesi, ha debuttato nella sua prima italiana Come gli uccelli, la nuova creazione de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi da un testo di Wajdi Mouawad. Prima di inoltrarsi nell’analisi di questo complesso lavoro teatrale è necessaria una piccola premessa. Quanto si esplora in questo pezzo non è frutto della visione dello spettacolo al suo debutto, ma dell’intensa frequentazione delle prove dai suoi inizi nella sede della compagnia a San Pietro in Vincoli a Torino fino alla generale tenuta al Teatro Astra il 7 ottobre. Chi scrive non ha dunque visto l’esito, ma il processo creativo che ha portato alla forma finale. È stato un enorme privilegio poter seguire da vicino i primi passi, i tentennamenti, i prudenti approcci a un testo complesso e difficile, passare attraverso le fasi di comprensione delle singole scene, ammirare le metodologie adottate per arrivare alla creazione, e infine osservare la crescita fino alla forma finale, da non considerarsi mai conclusa in un arte fluida come il teatro.

Vi parlerò quindi di questo viaggio a partire dal testo di Wajdi Mouawad, di cui dovrò dire senza rivelare, per non togliere il gusto della scoperta di un’opera costruita su un mistero che deve essere svelato solo agli occhi di chi guarda e non di chi legge.

Come gli uccelli è una dramma in quattro atti che si configura come un tragedia contemporanea dove al fato degli dei si sostituisce la correlazione quantistica. Come due particelle mantengono il loro legame anche a distanze siderali al di là del tempo e del principio di realtà, così i personaggi sono costretti a incontrarsi e vivere le loro storie per un vincolo conseguito fin dal Big Bang, e per quanto possano opporsi niente potrà impedire che si incontrino. Ma le forze della fisica collidono con quelle della storia e così il conflitto israelo-palestinese, in questi giorni tornato alla ribalta per la sua cruenta e irrisolvibile tragicità, spezza quei legami e riporta le particelle umane allo stato di solitudine.

Come gli uccelli presuppone e sviluppa due modelli. Il primo è Antigone (ma sullo sfondo vi è anche l’intera Orestea e il tema del perdono) nel rappresentare l’antagonismo tra una legge antica, come quella del sangue, e una nuova legge che Eitan e Wajida provano a scrivere. Il secondo è Romeo e Giulietta, nella narrazione delle vicende di Ethan, ebreo, e Wajida, araba statunitense, uniti dall’amore e divisi non da faide familiari ma da un muro, non solo fisico ma storico e sociale, che scinde due popoli in guerra per la stessa terra. Il loro rapporto è ostacolato molto prima del loro venire al mondo, fin dalla guerra del 1967, quella Guerra dei sei giorni cui quella di oggi tanto somiglia, fin dalla strage di Sabra e Shatila del 1982. Il testo si sviluppa come un film di Nolan, scorrendo avanti e indietro nel tempo, e muovendosi furiosamente nello spazio. É un testo complesso, non solo per lo sviluppo temporale e spaziale, ma nell’uso di diverse lingue (l’ebraico, l’arabo, il tedesco e l’italiano) e per la durata (nell’originale messa in scena di Mouawad si superarono le quattro ore).

Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto hanno accolto la sfida e la ricchezza di quest’opera e si sono immersi fin dal settembre dello scorso anno, in un processo di scavo per trarre una propria drammaturgia e una personalissima e originale opera teatrale che non è una messa in scena ma una riformulazione del materiale originario.

Nelle prove si sono indagati i presupposti, i sottotesti, le premesse non esplicitate per giungere a dar vita sulla scena a personaggi consistenti, profondi e continuamente lacerati nei propri sentimenti dagli eventi storici e dalle identità imposte dalla società.

Tale processo si è distillato con l’uso di diversi strumenti, dalle improvvisazioni, agli Etudes, ossia studi fisici sugli antecedenti e le motivazioni nascoste, alla discussione a tavolino. Ma il primo scopo era costruire un sentire comune al gruppo di attori, un rispondere agli stimoli come in una partita di tennis, tenendo viva la pallina che passa da un campo all’altro. E a questo si è giunti attraverso l’uso di una serie di esercizi e giochi volti a scardinare o bypassare il pensiero razionale per giungere a una risposta istintiva sostenuta dalla saggezza del corpo.

Facciamo un semplice esempio: la scena iniziale nella biblioteca a New York, che vede l’incontro straordinario, e apparentemente casuale, tra Eitan e Wajida grazie a un fatidico libro, è transitata attraverso varie fasi e stati d’animo: la letteralità fin nell’espressione diretta delle didascalie, la dilatazione inclusiva di un prima non detto dal testo ma necessario per la creazione di un contesto, infine asciugandosi fino a giungere all’osso, all’essenziale, scartando il superfluo, l’ovvio, il teatrale, fino a una fisicità che parla oltre le parole. Il materiale testuale è stato quindi gonfiato e poi scarnificato senza pietà, con la precisione del cacciatore che eviscera la preda con grande rispetto. Il pubblico non si è trovato di fronte a una messa in scena ma a una vera e propria opera autonoma in cui il teatro esprime il proprio linguaggio al di là e attraverso il testo letterario.

Tutti i materiali impiegati tendono a questa essenzialità, dove non vi è un elemento che sottolinei l’altro, ma tutti si rafforzano congiungendo in coro armonico segnali diversi. La scenografia si configura in pochi, semplici elementi: il muro enorme, di una matericità alla Anselm Kiefer, il letto d’ospedale, i tavoli della biblioteca, una poltrona, delle valigie. Questi oggetti parlano una propria lingua insieme agli attori, assumono diverse funzioni, diventano luoghi diversi. Il muro per esempio non solo divide, ma crea gli spazi, determina le luci, si fa schermo per le proiezioni, diventa un calendario.

Il suono sussurra i luoghi e i tempi, parla delle stragi e degli atti di guerra, racconta gli spazi degli incontri, diventa preghiera e scatena il dolore, il tutto senza parole al di là delle parole, rispondendo in contrappunto al gesto, alla scena, al racconto. Le proiezioni non sono solo lo strumento per palesare il sottotitolo, ma configurano fisicamente la distanza dei linguaggi e delle scritture, e creano spazi non fisici, aprono finestre su altri mondi.

Tale lavoro di trasfigurazione alchemica delle parole in atto fisico che implica più linguaggi agenti in sinfonico accordo, ha avuto bisogno di tempo, un elemento essenziale alla creazione a cui Lorenzi si sta dedicando da molti anni. A partire dai vari cantieri Ibsen, sottotitolati Art needs time, Marco Lorenzi e la sua compagnia hanno cercato di guadagnare tempo per il processo artistico. Un atto politico in opposizione a un sistema produttivo sempre più frenetico che spinge alla creazione in soli diciotto giorni di prove. Per gli uccelli è stato preparato tra quest’anno e l’anno passato con più di sessanta giorni di prove. Una conquista dovuta anche alla disponibilità e lungimiranza dei vari produttori e che ha dato i suoi frutti. Si spera che questo non sia un caso sporadico ma finalmente diventi la norma per sostenere gli artisti e la qualità del loro lavoro.

Concludo ringraziando Marco Lorenzi e tutta la compagnia de Il Mulino di Amleto per avermi accolto per molti giorni durante un processo così delicato. Accedere alla loro bottega in questi ultimi anni mi ha fatto comprendere molti aspetti del loro approccio, non voglio chiamarlo metodo perché in teatro ogni metodo smentisce se stesso nella pratica. È stato un privilegio assistere alla nascita di un’opera tanto complessa e profonda e attraversare con loro il Mar Rosso, un segnale forte di fiducia e stima che apre degli spazi profondi alla critica per andare oltre la recensione dell’opera e la visione della creazione finale. Una conversazione che si instaura fin da prima del processo per sospendersi un attimo prima del debutto, per continuare oltre, insieme, nel prosieguo di un dialogo franco volto alla crescita di entrambi al di là dei giudizi.

COME GLI UCCELLI durata 3h con intervallo di 15′

Visto durante le prove dai primi di settembre alla generale del 7 ottobre 2023
di Wajdi Mouawad / consulente storico Natalie Zemon Davis / traduzione Monica Capuani del testo originale “Tous des oiseaux” / adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi / regia Marco Lorenzi / con Aleksandar Cvjetković, Elio D’Alessandro, Said Esserairi, Lucrezia Forni, Irene Ivaldi, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Federico Palumeri, Rebecca Rossetti / assistente alla regia Lorenzo De Iacovo / dramaturg Monica Capuani / scenografia e costumi Gregorio Zurla / disegno luci Umberto Camponeschi / disegno sonoro Massimiliano Bressan / vocal coach e composizioni originali Elio D’Alessandro / esecuzione al pianoforte de La marcia del tempo e Valzer per chi non crede nella magia Gianluca Angelillo / video Full of Beans – Edoardo Palma & Emanuele Forte / consulente lingua ebraica Sarah Kaminski / consulente lingua tedesca Elisabeth Eberl / un progetto de Il Mulino di Amleto / produzione A.M.A. Factory, TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale e Teatro Nazionale di Genova / in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e Festival delle Colline Torinesi / con il sostegno di ART-WAVES e Fondazione Compagnia di San Paolo.

Charlie Chaplin The Circus

Il palcoscenico squassato dai falò del circo

|ENRICO PASTORE

Il 21 giugno 1919 Anatolij Lunačarskij introduce il circo nei programmi del Narkompros, Commissariato del Popolo per l’istruzione. La sua è un’intelligente presa d’atto di un’epidemia in corso da molto tempo e che dilaga per tutta l’Europa teatrale.

Se vogliamo cercare un paziente zero potremmo fare il nome di Marinetti con cauta sicurezza, anche se il mondo circense affascinava da tempo. Pensiamo a I pagliacci di Leoncavallo, al Pierrot Lunaire di Schönberg, ai simbolisti (Blok su tutti), Chagall e Picasso. I cubofuturisti russi si appellavano però all’autorità di “nonnino Marinetti” citando i suoi manifesti: il primo del 1909, e poi il Teatro di Varietà del 1913 e il Teatro Futurista sintetico del 1915.

Quello che affascinava nel credo marinettiano era l’appello alla fisicofollia, alle sorprese del Teatro di varietà, gli acrobatismi, l’abolizione della distanza tra palco e platea e, soprattutto, nessuna analisi psicologica del personaggio e del testo.

I cubofuturisti russi si presentavano già alla vista come una sorta di circo clownesco: Majakovskij vestito di giallo e rosso, Chlebnikov lacero e sbrindellato con una federa piena di manoscritti da portarsi appresso, la Larionova e David Burliuk si dipingevano la faccia di astratti geroglifici. Non mancavano le strane bombette, gli sgargianti panciotti, le gorgiere secentesche. Il mondo artistico che stava nascendo, lo faceva in maschera e in allegria colpendo i preconcetti e le sicurezze dei benpensanti. Punin senza mezzi termini dichiara: «non c’è stato ancora un movimento letterario così virtualmente ricco di clownismo, come quello futurista»

Tra Majakovskij e il circo fu amore a prima vista Arrivò persino a recitare i suoi versi in groppa a un elefante. Amò non solo quello classico con i pagliacci, i forzuti, gli acrobati e i freaks, ma quello popolare russo, gli spettacoli da fiera popolare, i cantastorie, la maschera manesca e truffaldina di Petruška (per inciso il balletto di Stravinskij danzato da Nijinskij su coreografia di Fokine è del 1910). Troviamo riferimenti a quel mondo dei tendoni e di fiere nei versi, negli scritti, nelle conferenze e soprattutto negli spettacoli di cui scrisse i testi, ma anche di quelli di cui si interessò di regia e messinscena. Il poeta Igor Il’inskij scrisse: «Le “feeries” del baraccone di Lentovskij, al quale deve molto anche la tecnica scenica del teatro d’Arte, gli spettacoli delle fiere russe coi “petruški”, i pagliacci, i diavoli che sprofondano sotto terra: tutte queste forme teatrali autenticamente popolari entrarono in modo organico nella concezione drammatica di Majakovskij».

Di certo Mistero buffo fu quello che più di ogni altro era intriso di tutti questi elementi, esaltati poi dalla regia biomeccanica di Mejerchol’d il quale, oltre a designare l’attore come “clown analitico”. aveva sostituito Blok con Majakovskij come spirito guida dopo aver lanciato il suo Ottobre Teatrale. Con Mejerchol’d si passa dal circo al baraccone ossia un misto tra esperimenti moderni e tradizione popolare. L’idea politica non era semplificare o abbassare il livello culturale, come si direbbe oggi, ma quello di fornire delle basi popolari ai nuovi linguaggi avanguardisti per l’incontro con il nuovo pubblico operaio della nascente Unione Sovietica.

Lo stesso intento politico animava anche Brecht quando desumeva le sue modalità sceniche dall’operetta. dal cabaret o dal music-hall: usare il pop o, meglio, intriderlo di sperimentalismo per incontrare lo spettatore come a un incontro di pugilato attraverso trovate, meraviglie, gioiose arlecchinate e pasquinate. È nota la collaborazione di Majakovskij con il famoso clown Lazarenko, i cui sketch erano un misto di clownerie e bollente satira politica.

Il circo si inserì in quasi ogni ricerca artistica del primo periodo sovietico, non vi era artista che non provò a confrontarsi con il genere, usandolo e inserendolo nelle proprie trovate registiche o addirittura per promuovere nuove teorie. Pensiamo al saggio sul Montaggio delle attrazioni di Ejzenštejn (che non dimentichiamo era allievo di Mejerchol’d): « fare un buono spettacolo (dal punto di vista formale) significa costruire un buon programma di music-hall e di circo, muovendo dalle situazioni della commedia su cui ci si fonda».

I clown li troviamo anche al Mastfor nato nel 1920 per opera di Foregger e Mass (dove collaborò assiduamente Ejzenštejn), al Teatro di Commedia Popolare di Radlov, sempre venuto alla luce nel 1920 e dove collaborarono due importati artisti circensi come l’augusto Georges Dal’vari e l’acrobata e fantasista Aleksandrov, e infine il FEKS di Kozinkov e Trauberg. Lo scopo di tutti costoro era come diceva Arenenko sminuzzare il teatro in frantumi.

Quale tipo di clown avevano in mente a quell’epoca? Il primo passo era infatti costruire un nuovo tipo di maschera che rappresentasse l’epoca nascente, l’industria, la velocità, l’afferemarsi del potere delle masse. Il riferimento fu subito al cinema, a Charlie Chaplin in primissima battuta (The circus del 1928 fu per altro uno dei suoi film più apprezzati), ma anche Buster Keaton per la sua impassibile e granitica capacità di affrontare qualsiasi periglio.

Altro influsso importante venne decisamente dalla pittura, dal suprematismo soprattutto. Figure geometriche, cubi e coni, divennero costumi, così come giocosi arabeschi divennero trucchi sul viso. E da ultimo, come detto, il mondo della rivista, del music-hall e del cabaret. A Mosca e Pietroburgo a quell’epoca, e soprattutto, immediatamente prima lo scoppio della rivoluzione, imperversavano le pazzie notturne e i matrimoni artistici impossibili e impensabili. A Mosca a dar vita a Il pipistrello, animato dai più accesi sostenitori del naturalismo, gli attori del Teatro d’Arte. Partecipava di buon grado persino Stanislavskij, il quale aveva sempre avuto una passione smodata per le mascherate e gli scherzi. A Pietroburgo invece troviamo La casa degli Intermezzi, tana del mondo della Mejercholdia, e Il cane Randagio dove si riunivano i poeti da Majakovskij, alla Achmatova. da Mandel’stàm a Marina Cvetava.

È superfluo ricordare come nei cabaret da Parigi a Zurigo, da Roma a Pietroburgo sia nata molta della grande arte dell’inizio del Novecento da Dada a Petrolini, dal Futurismo al grande teatro di Bertold Brecht. Oggi forse si è un poco supponenti rispetto ai generi minori, ai luoghi di rappresentazione popolari, magari equivoci. Eppure si deve ricordare che al centro non nasce nulla, è al confine che accadono le cose.

Il nostro presente richiama spesso l’ibridazione tra le arti, persino nei bandi e leggi di finanziamento, eppure il melting pot, benché non manchi è decisamente sterile, manierista e manca di quella gioia di sperimentazione di quell’epoca lontana. Il circo contemporaneo, almeno in Italia, si limita per la gran parte a costruire drammaturgie per accostamento di numeri di abilità tenuti insieme da una labile storia. Per trovare esperimenti interessanti volti a innovare il linguaggio anche attraverso un orizzonte politico, bisogna varcare le Alpi e dirigersi in Francia, in Inghilterra, in Belgio.

Ancora una volta bisogna rimarcare una mancanza di organicità nella ricerca e l’uso di parole come multidisciplinarietà come vuoti mantra, senza una visione che spinga l’operare verso direzioni inusuali, impreviste, impensate.

Raccogliamo invece l’invito di quel ricco e fervido passato dove le arti tutte convergevano in ricerche comuni. Quali feconde possibilità potrebbero nascere dallo scambio e connubio di tecniche circensi, teatrali e coreutiche. Si parla tanto di sharing training ma questo avviene solo all’interno di un’arte, la danza. Si potrebbe allargare il progetto, aprirlo e favorire dialoghi tra arti diverse.

Quali e quanti benefici invece per l’arte circense se drammaturghi, registi e coreografi mettessero a disposizione le proprie tecniche e idee al servizio di un’arte tanto antica e colma di tradizione?

Per mettere in opera una ricerca davvero fruttuosa occorre innanzitutto che Ministero e Siae, alla faccia dell’invito alla multidisciplinarietà, permettano seriamente l’incrocio e l’ibridazione invece di congelare gli ambiti e le domande ai singoli generi separati. In seconda battuta serve il tempo, materiale primario, i luoghi di sperimentazioni da frequentarsi assiduamente e non per brevi e sporadiche residenze, e soprattutto di idee e pensieri subordinati al tempo da dedicare allo studio e all’affinamento di tecniche inusitate. Il passato in questo è una grande miniera. Un luogo dove attingere modalità, utopie, pratiche, stilemi, non per copiare ma per derivare e spillare linfa vitale per nutrire il presente e costruire un futuro. Occorre conoscere per innovare, usare un sapere non scolastico ma eretico, dissacrante, audace. È necessario scovare le possibilità offerte dalle nuove culture popolari, senza schizzinoseria o alterigia, e solo così sarà possibile ricostruire un nuovo rapporto con il pubblico e una diversa funzione in un modo crepuscolare e in una società in perenne cambiamento. Soprattutto bisogna ritrovare la gioia nonostante le difficoltà, la contentezza e la festosità dissacranti nei riguardi di riti stantii e polverosi.

Mejerchol'd le cocu magnifique

Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire

|Enrico Pastore

Giano, dio delle soglie e degli inizi. Il suo sguardo è rivolto al passato e al futuro, il corpo assiso sulla linea di confine tra due stati in perenne ridefinizione. Passato e futuro. Inchiavardati nel presente, frontiera mobile e incostante.

La storia è sorella dell’antico dio. Guarda indietro per comprendere l’oggi e proiettarsi verso uno dei tanti possibili domani. Volgersi verso gli eventi nascosti dietro le mobili cortine del tempo non è un’operazione nostalgica alla ricerca di una perduta età dell’oro, ma lavoro di illuminotecnica, un portare luce e visione, laddove la polvere del tempo si è posata e la memoria non aiuta.

È anche e soprattutto lavoro da minatore, una ricerca minuziosa delle vene auree, dei percorsi nascosti nelle faglie del tempo, di solide fondamenta su cui poggiare la costruzione di un domani diverso, auspicabilmente migliore.

Ciò è ancora più necessario per il teatro, arte effimera più d’ogni altra, di cui quasi tutto scompare, anche se oggi vi sono molti più strumenti di conservazione e documentazione rispetto al passato anche recente. È essenziale oggi più che mai, in un momento in cui tutto congiura per appiattirci in un perpetuo istante presente, in cui gli eventi passano veloci sotto i nostri oggi per sparire nel giro di pochi giorni.

Ma vi è anche un’altra ragione per volgersi verso tempi lontani: l’arte scenica è un bagaglio di conoscenze e tecniche tramandate di generazione in generazione, per lo più oralmente dal corpo del maestro a quello dell’allievo, e visivamente nella costruzione di un modo di vedere e far vedere. Senza questo passaggio non vi è futuro. Per dirla alla Carmelo Bene: non si può variare il canone, senza conoscere il canone. Senza quella che chiamiamo tradizione non vi è mutare d’orizzonti, anzi il rischio è quello di perdersi in un labirinto ritornando continuamente su passi e percorsi già ampiamente battuti.

Per questo l’operazione storica non è nostalgica ma audace propensione verso il non ancora. In questo mondo crepuscolare dove nuove forze si agitano sotto la coltre cercando di eruttare dal sottosuolo è importante volgersi verso luoghi e tempi da cui si possono trarre strumenti di evoluzione, non per analogia, perché nella storia la comparazione è nefasta, ma per simpatia di stimoli, per evitare gli errori, per ispirarsi a compiere imprese anche quanto tutto sembra indicare il contrario.

Volgiamo dunque lo sguardo all’indietro per ricercare alcuni fili giunti fino a questo problematico oggi e proviamo a riflettere se alcuni si possono riportare alla luce, se altri debbano essere definitivamente tagliati, se altri invece debbano essere ricollegati.

Ogni storico ha però un punto di vista che, per quanto provi a celarlo o a eluderlo, è presente e ineludibile. Le scelte su dove puntare lo sguardo è dettata dalle proprie riflessioni e dai propri ragionamenti. Umilmente bisogna tentare di far sì che il proprio sbirciare in un preciso e determinato istante possa incontrare e coinvolgere altri occhi.

Scostiamo dunque il sipario del tempo e dirigiamoci verso la Russia in un tempo storico estremamente fluido, tra il 1910 e il 1925, un periodo in cui le zolle tettoniche della storia si scontrarono e conflagrarono con tale violenza per cui tutto venne a cambiare. La società, l’economia, ogni regola del vivere fu messa a soqquadro: riforme sociali, Prima Guerra Mondiale, Rivoluzione d’Ottobre, guerra civile, epidemia di Spagnola, crisi economica, sogno e costruzione di uno stato socialista, tradimento di tutte le più fulgide speranze legate a un pensiero di libertà ed eguaglianza. In questo immenso rivolgimento il teatro fu protagonista e non comparsa. In tale irruente e travolgente rivoluzione artistica e culturale gli ingegni migliori andarono a cercare ogni strumento possibile, in ogni tempo storico e in ogni latitudine, per edificare un nuovo teatro che rispecchiasse una società giovane, magmatica, in via di definizione, anelante nuovi e inauditi orizzonti.

In questo ribollire caotico il primo filo rosso da portare fino a noi è qualcosa di cui poco si parla, come se fosse un tabù, anche se Milo Rau, lo ha inserito come elemento primario nel suo manifesto di Gent: ossia la ricerca di un rapporto fruttuoso, costruttivo, non conflittuale tra tradizione e innovazione. Vediamo dunque, per sommi capi, di riportare all’attenzione ciò che successe allora, quali impensati risultati si siano ottenuti e quali riflessioni ciò possa suscitare oggi.

Potremmo iniziare con uno scherzo: in quel torno di tempo Amleto era alter ego, maschera e travestimento di molti grandi uomini di teatro. Al di là dei progetti messi in opera o rimasti nel limbo dei sogni del cassetto (Stanislavskij invitò Craig per l’allestimento di Amleto al Teatro D’Arte, Vachtangov e Mejerchol’d desiderarono ardentemente confrontarsi con il principe di Danimarca senza mai riuscirci), il dubbio e l’oscillazione tra sperimentalismo e naturalismo fu il punto in cui si affisse il pendolo su cui l’innovazione russa di quel tempo si incardinò. Vachtangov più di tutti incarnò questo amletico e perpetuo dubitare passando da un campo all’altro con il pensiero però rivolto a quello appena abbandonato

Due le visioni, quella più legata a Stanislavskij, Suleržickij, Nemiròvič-Dančenko volta a ricreare, attraverso una quarta parete, un’illusione di realtà-specchio (con tutti i dovuti distinguo perché, come detto, la strada non fu senza svolte spericolate e brusche frenate per nessuno) e l’altra sull’asse Mejerchol’d (comunque figliol prodigo di Stanislavskij), Tairov, Ejzenštejn, Radlov, Ochlòpkov tendente maggiormente al manifestare tutto l’artificio della rappresentazione. Entrambe si confrontarono con quella che per convenzione possiamo chiamare tradizione: ossia le tecniche e le competenze dell’arte scenica tramandate dalla storia e dalle generazioni precedenti.

Entrambi i percorsi furono tortuosi, lo ripetiamo. Nel periodo preso in esame si innestarono influssi simbolisti, espressionisti, cubofuturisti e costruttivisti a complicare il quadro.

In questo dipinto se Mejerchol’d più di ogni altro attinse per le proprie diavolerie biomeccaniche a quello che Kryžickij chiamava il Baraccone, ossia al complesso delle invenzioni dei saltimbanchi, circensi, cantastorie popolari e repertori da fiera, varietà e rivista, non trascurò, (e nemmeno gli altri), il confronto con ogni possibile anfratto della storia del teatro per attingere tecniche e possibilità creative per rinnovare il teatro inventandone uno alieno alle formule trite dell’accademismo. Per Tairov il corpo dell’attore era uno strumento pronto a rispondere: «alla più lieve pressione» e cimentarsi in ogni possibile genere teatrale fosse pure un mistero medievale o un’operetta.

Persino Stanislavkij recuperò il mondo della pantomima per il suo Moliere e giocò con le leziosità comiche del Seicento francese, così come Mejerchol’d recuperò il mondo della Commedia dell’arte, della Pantomima classica, e le modalità rappresentative del Siglo de Oro. Il Dottor Dappertutto (così era chiamato) non disdegnò lo studio e le tecniche del Nō, del Kabuki e dell’Opera di Pechino, quest’ultima ammirata grazie alla tournée di Mei Lan Fang in Unione Sovietica.

L’invenzione del nuovo passò per il recupero e lo studio dell’antico di qualsiasi provenienza esso fosse purché permettesse un ampliamento dei mezzi espressivi dei registi e degli attori. Non si deve pensare però a dei calchi documentari o a un nostalgico ripristino di tecniche e modalità cadute nel dimenticatoio. Tutto questo esplosivo bagaglio di bottega teatrale fu innestato e ibridato con ciò che di meglio la tecnica dell’epoca potesse offrire dall’illuminotecnica, alla scenografia, alla nascente e sperimentale cinematografia. Non è un caso che Ejzenštejn, aiuto regista di Mejerchol’d ne La morte di Terelkin, teorizzò a partire dai melting pot del maestro, il noto manifesto sul Montaggio delle attrazioni.

Dove fiorì un’interessante evoluzione del DNA teatrale grazie alla tradizione fu la riscoperta del teatro fuori dai luoghi convenzionali: dagli sfondamenti in platea, alle piazze, alle fabbriche, fino al gasometro di Ejzenštejn con Maschere antigas di Tret’jakòv, il teatro russo del primo periodo sovietico, non disdegnò sperimentare nuove relazioni con il pubblico recuperando modalità antiche. Persino nelle nude astrazioni tubolari costruttiviste possiamo intravedere la simultaneità dei luoghi deputati medievali o l’Hashigakari (il ponte) del Nō.

Charlie Chaplin conviveva con il Siglo de Oro, e Dziga Vertov sperimentava proiezioni su tre schermi in spettacoli dove furoreggiava la clownerie, la pantomima o le scoppiettanti invenzioni del varietà. Passato e futuro si confrontavano nel presente effimero della scena, e lo studio storico e filologico nutrivano l’invenzione. Come scriveva Ripellino: «anche nelle regie in cui più si avverte la “follia” futuristica, le tradizioni del teatro ritornano con l’ellissi perpetua di un boomerang».

Oggi, contrariamente, nel rapporto tra ricerca e tradizione, ci si trova in uno stallo manicheo: o l’una o l’altra. Inoltre nella questione mettono le dita il Ministero e le banche intimando l’innovazione (ma finanziando ciò che è certo e sicuro) con parole vuote e senza senso come multidisciplinarietà o multimedialità che, come abbiamo visto, son presenti nel linguaggio della ricerca da secoli.

Ciò che in verità manca oggi rispetto a ieri sono principalmente tre cose: il tempo di studio (il malfermo sistema economico della nascente URSS, ma anche l’epoca zarista, permetteva di dedicarsi completamente alla propria arte senza distrazioni burocratiche); la connessione delle generazioni tra loro, congiunzione che permetteva il passaggio delle conoscenze e delle riflessioni, un passaggio di mano da maestro a apprendista necessario ma per vari motivi affievolito se non inaridito del tutto tra gli anni ’90 e 2000; infine la curiosità necessaria è, quando presente, impedita o, meglio, intorpidita da un sistema produttivo che premia il successo garantito e non l’esperimento rischioso. Ciò che risulta vincente non si cambia e così vediamo registi o compagini di talento replicare le formule perché funzionano e garantiscono quindi l’afflusso dei finanziamenti, dalle date di giro e delle commissioni.

Come si può notare non parlo di denaro. Per due ragioni: in primo luogo sono imparagonabili le condizioni economiche tra oggi e allora; in seconda battuta i soldi non fanno le idee.

La questione del confronto e dell’utilizzo della tradizione nello sperimentalismo invece mi pare molto pressante e attuale. Tutto sulla carta oggi punta verso l’innovazione ma non si concedono né tempi né modi per uno studio serio sui linguaggi. Inoltre la formazione si è decisamente impoverita rispetto a quanto accadeva nel periodo storico preso in esame. Se non si conosce il passato come si può innovare il codice? Se dalla memoria sono scomparsi anche gli anni più recenti, e parlo degli ultimi decenni del secolo scorso, non si può formulare un pensiero realmente innovativo (in una commissione di valutazione di percorsi di residenza mi sono sentire chiedere: ma chi è Kantor?).

Un esempio su tutti: molto ritorno del teatro in natura ricorda esperimenti e modalità degli anni ’70 (per esempio il Teatro delle Sorgenti di Grotowski) come alcune modalità delle comunità teatrali dell’inizio del Novecento (per esempio Monte Verità). Questi eventi e chi li animava avevano un orizzonte preciso, politico e artistico. Oggi invece sembra in massima parte (ci sono ovviamente ottime eccezioni) un ricalco o un ripiego o, peggio ancora, una moda. Inoltre manca un riferimento reale a tali esperienze, un dialogo a distanza, una riflessione sugli errori e i successi così da muoversi in avanti o per lo meno di lato.

Infine benché si parli tanto di ricerca risulta confuso cosa effettivamente si stia cercando. Un teatro nuovo? Una nuova forma di relazione? Un linguaggio riformato? Non è chiaro. Difficile trovare delle linee di evoluzione e di pensiero. Anche durante la forzata pausa Covid di tutto si è parlato tranne che di funzioni della scena o di come riformulare l’azione artistico-politica.

Il confronto con la tradizione, con il canone, è dunque fondamentale per non cadere in luoghi comuni e riproposizioni inconsapevoli. Come diceva Duchamp il compito di un artista oggi (si era gli inizi degli anni ’50) è uno solo: studiare, studiare, studiare. Il dovere più difficile di tutti. Confrontarsi come Giano con il passato e il futuro vivendo sulla soglia del presente, senza precludersi alcuna strada e incamerando, come nel sogno biomeccanico di Mejerchol’d, la maggior parte di tecniche possibili al fine di dare all’attore un bagaglio pesante ma preziosissimo di possibilità espressive. Un teatro nuovo può nascere solo dalle proprie ceneri, conoscere il fuoco che le ha prodotte è indispensabile per generare il nuovo.

Mirabilia Ph:@Andrea Macchia

Comunicare lo spettacolo: a Mirabilia nuovi linguaggi per le Live Arts

Mirabilia è un festival dedicato al circo contemporaneo e alla danza che si svolge tra agosto e settembre nei comuni di Alba, Busca, Savigliano e, per la parte più importante e corposa, nella città di Cuneo. Il Festival diretto da Fabrizio Gavosto cerca di dare un respiro europeo al progetto affiancando agli spettacoli, dislocati in ogni quartiere e parco cittadino, una serie di appuntamenti dedicati agli operatori alternando occasioni di mercato, incontri professionali e tavole rotonde.

Tra questi, di particolare interesse, è stata la giornata di convegno dal titolo Il ruolo della scrittura critica e drammaturgica nello sviluppo delle arti circensi. L’evento è stato organizzato in collaborazione con Adolfo Rossomando, direttore di Juggling magazine, Silvia Mei, studiosa e docente all’Università di Foggia, e la rete INCAm (International Network of Circus Art magazines). Diversi i motivi che hanno reso attrattive le argomentazioni emerse. Cerchiamo di riassumerle in brevi spunti di riflessione.

In primo luogo ci si è interrogati su come comunicare lo spettacolo alla pluralità di referenti possibili: pubblico, operatori e referenti istituzionali. Per ogni caso preso in esame va considerato un differente linguaggio, in parte ancora da inventare e sviluppare, perché differenti sono gli obiettivi: portare spettatori in sala, vendere o produrre un lavoro, finanziare l’attività di ricerca e sviluppo.

Innanzitutto occorre segnalare come molti artisti ancora credano che l’arte sia una forma di comunicazione, ossia che l’opera abbia finalità comunicative in sé, nonostante la riflessione e la pratica estetica e filosofica degli ultimi duecento anni abbia sgomberato il campo da questo fraintendimento. L’azione artistica non è una forma di comunicazione, quanto piuttosto una prassi del pensiero in azione. Inoltre l’opera d’arte possiede una certa sua opacità nonché una volontà propria rispetto ai propri creatori, indipendenza tale da permettere all’occhio dell’osservatore di entrare in essa e trarne messaggi e significati impensati e inauditi. Chiudere la visione, percezione o fruizione dell’opera in un unico univoco messaggio preclude all’opera la usa possibilità di coinvolgere e attivare l’occhio che guarda, relegato in posizione passiva e semplicemente ricevente. Tra opera aperta e opera chiusa non esiste una divisione manichea e precisa. I confini sono labili e grigi ma la tendenza è orientata verso una trasformazione dell’intenzione in tensione, non certo verso un travaso immutabile di un messaggio da un trasmettitore a un ricevente.

, Simone Pacini, Silvia Mei, Adolfo Rossomando

Non a caso all’artista oggi, nelle migliori e più avanzate produzioni, si affiancano altre figure professionali, quali il dramaturg, gli addetti stampa o gli esperti di comunicazione digitale pronti a curare gli aspetti dedicati al mondo della comunicazione al posto dell’artista, declinando l’oggetto secondo i vari pubblici di riferimento (professionali, istituzionali e generici). Comunicare e creare non sono creature di una medesima specie benché alcune prassi di comportamento possano dare l’illusione di una parentela tra cui, soprattutto, il furto di modalità artistiche da parte della comunicazione di massa. Purtroppo per la maggior parte dei casi sono gli artisti stessi costretti a curare tutti gli aspetti per mancanza di sufficienti finanziamenti e, da qui, forse, il fraintendimento e sovrapposizione dei concetti di comunicazione e creazione.

In questo panorama la critica potrebbe svolgere un ruolo significativo, come mediatori culturali, a patto però di inventare nuove modalità. La recensione dello spettacolo post-evento non può più essere il solo mezzo attraverso cui il pubblico entra in contatto con lo spettacolo. E questo per molti motivi primo fra tutti la quasi scomparsa delle lunghe teniture in teatro. Se uno spettacolo resta in cartellone solo una sera è chiaro che leggere una recensione a posteriori non porta pubblico in sala e ciò che succede a Torino potrebbe avere esiti diversi a Napoli o a Bologna. Oggi le recensioni servono per la maggior parte ad artisti e operatori come rassegna stampa, ma nei riguardi del pubblico generico restiamo indietro. Questo si percepisce anche dai progetti editoriali presentati dai colleghi stranieri (presenti al convegno Stacy Clark di Circus Talk dagli Stati Uniti, Cyrille Roussial di Jonglages dalla Francia, Ruby Burgess di Circus Diary dalla Gran Bretagna e Tim Behren di Voices Magazine dalla Germania). Tutti questi progetti, nati digitali, sono orientati allo studio delle arti circensi con contributi anche di grande spessore accademico, e orientati verso una circolazione delle opere sul mercato, quindi l’obiettivo appare diretto verso un pubblico specializzato, altamente alfabetizzato e costituito da professionisti dello spettacolo.

Ruby Burgess di Cyrcus Diaries

Non solo bisogna inventare un linguaggio ma riformulare le parole. Spesso si usano termini e locuzioni senza un vero significato nel contesto attuale della ricerca sulle arti performative. Un esempio su tutte: multidisciplinarietà e multimedialità utilizzare per indicare un futuro necessario e radioso per le live arts. Tali termini più che unire e creare alleanze inedite, sono divisive, perché presuppongono famiglie e tribù in realtà inesistenti.

Teatro infatti è parola nata a indicare un luogo e non un’arte. Teatron è il luogo da cui si guarda. L’arte era Koreia: la sinergica coesistenza di danza, musica e poesia (quest’ultima fu considerata appieno un arte solo a partire da Aristotele in quanto costituita da un insieme di regole). Multidisciplinarietà e multimedialità fin dall’origine dunque. E non è superfluo ricordare come durante l’Umanesimo e il Rinascimento, periodo di grande riflessione teorica da cui sorgeranno non solo il Teatro all’Italiana ma i principi della moderna arte scenica, la Commedia dell’Arte era bottega abitata da una sorprendente permeabilità di confini tra le arti e i generi: commedia, tragedia, drammi pastorali, numeri da saltimbanco (oggi diremmo circensi), imbonimenti da fiera, astuzie da cerretani. Unione proficua di cultura alta e bassa, capace di parlare ai re come ai popolani.

Saltando di secolo in secolo, se attraversiamo come uccelli in volo il Novecento, non osserveremmo altro che una ininterrotta teoria di ibridazioni, matrimoni impensabili, sconfinamenti. Pensiamo solo alla figura di John Cage, la cui influenza determinò mutamenti impensabili non solo nella musica, ma nella danza e nel teatro, per non dire delle arti visive come padre dell’happening e della perfomance. Pensiamo a Kantor, artista visivo capace di rivoluzionare il mondo del teatro.

Non resta che far capire alle istituzioni, per lo meno in Italia, non solo l’inutilità degli appelli alla multimedialità e multidisciplinarietà proprie al DNA delle live Arts, ma l’inefficacia delle divisioni e separazioni dei generi. È superfluo ricordare quanto tali divisioni creino cortocircuiti burocratici che se non fossero imbarazzanti indurrebbero al riso.

Forse, in conclusione, per operare un vero superamento dei generi si potrebbe aspirare piuttosto a una sorta di stato vegetale (non vegetativo) in cui come nella vita della pianta, le sue diverse parti possiedono specificità uniche e linguaggi propri ma tutti partecipanti e dipendenti dalla vita di un solo e unico organismo. Non solo una nuova biologia ma anche una diversa visione politica di appartenenza di cui in Italia siamo privi perché continuamente lacerati da divisioni e contrasti.

Cyrille Roussial di Revue Jonglages

Ultimo aspetto, ma non meno importante, riguardante ruolo e funzioni della critica è il fatto che il giornalismo culturale è divenuto una sorta di azione di volontariato e non più un mestiere riconosciuto e pagato. Fenomeno purtroppo non solo italiano da quanto emerso dal dibattito dove, anche in altri paesi europeo e non, la migliore delle risulta essere un pagamento discontinuo e non sufficiente. Questo provoca due effetti: il primo un necessario conflitto di interessi, essendo i critici spesso sostenuti dai festival e dagli artisti stessi; in secondo luogo la deprofessionalizzazione e la mancanza di giuste competenze le quali si formano solo con un dedizione costante e continuativa. La penuria di finanziamenti e sostegni all’editoria culturale risulta essere un gap quasi insormontabile per l’insorgere di una critica veramente indipendente ed efficace.

Molti dunque i temi emersi purtroppo, per mancanza di tempo, non sufficientemente dibattuti tanto da trovare proposte e strategie per instradare la discussione verso delle possibili vie di uscita. È stato comunque importante parlarne e questo è un indubbio merito di Mirabilia e dei curatori del convegno.

Il ruolo della scrittura critica e drammaturgica nello sviluppo delle arti circensi.

Convegno tenuto a Cuneo, presso il Rondò dei Talenti, durante Mirabilia il 2 settembre 2022

Link alle testate straniere specializzate in circo contemporaneo, ma non solo, presenti al convegno per chi avesse curiosità di esplorare i progetti editoriali dei nostri colleghi all’estero:

Circus Talk (USA) https://circustalk.com/

Circus Diaries (GB) https://thecircusdiaries.com/

Revue Jonglages (FR) https://maisondesjonglages.fr/revue/accueil/

Voices Magazine (D) https://circus-dance-festival.de/en/projects/magazin/

Festival Opera Prima

Residenze teatrali e sistema produttivo: proposte e riflessioni al Festival Opera Prima

Durante la diciottesima edizione del Festival Opera Prima organizzato da Teatro del Lemming nella città di Rovigo, oltre a un’interessante rassegna di spettacoli sempre bilanciati tra “senior” e “junior”, si è potuto assistere a un necessario e importante convegno dal titolo: Le residenze artistiche all’interno del sistema teatrale.

L’incontro è stato promosso dalla segreteria di Artisti nei Territori con la finalità di esplorare le possibili interazioni dell’istituto della residenza creativa con gli altri attori della filiera produttiva. La riflessione si è dipanata a partire da una serie di stimolanti domande: sarebbe utile o necessario regolamentare la relazione tra Residenze e produzione? Se sì, come? In che modo Teatri Nazionali, TRIC, Centri di Produzione possono entrare in relazione con il sistema delle Residenze Artistiche e viceversa?

Un ragionare a partire dalla volontà di costruire ponti in un panorama simile a un arcipelago in cui ogni isola procede secondo propri criteri e regole senza mostrare alcuna inclinazione apparente alla sinergia. Eppure i richiami alle reti è costante e monotono come un mantra.

Prima di esaminare le proposte e le tesi più interessanti emerse dal confronto è giusto rilevare un’anomalia inquietante: i diversi agenti del settore produttivo dello spettacolo dal vivo in Italia non hanno una idea comune di ciò che sia in realtà una residenza artistica. Ci si trova a essere protagonisti della parabola indiana dei ciechi e dell’elefante: ciascuno toccando con mano solo una parte del problema, pensa di esser giunto a conoscerne l’essenza. Insomma si ritorna all’arcipelago d’isole non comunicanti.

Come affermava Confucio quando le parole non corrispondono alle cose lo Stato declina. Cerchiamo di fare un poco di chiarezza se possibile. Innanzitutto il termine Residenza è foriero di equivoci: infatti se è vero che l’artista o le compagnie sono ospitate, per un certo periodo di tempo, in uno spazio e in un luogo, sono anche invitati/e a un viaggio e a un percorso di scoperta, non solo nei/dei processi creativi, ma nei/dei territori medesimi. Nel termine residenza quindi è presente il concetto di stanzialità ma manca il riferimento al nomadismo che ne costituisce il fondamento. Infatti come ricordato dal Vicesindaco e assessore alla cultura del Comune di Rovigo Roberto Tovo, non esiste processo di apprendimento scientifico che non preveda un periodo di studi in altra facoltà o centro di ricerca. Quest’ultima vive un certo nomadismo necessario al proprio espandersi. Con Residenza artistica (sia essa generata da un Centro di Residenza, sia da un progetto di Artisti sul Territorio, e benché quanto detto sia più accentuato nel secondo caso) si individua quindi una pratica mista costituita da movimento e stasi, benché il secondo termine venga dato come implicito. Proprio tale sottintendere genera pregiudizi, confusione e fraintendimenti.

Ciò premesso occorre sottolineare che la Residenza artistica come istituzione non ha scopi né produttivi né distributivi, compiti che devono essere assunti ed espletati da altri attori della filiera. Questo non vuol dire che le residenze non possano essere integrate nel sistema produttivo e distributivo e nemmeno che via sia sottesa una volontà autoescludente generante torri eburnee e riserve indiane. Significa solo la mancanza di funzione, orientata piuttosto verso la formazione e la creazione di un tempo di ricerca artistica in un territorio. Il rapporto che si instaura tra artista, struttura ospitante e territorio deve essere osmotico. Un travaso di esperienze, sensazioni, conoscenze, stimolato dal soggetto ospitante e che deve trovare una risonanza negli altri elementi dell’equazione.

La residenza quindi è un piano di convergenza e di incontro tra forze centrifughe e centripete: proiettato verso l’esterno il lavoro dell’artista, attrattiva verso il proprio centro l’azione del territorio nel suo desiderio/volontà/apertura di farsi conoscere. Un processo di permutazione di esperienze nutritive, un moto espansivo fecondo quanto più i soggetti impegnati sono aperti allo scambio.

Non necessariamente da questo procedimento deve nascere l’opera come prodotto finito da immettere sul mercato. Attraverso la residenza si inizia e si perfeziona un percorso che può portare alla finitezza, ma non la si deve presumere né dare per scontata benché l’intero processo residenziale lo finisca per stimolare. È un tempo di creazione in cui persino nulla può accadere e questo fa parte del rischio insito in ogni procedimento creativo. Se si preferisce invece il linguaggio aziendale oggi tanto di moda in ambito artistico chiamiamolo rischio d’impresa.

Se tali sono gli scopi e le funzioni delle residenze artistiche in quali modi si può integrare tale istituto nel tessuto connettivo del sistema Spettacolo dal vivo in Italia? Innanzitutto si dovrebbe immaginare una partecipazione, anche come semplici osservatori di processi, da parte degli altri protagonisti della filiera: Teatri Nazionali, Centri di Produzione, Tric, festival, circuiti, etc. Un osservare alla ricerca di semi fecondi da far crescere. Non quindi un obbligo a produrre o a distribuire ma un attento esplorare e scrutare i bordi, i confini, gli anfratti della creazione senza lasciarsi dominare l’attenzione dai luoghi consueti e sicuri da cui trarre i propri repertori.

Una seconda possibilità è stata ventilata dal direttore del Teatro Stabile di Torino Filippo Fonsatti, dirottare cioè l’insostenibile compito voluto dal nuovo decreto che designa il prossimo triennio di abitare i borghi fino a cinquemila abitanti, affidato dal Ministero ai Teatri Nazionali e ai Tric, redistribuendo l’onere e le rispettivi parametri e indicizzazioni a coloro che agiscono per natura e vocazione nei territori periferici. Se questa proposta venisse accolta dal legislatore (non prima di tre anni comunque) e quindi si facesse giungere maggiori fondi alle Residenze, non si risolverebbe il problema dell’integrazione dello strumento nella catena produttiva.

Inoltre da rilevare la promessa di Antonio Massena, Presidente della commissione per il teatro del MIC, di provare a equiparare le legislazioni a livello di Stato e Regioni, i cui parametri spesso sono non solo diversi ma opposti. Un caso su tutti quello della Regione Sardegna la quale ha reintrodotto gli Under 35 laddove il Ministero aveva lasciato cadere l’obbligo. Legislazioni in contrasto tra loro non aiutano certo un sistema già in affanno ben prima della pandemia e che ora, dopo due anni difficili, si appresta ad affrontare ancora maggiori difficoltà dovute all’incertezza non solo di recuperare i fondi per continuare le progettualità esistenti ma, in aggiunta, a dover probabilmente affrontare ulteriori emergenze prima fra tutte quella del rincaro energetico.

La sensazione avvertita ogni volta che si affrontano temi volti a semplificare, integrare, migliorare, emendare il sistema o alcune delle sue parti è che quanto più ci si avvicina al centro del potere politico e decisionale più l’immagine delle cose si fa sfocata e confusa, anche qualora si dimostri a parole una certa disponibilità costruttiva. È come se il legislatore e i grandi attori della produzione e distribuzione, di coloro cioè che si ritengono il fulcro nevralgico del sistema solare dello spettacolo dal vivo, in realtà siano la propaggine più estrema dell’impero e che il vero centro sia piuttosto situato in quel campo di asteroidi più o meno piccoli, i quali essendo più vicini alla realtà creativa, sono anche i depositari di una conoscenza più veritiera della realtà.

Manca quindi un ascolto reale da parte della politica e dei grandi soggetti produttivi. È come se alle proposte provenienti dal basso, da quel cuore pulsante e creativo, nascosto nelle pieghe dei territori, si risponda sempre distrattamente o con grandi promesse o con l’allontanare la soluzione dall’orizzonte degli eventi. Le cose sarebbero veramente facili a risolversi. Basterebbe prendere esempio da ciò che avviene all’estero, dalla Catalogna alla Slovenia o al Belgio dove i grandi produttori frequentano le residenze creative. Bisogna insomma che i direttori artistici tornino a vedere dal vivo esplorando i confini dell’impero, valutando le nuove proposte e le nuove idee, e si decidano a promuoverle quando ne vedono l’occasione. Non serve cambiare leggi o crearne di nuove. Basterebbe un poco di buona volontà. Ma come sempre si avverte netta la sensazione che il sistema non lo si voglia cambiare perché in fondo fa comodo che rimanga a compartimenti stagni.

Un ultima riflessione. Le residenze hanno fatto molto in questi anni per far emergere il sommerso, sono state in molti casi dei veri e propri presidi culturali in territori spesso abbandonati dallo Stato, assumendosi funzioni di educazione, formazione, sostegno delle fasce più deboli: anziani, immigrati, adolescenti, portatori di handicap. Certo non mancano anche esempi negativi di sfruttamento dei giovani, carenza di assistenza tecnica e formativa. Casi isolati ma presenti da emendarsi quanto prima. Nonostante alcune pecche le Residenze sono state spesso le uniche possibilità di creazione per molti artisti privi di un luogo proprio di lavoro. Lo strumento è quindi essenziale a dar respiro al sistema facendo emergere linfe vitali altrimenti nascoste e invisibili. Non basta però far spuntare la pianta dal terreno, serve irrigarla e concimarla per farla crescere forte. Tale compito come è già stato detto è affidato al legislatore e agli altri settori della filiera. Sarebbe il caso che costoro si assumessero al più presto la responsabilità e l’onere, prima della siccità incombente, prima che sia troppo tardi.

Rovigo 16 giugno 2022

Sono intervenuti al convegno:

MASSIMO MUNARO, LAURA VALLI e ALBERTO BEVILACQUA (segreteria Artisti nei Territori)

ANTONIO MASSENA (Presidente Commissione Consultiva MiC per il Teatro)

FILIPPO FONSATTI (Presidente Platea e direttore Teatro Nazionale di Torino)

HILENIA DE FALCO (C.RE.A.RE/Centro di Residenza Napoli)

ROSA SCAPIN (Bassano Opera Estate/Residenza AnT)

SILVIA MEI (storica del teatro/Università di Foggia)

FRANCESCA D’IPPOLITO (Presidente CRESCO – Coordinamento Realtà Scena Contemporanea)

FRANCO OSS NOSER (Presidente AGIS Triveneto)

PIERGIACOMO CIRELLA (Teatro Comunale di Vicenza/AnT)

SERENA GATTI (Azul Teatro/Pisa), ALESSANDRO SANMARTIN (Livello 4/Valdagno), CHIARA ROSSINI (Welcome Pro-ject/Torino-Berlino), CIRO GALLORANO (Cantiere Artaud/Arezzo)

Hommelette for Hamlet Carmelo Bene

ADDIO MASCHERINE: UN RICORDO DI CARMELO BENE

Il 16 marzo 2002 si è spento Carmelo Bene, il più grande uomo di teatro italiano del secolo scorso. Non faremo certo un discorso commemorativo, non a CB poiché già in vita gridava a gran voce (amplificata e in playback): «Me ne fotto del mio trono! I morti son morti!».

Cercheremo di ricordarlo con alcune delle sue più importanti battaglie teoriche da lui portate avanti e riportate alla luce in questi giorni da due pubblicazioni importanti, Carmelo Bene di Armando Petrini e Oratorio Carmelo Bene di Jean Paul Manganaro.

Le due opere sono per opposti versi importanti, imprescindibili: più rigoroso, scientifico e critico il Petrini, tanto da riuscire a mettere in evidenza luci e ombre della parabola artistica del Maestro; più partecipato, accorato, al limite di tra il romanzo, il saggio, il florilegio di ricordi quella di Manganaro. Eppure nonostante tale siderale distanza di atteggiamento nei confronti di CB, entrambi gli autori fanno emergere alcuni temi che non sarebbe superfluo affrontare dando contemporaneamente uno sguardo a questo smemorato presente.

Cominciamo dal principio, dal fatto semplice seppur così colmo di conseguenze, dell’essere Carmelo Bene, come nota Petrini, non un “padre fondatore” ma un “figlio degenere”. Oggi questo fattarello risulta in tutta la sua diversità e folgorante luminosità. Carmelo ha lottato come un figlio pronto a tutto pur di dispiacere il padre padrone che lo voleva diverso da ciò che era, normalizzato, educato ai buoni principi del senso comune. Quel padre era ed è il teatro conformista, quello delle messe in scena di testi riferiti, di coloro che fingendo il rispetto della tradizione rinnegano ogni giorno la Tradizione: quella dell’attore inventore, del teatro che precede il testo, di tutto quello che risulta essere un atto insubordinato in quanto, prima di tutto, è artistico nel senso più sublime del termine.

Carmelo Bene

Non a caso una delle ossessioni di CB è stato, insieme ad Amleto (altro figlio degenere), Pinocchio, per quel voler rimaner bambino sempre, schifando l’età adulta del buon senso mediocre. Così cita Manganaro: «Quel Pinocchio “che sono” è più che mai rifiuto a crescere, civilmente e umanamente, è lo spettacolo dell’infanzia prematuramente sepolta, che si risveglia e scalcia nella propria bara. Adulta è la terra-padre-avvenire che la ricopre».

Quanto diverso l’atteggiamento di Carmelo, lui desiderante il Ministero disinteressato per sempre di lui, da quello di tutti questi figli del teatro d’oggi che diligenti compilano al medesimo Ministero e alle banche per ottener da loro, padri-padroni elargitori di paghette da pagare a caro prezzo, la tanto agognata approvazione, il riconoscimento di esser stati bravi, obbedienti e precisi nei numeri? In fondo lo sappiamo come avrebbe reagito, lui, Cassandra inascoltata, che l’aveva previsto questo asservimento ministerial-bancario, e nel prevederlo è stato deriso e offeso.

CB poi avrebbe avuto molto da insegnare sull’uso dei media, lui che li aveva provati tutti: radio, televisione, cinema, concerto e in ogni suo visitare sempre attento a utilizzare il mezzo scorticandolo e tradendolo per, in fondo, esaltarlo. In TV non solo produceva versioni amletiche e pinocchiesche ma non disdegnava andar a Domenica In da Corrado insieme a Lydia Mancinelli a cantar di Ungaretti, Pascoli e D’annunzio secondo Luciano Folgore. Per non parlare dei due opposti (e opposti perché CB usa la televisioni in due modi sideralmente distanti): CB al Maurizio Costanzo Show e Quattro momenti su tutto il nulla per la RAI. Nel cinema poi irrompe con Hermitage e Nostra Signora dei Turchi, facendo cinema distruggendo e scorticando cinema. Nei teatri lirici ecco Manfred o Egmont, concertando ed esaltando la voce sonante in rinnovato carme; infine la radio con le Interviste impossibili, la Salomé, il Tamerlano, e ovviamente Amleto e Pinocchio.

Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi

Oggi come avrebbe usato CB il mezzo digitale? Di certo non si sarebbe limitato allo streaming. Non avrebbe disdegnato il mezzo ma avrebbe affondato il colpo, esplorando la tecnologia, dimostrandone i limiti, demistificando, usando senza mai aderire, restando CB nella sua unicità irriducibile. E questo lo avrebbe fatto da partigiano dell’indisciplina contro la interdisciplinarietà, per usar le parole di Armando Petrini. Il fine era sempre infatti la distruzione della rappresentazione e della spettacolarizzazione della rappresentazione. Così cita Armando Petrini: «Sulla pagina è distruzione della narrazione, sul palcoscenico è distruzione dello spettacolo, sullo schermo è distruzione dell’immagine. Tre annullamenti che convergono in uno solo: quello di ogni rappresentazione»

Forse però, nel suo abitar sempre la battaglia, lui innamorato del teatro che non rinunciò mai a bestemmiar il nome dell’amato, dove si è dimostrato più estremo e rigoroso, fu nell’esser sempre nell’oralità della poesia. Non fu mai uno che riferiva il già detto, il morto orale. Diceva Carmelo nella sua Vita: «Il Testo!Il Testo!Il Testo! Nel teatro moderno-contemporaneo si persevera insensatamente su questa sciagurata conditio sine qua non del testo, considerato ancora propedeutica, premessa (padronale) alla “sua” messinscena. La messinscena subordinata al testo […] Mi ripeto: quel che più conta (urge) è liberare il teatro da testo e messinscena! Da qui il “levar di scena”, il testo della messinscena e la messinscena del testo. Tra-dire. Dire-tra».

Oggi nulla è cambiato. Ancora non si prescinde, anzi impera la messinscena. Senza testo i teatranti sembrano persi, incapaci di inventare la scena, di partire dal suolo come diceva Mejerchol’d, altro grande dimenticato che affermava senza mezzi termini: il testo alla fine!

Ma che ci si poteva aspettare da un Paese in cui, come diceva CB citato da Petrini: «Tutti sono anticonformisti nel modo giusto, approvato, guai a essere anticonformista senza essere conformista». Giudizio condiviso da Pasolini, altro grande irregolare che oggi tutti in qualche modo vogliono tirar per la giacchetta dalla propria parte, e citato da Manganaro afferma: «Il teatro italiano, in questo contesto (in cui l’ufficialità è protesta), si trova certo culturalmente al livello più basso. Il vecchio teatro tradizionale è sempre più ributtante. Il teatro nuovo […] (escludendo Carmelo Bene, autonomo e originale) è riuscito a divenire altrettanto ributtante che il teatro tradizionale. È la feccia della neoavanguardia e del ’68. Sì, siamo ancora lì, con in più il rigurgito della restaurazione strisciante».

Carmelo Bene in Lorenzaccio

Come non vedere in queste parole di due dei più grandi artisti e intellettuali del Novecento, lo specchio dei tempi nostri, in cui tutto sembra rinchiudersi nel recupero delle messinscene, del teatro di regia veterotestamentario, nei dicitori di testi propri e altrui, in un deserto senza ricerca, perché impossibile nei diciotto giorni canonici o nelle residenze sparse pochi giorni qua e là con mesi in mezzo a far altro per sbarcare il lunario. Rispetto ad allora c’è in più forse una certa “locura” come dicevano in Boris, una sventagliata di paillettes e finto giovanilismo, per svecchiare i testi, renderli più digeribili, premasticati per il pubblico-consumatore. Ma sempre dal testo si parte, si è ingordi di nuova drammaturgia, di scrittori, di drammaturghi più che di grandi attrici o attori, di sublimi e scandalose ricerche che smuovano l’orrenda e immota palude in cui siamo immersi come sonnambuli dimentichi di tanto glorioso recente passato.

Eppure per quanto iconoclasta, CB era artista e attore profondamente impregnato di Tradizione. Non solo quella, per così dire semplificando, d’avanguardia, quella di Mejerchol’d e Artaud, ma anche quella dell’opera, del melologo, dei lieder, grandi attori italiani, di Petrolini, della Commedia dell’Arte, fino agli antichi attori del romano imperio, reietti e sublimi, parlati dalle voci, inventori di impossibilità rese per un attimo possibili prima di sparir nel buio. D’altronde per poter variare il canone bisogna conoscerlo a menadito. La Tradizione viene portata avanti da coloro che la tradiscono pur amandola profondamente. E per tradire bisogna conoscere. Quello di Carmelo era un amore da teologia negativa, un toglier di mezzo dio per amarlo di più, un bestemmiarlo per scuoterlo. La sua è stata una lotta epica come quella di Giacobbe con l’angelo e come il patriarca rimase sciancato e offeso nel corpo.

Oggi invece tutto scompare senza lotta alcuna, in pochi secondi, nel silenzio. Non rimane nulla. Ci si dimentica non solo di CB, ma di Kantor, di Leo de Berardinis e di tanti altri, non persi nella notte dei tempi , ma scomparsi da poco nel buio oltre le quinte della vita.

Carmelo Bene in Salomé

Ultimo punto: il togliersi di mezzo. CB per quanto accusato di essere istrione, vanitoso nell’esporsi, non ha fatto altro in tutta la sua carriera d’attore che sabotare l’io, il soggetto. Pensate al protagonista di Nostra Signora dei Turchi, sempre contuso, ferito, ingessato. Carmelo diceva amleticamente «povero pallido individuccio / che non crede che al suo io che a tempo perso». CB operò come John Cage con la stessa tenacia, seppur senza la sua olimpica serenità, a portare l’arte oltre l’espressione di sé, a essere fatto fisico corporeo materiale e proprio nel suo esser tale sconvolgeva i valori e le dinamiche del mondo acquisito e non messo in discussione. Non era certo nel comunicare qualche fattarello privato, qualche sentimetuccio a buon mercato per commuovere l’anziano abbonato, e nemmeno nel promuovere la cronaca personale o mondana che sia, il luogo in cui risiede il nucleo proprio e più profondo del teatro.

CB, come Cage, portò l’arte al di sopra di tutto questo, facendone una questione di filosofia se non di teologia applicata. Un rivolgere l’occhio verso altri cieli non contaminati dal berciare quotidiano. Ecco perché Carmelo era trasversale e riuniva le folle: per il suo essere universale, per esser capace di far risuonare la parola poetica all’interno di qualsiasi orecchio, benché sussurrasse solo al suo come Epitteto al mercato.

Per concludere, ricordare Carmelo Bene oggi non è un vezzo da anniversario, ma è rammemorare una ricerca estrema e radicale nei suoi esiti e i cui frutti furono la totale messa in discussione di tutte le funzioni e le pratiche del teatro e di tutti i media attraversati nel corso della sua carriera. Oggi si viene derisi, persino da gente carica di premi Ubu, quando si parla di ragionare e mettere in discussione le funzioni del teatro. Anzi si invita a tacere per tornare a far spettacolo, come ce ne fosse poco di spettacolo in giro. Quel che manca è il teatro, ma sembra non importare molto a nessuno. Ecco perché siamo così pronti a dimenticare questo figlio degenere, perché la sua scomoda presenza ci rammenta ad ogni istante quanto siamo distanti dal Teatro con la maiuscola, che non facciamo nulla per ottenerlo per paura di non ricevere il tanto agognato placet ministeriale. E così perdiamo tempo, inabili a qualsiasi rivoluzione, procrastinando mentre nell’ombra CB continua a sussurrare: «l’arte è tanto grande, la vita è così breve!».

Armando Petrini Carmelo Bene, Carocci Editore, Roma, 2022

Jean Paul Manganaro Oratorio Carmelo Bene, Il Saggiatore, Milano, 2022