«È ora che gli iniziati accendano le lanterne», così diceva Antonin Artaud. Questa ingiunzione ricorda un racconto breve di Kafka. Si intitola Di notte. Parla di un popolo addormentato sulla nuda terra e di un solo uomo che veglia con la lanterna accesa: «Perché uno deve vegliare. Uno deve esserci».
Quel vegliare per tutti Antonin Artaud lo pagò a caro prezzo. Una vita di martirio e di dolore, di isolamenti e camice di forza, di elettroshock e avvelenamenti, di fraintendimenti e tradimenti, per non dimenticare quelle tossi quando tornò a parlare in pubblico, quei colpi di tosse che riteneva sfregi ai misteri evocati dalle parole magiche imparate a costo di mille crocifissioni giornaliere.
In quest’oggi dominato dalla crisi sanitaria, il corpo glorioso, ferito e sfregiato di Antonin Artaud ci ricorda l’essere, il corpo, niente altro che un piano attraversato dal dolore e che tale corpo non ha né patria, né dei, né sessi, né convinzioni politiche, né padroni né servi, è corpo è basta, fatto di liquidi, di deiezioni, sangue e sperma, organi mai al posto giusto perché non c’è un ordine precostituito.
Corpo è solo un luogo attraversato dalle forze che squassano e dominano l’essere. Niente altro. E per questo è misterioso e sacro, e parla una lingua oltre il linguaggio, come un condannato al rogo che disegna geroglifici tra le fiamme .
Il 23 gennaio 2022 Fuori Orario cose(mai) viste ha dedicato una notte intera ad Antonin Artaud e a ciò che ad Artaud si riferiva (per esempio le quattro meravigliose lezioni di Carmelo Bene Quattro momenti su tutto il nulla registrate per la RAI nel 2001, e il fantastico racconto di fantapolitica di Alberto Grifi Dinni e la normalina ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follia militante del 1978).
Il titolo della selezione è evocativo e ambiguo: puissanse de la parole, controverso è infatti il rapporto di Artaud con la parola: sfiducia in quella diretta verso un obiettivo di senso, qualsiasi senso; estatica ammirazione insieme a rabbioso utilizzo per quella magica, significante, evocativa delle forze oscure nelle pieghe di ciò che chiamiamo essere.
Artaud (Movimenti, suoni, versi e soffi) di e con Pierpaolo Capovilla, Gianluca Bottoni e il compositore Paki Zennaro, antologia di testi artaudiani tra Succubi e supplizi, Ci-git e les jeunes filles de cœur à naître presentato al Festival della poesia di Genova nel 2020 e riproposto in questa notte artaudiana dalla redazione di Fuori Orario è un bellissimo esempio di questa potenza della parola.
Si scorge in questo breve ma esaustivo florilegio, rabbrividendo certo e non per piacere, «l’insostenibile lotta che c’è sempre tra l’individuo forsennato e tutti gli altri». Si percepisce per un lungo momento l’esperienza di un uomo, prima di un grande artista, «violentato per tutta la vita», quasi suicidato dalla società ma che è riuscito, grazie alla fede negli uomini che pur tuttavia aveva, ad affermar gridando la sua verità, a lasciare un segno indelebile nel secolo passato e che può e deve ancora essere stella polare al teatro di oggi così spaesato e perso.
Oggi che si è tornati ad aggrapparsi alle parole piene di senso, nell’illustrare il raccontino, meglio se datato e accettato, impedendosi la straordinaria unicità del teatro in grado di evocare senza dire, evocar facendo, come gli antichi Veda capaci di elaborare un pensiero in cui parole e azione erano congiunti potentemente nel dire al di là di ogni significato, la parole di Artaud sono quanto di più necessario si possa respirare. Nelle stanze chiuse e asfittiche del teatro contemporaneo si dovrebbe portare aria fresca recuperando le disperate invocazioni di chi come Antonin Artaud e Carmelo Bene hanno provato a farci percepire come il farsi dire, il lasciarsi parlare, come l’etimo vorrebbe, sia molto più efficace del discorrere e dell’argomentare nel rivelare la natura inconsistente dell’essere.
Pierpaolo Capovilla e Gianluca Bottoni riescono a far trasparire, anche grazie alle musiche di Paki Zennaro, quella lotta spasmodica di un uomo solo contro il mondo, contro una società già orientata verso una normalità mediocre e condivisa, per nulla tollerante alle eccezioni seppur geniali. I martiri e le sevizie sul corpo di Artaud traspaiono in tutta la loro violenza, ma si trasfigurano in violenta rivolta contro lo strapotere della società sul corpo, diventano canto straziato, tragico e sublime, non solo di Artaud, ma di tutti coloro che sono prigionieri del pensiero e categorie altrui, incasellati nell’esser ciò che non sono, violentati nelle loro diversità, impediti a manifestarsi in tutta la loro splendente unicità.
Antonin Artaud ha vigilato in tremenda sofferenza in una lunga notte in cui tutti dormivano. Uno doveva esserci. È ora di dargli in cambio e magari essere più di uno, perché le forze pronte a schiacciare chi non si allinea sono più forti che mai e i suicidati dalla società cominciano a essere un numero non più accettabile.
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