Con
la nona intervista per Lo stato delle cose questa settimana
incontriamo Giselda
Ranieri,
danzatrice e coreografa ligure di nascita, giramondo per scelta.
Abbiamo
posto anche a lei le cinque domande su temi importanti quali
creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto
con il reale. Lo scopo di questi incontri è di raccogliere le idee e
i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca scenica
e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti
necessari per un vero rinnovamento nonché le possibili coordinate
verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso
nel suo senso più ampio del termine.
Giselda
Ranieri
è autrice associata ALDES,
specializzata nell’instant composition
e creatrice di lavori caratterizzati sempre dalla commistione dei
linguaggi del corpo. Tra i suoi lavori ricordiamo T.I.N.A
e HO(ME)_ PROJECT.
D:
Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa
necessita per essere efficace?
Mi
vengono in mente diverse cose: la presenza viva di corpi performanti,
ossia con un tipo di presenza più consapevole rispetto al
quotidiano; la compartecipazione a un evento che essendo human
based
sarà sempre diverso anche nella ripetizione (ma forse questo vale
anche per un concerto rock!); l’essere fondato e focalizzato sul
processo di ricerca prima che sul risultato.
Per
essere efficace deve avere senso prima di tutto per chi la fa questa
creazione: avere un valore di scoperta, di conoscenza, deve spostare,
modificare qualcosa prima di tutto nell’autore. Intendo efficace
come significante.
Penso
che l’efficacia di una creazione sia qualcosa di delicato che si
rivela piano piano nel farsi processuale per poi palesarsi pienamente
solo dopo un po’ di tempo, attraverso un lavoro di fino, di
cesello, anche attraverso le repliche. Efficace è qualcosa che dice
senza bisogno di troppe parole, che agisce e segna senza bisogno di
essere mostrato, che arriva al corpo di chi guarda in modo diretto.
Quando si parla di gesto efficace, ad esempio, anche in senso comune,
si intende quel gesto che impiega la giusta (misurata all’obiettivo)
dose di energia: né più, né meno. Personalmente lo trovo col molto
lavoro soprattutto in fase di processo creativo e grazie alla
precisione della messa a punto dello spettacolo. Riconosco
l’efficacia di una creazione scenica quando tutto mi sembra nel
posto giusto, al momento giusto: quando c’è una certa musicalità
al di là della specificità del linguaggio utilizzato.
D:
Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto
evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle
residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da
fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione
sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli
nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa
sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Più
investimenti nel settore spettacolo? Migliore utilizzo delle risorse
esistenti? Più coraggio negli investimenti? La ricomparsa dei
mecenati? A parte scherzi (mi riferisco all’ultima sparata!),
sicuramente maggiori risorse economiche sarebbero d’aiuto per tutti
gli interlocutori coinvolti. All’estero capita non di rado di
trovare un giovane coreografo (giovane qui inteso anche in senso
anagrafico) sostenuto almeno in parte da un teatro stabile o in
residenza presso prestigiosi istituti culturali. Forse manca anche un
po’ di coraggio o presa di responsabilità da parte di alcune
istituzioni nell’investire in progetti o artisti che non
rappresentino già una garanzia di successo.
Penso
anche che un lavoro congiunto tra i diversi luoghi di produzione e
strumenti produttivi potrebbe agevolare molto non solo l’avvio di
nuove creazioni, ma anche il loro sviluppo e consolidamento.
Credo
infatti che la questione principale non sia più tanto iniziare una
creazione per cui effettivamente ci sono diverse opportunità, quanto
piuttosto la capacità di sostegno allo sviluppo successivo di questi
progetti e alla loro compiuta realizzazione.
D:
La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto
debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono
impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la
visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un
vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente
solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo
tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e
prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o
professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di
distribuzione?
Non
credo che in quanto artista sia la persona più adatta per rispondere
a questa domanda; forse bisognerebbe chiedere direttamente a un
distributore riguardo alle carenze del “sistema”…ecco, forse,
prima di tutto l’assenza di un sistema integrato tra competenze e
ruoli.
Partirei
forse da qui: col potenziamento, la cooperazione e il coordinamento
del lavoro delle strutture e delle professionalità già esistenti.
Non
sono più una novità le soluzioni creative che gli artisti hanno
trovato nel tempo per supportarsi vicendevolmente. Ne è un esempio,
la creazione di gruppi ombrello capaci di sostenere economicamente un
ufficio – ossia diverse professionalità al servizio dell’artista
– attraverso l’unione e la condivisione del lavoro di più autori.
Ed
esiste già, per quanto riguarda la danza a livello nazionale, una
rete di strutture che condivide una rosa di proposte di spettacoli
abbassando i costi di circuitazione. Ma è principalmente rivolta ad
autori con meno di 5 anni di produzione alle spalle. Un buon esempio
da sviluppare ulteriormente.
Potrebbe
poi essere fortificata la presenza di operatori di settore sempre più
in
contatto con le istanze degli artisti indipendenti o di quelli non
strutturati. Proprio per la scarsità di risorse, spesso un artista
non ha la possibilità di permettersi il supporto di figure
specifiche quali quella di un distributore. Se da un lato è giusto
che noi artisti per primi siamo responsabili e soggetti attivi del
nostro fare artistico, è anche vero che non tutti nasciamo con uno
spiccato piglio imprenditoriale ed economico (probabilmente si
sarebbero fatte altre scelte nella vita) e sarebbe più corretto che
ognuno potesse optare se essere una figura unica “tutto fare” o
se scegliersi i giusti collaboratori con cui condividere esperienze e
progettualità.
In
Europa figure di questo genere esistono già o, per meglio dire, la
iper-specializzazione non sembra essere sinonimo di competenza, ma
forse, a volte, di chiusura e viene spesso incentivato il
deragliamento delle competenza: coreografi-dramaturg, ricercatori
universitari-danzatori-scrittori, danzatori-scrittori di danza…
Forse,
più che di figure iper-specializzate ci sarebbe bisogno di
professionalità ibride in grado di declinare il proprio carnet di
competenze a seconda del progetto o dell’artista a cui si dedicano.
D:
La società contemporanea si caratterizza sempre più in un
inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più
difficile distinguere traonlineeoffline.
In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le
funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento
da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo
compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i
nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e
irripetibile ad ogni replica?
Siamo
certamente immersi in una realtà anche virtuale e la cosa poco
interessante è che non ne conosciamo neppure gli utilizzi migliori o
più creativi….ma questo è un altro discorso.
Sono
convinta che oggi, più che mai, l’esperienza live,
in presenza, sia qualcosa di non sostituibile e di effetto,
soprattutto quando si ha occasione, come pubblico, di essere
abbastanza vicino al performer: la visione di un corpo reale sulla
scena (che respira, suda, si muove) può essere impattante anche a
livello emotivo, ci “muove” letteralmente grazie ai neuroni
specchio (vedi G. Rizzolatti) di cui tutti disponiamo.
Tendendo
le orecchie dopo gli spettacoli o chiedendo direttamente alle persone
tra il pubblico, ho scoperto che a meravigliare è soprattutto la
diversa vicinanza-relazione con quel corpo reale, sulla scena; questo
forse non vale per gli habitué del teatro, ma per coloro che
riescono a mantenere sempre vivo lo stupore nello sguardo sì. A
sorprendere è quel tipo particolare di Presenza, come una sorta di
“presenza aumentata” (e allora siamo anche qui nel regno del
virtuale?!). E’ come se, per la prima volta, si fosse in grado di
vedere “Il Corpo” e tutte le sue possibilità espressive; non
parlo solo delle capacità tecniche del performer in scena (danzatore
o attore che sia), ma proprio di quella Presenza che solo sulla scena
è possibile sperimentare: per chi guarda e per chi agisce.
D:
Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e
artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca
che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente
tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica
opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la
realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena
contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e
interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto
possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti
efficaci per confrontarsi con esso?
Per
mia tendenza personale sono portata a guardarmi intorno e riflettere
anche attraverso la creazione scenica sul reale che mi circonda. Sono
convinta che la scena possa farsi voce del reale (metamorfizzato,
trasfigurato, idealizzato…) per aiutare a interrogarsi sul proprio
presente e sulla propria presenza consapevole, scenica e quotidiana.
L’unico rapporto possibile col reale è un rapporto critico, di
osservazione, riflessione, che apra a domande, spunti di visione
altri dalla norma. Ma cosa è “reale”? Una visione allucinata è
reale per chi la vive; una relazione sentimentale, anche se vissuta a
distanza è reale; la manipolazione del reale è reale. Al di là
della realtà materiale c’è una realtà intimamente oggettiva:
questa è quella che mi interessa perché portatrice di voci
differenti e di potenzialità immaginifiche. Quindi credo che anche
le strategie di confronto col reale siano e debbano essere
molteplici. La mia personale è “l’ironia” , la presa di
distanza, anche da me stessa, che mi permette (quando viene bene!) di
avere uno sguardo d’insieme sul reale e col reale (nel senso che io
sono soggetto compreso in quella visione). Non la distanza cinica che
pone il soggetto fuori dall’insieme, ma un tipo di distanza che per
me è come la boccata d’aria del nuotatore prima di ributtarsi in
acqua. Mi prendo seriamente non troppo sul serio e sinceramente
diffido un poco da chi non sa sorridere e a volte ridere (in faccia)
alla vita.
L’unico
rapporto col reale che mi interessa vedere sulla scena è il coraggio
dell’interprete e dell’autore attraverso di lui, di andare in
profondità e oltre se stesso, la capacità di trasfigurarsi per
farsi corpo (che comprende la voce) espanso, comunitario. di mettersi
in vibrazione con le drammaturgie della scena per fare esperire a chi
guarda delle verità sensibili (perché hanno a che fare coi sensi).
Questo per me vale per qualsiasi approccio spettacolare e di ricerca.