Archivi tag: Altissima povertà

Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – V PARTE

:«L’autenticità si rivela ostile alla società. Per via della sua natura narcisistica, essa opera contro la costruzione stessa della comunità. Decisiva per il suo contenuto non è la relazione con la collettività o un altro ordine superiore, bensì il suo valore di mercato, che bypassa tutti gli altri valori»

Byung-Chul Han La scomparsa dei riti

:«Lo spirito commerciale è dotato solo di intelletto calcolante, gli manca la ragione e, perciò, privo di ragione è lo stesso sistema, dominato esclusivamente dallo spirito commerciale e dalla potenza del denaro»

Byung-Chul Han L’espulsione dell’Altro

:«Nel principato come nelle repubbliche la libertà si perdette sempre, perché vi fu una minorità audace ed una maggiorità inerte»

Massimo D’Azeglio Scritti politici

Il teatro delle origini greche oltre a essere “luogo da cui si guarda”, era insieme rito e agone, festa e gioco. Si esercitava quindi lontano dalla ferialità del quotidiano. Erano presenti gli dei, le forze dirompenti che agivano sull’uomo, ma era anche una festa, un momento in cui il lavoro era sospeso e non si faceva nulla di utilitaristico. Anche nella rinascita medievale il teatro si era sviluppato nella dimensione del sacro e della festa, dal sagrato della chiesa ai carri della fiera. Vi partecipava non un pubblico ma una comunità, fosse quella della chiesa, del castello, del villaggio. E così nel Rinascimento, dove il teatro era festa, trionfo, rito, nelle piazze come nelle corti. E su fino al XVIII sec. dove cominciò, con la Rivoluzione a trasformarsi in festa e rito civile e non più religioso, ma sempre luogo di ritrovo di una comunità. Nei diari di Casanova si legge dell’intensa vita che fiorisce intorno al teatro: si gioca, si fa società, si cena, si fa politica e si intessono relazioni sentimentali. Lo spettacolo era il perno su cui ruotavano innumerevoli altre attività. Ancora nel Novecento il teatro aveva una centralità civile e rituale, dall’avanguardia alla tradizione e persino nei regimi totalitari, perfino nei campi di sterminio. Pensiamo a Marinetti dove la scena diventava agone di sfida al pubblico, o a Brecht e al suo teatro epico. Ma pensiamo anche a Il Maestro e Margherita di Bulgakov, dove Woland sceglie proprio il teatro per manifestare la sua potenza per poi partecipare alla festa nella Notte di Valpurga. A teatro si è inneggiato al potere cosi come sì resistito e combattuto il potere. In questo il pubblico è sempre stato un organismo comunitario, e il teatro il luogo dove palcoscenico e sala riunivano il mondo e il suo specchio, in un dialogo che proponeva e immaginava possibilità. In questi lunghi mesi di chiusura quello che è apparso purtroppo evidente è che il Teatro è mancato più a chi lo faceva che a chi lo vedeva. Perché questo? E forse perché l’agire dell’artista si è allontanato dalla società? O perché il teatro è diventata arte obsoleta non più capace di tenere il passo coi tempi e con il mondo digitale? Forse è giunto per quest’arte millenaria il tempo di diventare ancor più effimera e lasciar per sempre il mondo analogico?

Oggi l’andare a teatro non ha niente di festivo e certo non è più un rito. Tutto scorre. È la perenne danza di Siva che crea e distrugge i mondi. Niente dura in eterno, ma dobbiamo pur rilevare che qualcosa è radicalmente cambiato, qualcosa che fino a oggi non era mai accaduto: viviamo un tempo e una civiltà basata su un sistema economico che vuole atomizzare la società più che riunirla. Ciò che conta è monetizzare qualsiasi azione, tutto deve diventare lavoro, in un flusso senza pausa alcuna, nell’indifferente presente del h24 sette giorni su sette.

René Magritte, Latraversata difficile, 1963

Lo spettatore (dal latino spectare, guardare, quindi egli è colui che guarda) in questo contesto e nella maggioranza dei casi è chiamato a teatro semplicemente per incrementare i parametri necessari all’algoritmo per determinare e confermare la crescita dell’attività proposta dall’ente richiedente i sostegni. L’algoritmo ministeriale misura solo per il 30% la qualità, per il restante è meramente quantitativo. Le presenze in sala, i biglietti venduti sono diventati quindi l’ossessione di ogni operatore che aspira ai fondi del FUS o delle fondazioni bancarie. Dietro l’ipocrisia dell’Audience engagement, ossia il coinvolgimento dei nuovi pubblici – e per farlo ovviamente si utilizza un termine di derivazione militare -, vi è soltanto un pensiero computazionale volto alla verifica della crescita. Nemmeno i festival oggi sono più una festa, ma per lo più vetrine commerciali dove si fanno sfilare i nuovi modelli davanti a operatori e critici e ovviamente al pubblico, ma più per incassi e borderò che per attuare insieme una vera festa o sviluppare un rapporto vero e duraturo.

L’unica dimensione in cui incontriamo davvero una reale comunità è nel piccolo, nelle periferie, nel provinciale, laddove la community degli habitué difficilmente si dirige e si incontra e stabilisce un rapporto con la cittadinanza. In questi luoghi i teatri sono generalmente luoghi frequentabili al di là dello spettacolo. Sono spazi dove i ragazzi, le categorie deboli, gli anziani vanno a fare delle altre cose insieme agli artisti, sono luoghi in cui si fa teatro ma esso è anche motore per altre attività e legami sociali, dove ci si riunisce e ci si incontra. L’abbiamo visto anche durante la pandemia laddove, in alcuni casi, i luoghi teatrali provinciali e di periferia sono diventati anche luogo di sostegno materiale oltre che spirituale, case dove scambiare storie (per esempio al Teatro Caverna di Bergamo dove sono state distribuite poesie e scorte alimentari, ma anche i vari casi, sparsi da Nord a Sud, di Teatro in delivery, dove la preoccupazione era tenere il filo con la società civile nonostante la pandemia). Ed è in queste realtà che le chiusure dovute al Covid faranno più danni, dallo sfilacciarsi dei rapporti umani ai danni economici che non verranno riparati da nessun fondo specifico. Non saranno i grandi teatri a chiudere, ma le piccole realtà e con loro il lavoro di tessitura sociale in ambienti difficili. Domandiamoci cosa è teatro e a cosa serve prima sia troppo tardi.

René Magritte La reproduction Interdit

I grandi luoghi deputati al teatro, quelli che si stagliano solenni nei centri cittadini, sono, anche in tempi normali, per lo più chiusi al pubblico se non per la rappresentazione. I loro bar sono aperti giusto poco prima dell’inizio della rappresentazione e durante il quarto d’ora di intervallo. Non ci si può soffermare a fine spettacolo, non si può arrivare troppo presto. Si deve guardare e andare via. Non c’è proprio modo di fare comunità. Intorno allo spettacolo non c’è più molta vita. Milo Rau nel suo manifesto di Gent ha provato a riportare l’intero processo produttivo al centro di un vortice che coinvolge l’intera città. La cittadinanza può partecipare alle prove, perfino aspirare a far parte dello spettacolo, frequentando l’ambiente teatro in momenti diversi dalla performance. Gli spettacoli di Rau sono anch’essi volti a ripristinare una ritualità civile dove lo spettatore si trasforma nuovamente in una piccola agorà (pensiamo ai “processi” ma anche al La passione di Matera). In Italia Virgilio Sieni, sia durante la sua direzione alla Biennale di Venezia, sia nei progetti come Altissima Povertà, ha cercato di far risorgere intorno al processo creativo e alla danza un nucleo volto a coinvolgere l’intera comunità, I questi casi citati a cui si potrebbero affiancarne molti altri (Cuocolo e Bosetti, Drama Teatro e Teatro dei Borgia per esempio) si sente ancora la volontà non di fare engagement ma di incontrare e costruire con l’occhio del pubblico un mondo a partire dal mondo. Ma siamo nella minorità.

La maggioranza del mondo dello spettacolo italiano vive dipendendo dal computo dei biglietti e dei borderò. Nel numero non c’è nessuna comunità. L’annuario SIAE del 2019 riporta che nel settore teatrale si sono svolti 132201 spettacoli per 23.328.382 ingressi con 1.180.638 presenze e un volume d’affari di 499.935.318,98 €. Ecco i numeri. Ovviamente non dicono nulla. Li possiamo leggere in svariate modalità, confrontarli con gli anni precedenti (con i successivi registreremmo solo l’enormità di un’assenza), vedere gli incrementi e i decrementi, ma i numeri non ci dicono nulla su quello che chiamiamo pubblico e nemmeno sul perché dovrebbe frequentare i teatri. Se il teatro infatti non è più rito e nemmeno festa e gioco, cos’è diventato? Ha una valenza nella vita delle persone? Gioca un ruolo oltre all’intrattenimento? Veramente come dice Binasco, e non Conte, il compito è non più politico ma limitato a far ridere e piangere? Sono domande che dobbiamo porci prima che riaprano i teatri perché non aver chiaro questo punto significherebbe una catastrofe ben maggiore delle chiusure attuali.

La cultura oggi è presa dalla bulimia e dall’obesità comune a tutti i settori della civiltà neocapitalista. Al supermercato si espone sugli scaffali ben più di quel che si consuma, si laureano più persone di quelle che effettivamente troveranno lavoro e così a teatro di produce più di quello che si può vedere. Le nostre pupille sono invase dal mattino alla sera di immagini, video, post e siti. Siamo in overdose visiva e stanno sorgendo vere e proprie malattie relative alla visione come il binge watching, la dipendenza da serie. Nel visualizzare (non vedere) noi produciamo lavoro e denaro. Paghiamo servizi per le piattaforme, facciamo guadagnare Youtube e chi posta i video alzando il numero di visualizzazioni e così su Facebook con i nostri like. La visione di oggi è un’attività ben lontana dalla sospensione della festa e da qualsiasi otium generante riflessione, siamo nel feriale, nel lavorativo, nel quotidiano agire/patire. Ora anche a teatro questo sta avvenendo appunto con i parametri di crescita: più produzione, più pubblico, più incassi, più fondi. Nessuno si fa una domanda sul perché? Nella società dei metadati e degli algoritmi si contano le teste, si vedono i flussi, ma le intelligenze artificiali non ci dicono mai il perché, ci dicono solo il come e il quando. Come dice Byung-Chul Han: «i numeri contano ma non raccontano». È dunque solo una questione commerciale e di quantità o intorno al teatro vogliamo costruire altri valori? L’occhio di chi guarda deve veramente essere ingozzato come l’oca da fois gras o possiamo immaginare una visione diversa in cui sia possibile anche chiudere gli occhi?

RenÈ Magritte, DÈcalcomanie, 1966, © PhotothËque R. Magritte / Banque d’Images, Adagp, Paris, 2016

Cosa avverrà alla riapertura? É difficile rispondere a questa domanda. Non è mai facile indagare le nebbie del futuro, e ancora di più lo è in questa situazione del tutto nuova per il XXI secolo, ma è senz’altro probabile che alcuni degli effetti di questa pandemia estremizzeranno le pratiche descritte. Aumenterà il divario tra Teatri Nazionali e Tric da un lato e le piccole realtà dall’altro. Almeno quelle che riusciranno a sopravvivere. L’iperproduzione di certo non si arresterà visto che non si è placata nemmeno durante le chiusure (alcuni teatri hanno “in congelatore” più di una produzione), quindi è facile prevedere fin dall’estate un eccesso di eventi e prime. Per i giovani resterà un contesto di concorrenza feroce ed estrema dove le occasioni al ribasso saranno per molti l’unico orizzonte. La digitalizzazione porterà nuove sperimentazioni ma allontanerà ancor di più il pubblico dai palcoscenici, non in termini numerici, ma in termini di qualità del rapporto. Infine Il distanziamento necessario ad arginare la pandemia unita alle strategie di atomizzazione della società messe in atto da capitalismo, rendono il panorama sociale ancor più difficile per chi vede il teatro come luogo di incontro di un corpo comunitario. Come reagirà il pubblico è senz’altro una delle maggiori incognite. Come cantava la canzone, scopriremo queste cose solo vivendole. Vero è che tutti questi mali sono opportunità per ripensare il sistema, per immaginare e provare a implementare strategie diverse, ardite, persino utopistiche. Molti tavoli di discussione si sono aperti in questo disgraziato paese, ma si sta replicando la parcellizzazione dei punti di vista, e il comparto non è stato in grado di agire di concerto. Si è persa forse l’occasione di fermarsi e di riflettere con attenzione su dove la sfrenata corsa al produrre ci stava portando. La speranza è riposta nei giovani, nella loro capacità di ribellione, nelle loro energie capaci di smuovere la massa adiposa e inerte che grava sull’edificio antico del teatro. Solo loro potranno essere capaci di riallacciare i rapporti col mondo e perfino, speriamo, di inventarne uno diverso.

Ringraziamenti

Per questi articoli numerosi e doverosi sono i ringraziamenti. Solo grazie al confronto e al dialogo, informale e amichevole, è stato possibile cercare di analizzare, seppur a volo d’uccello, l’intera filiera teatrale.

Un grazie sentito ai colleghi Walter Porcedda, Elena Scolari, Alessandro Toppi e Michele Di Donato per le lunghe chiacchierate e il fruttuoso scambio di punti di vista. Riconoscenza e gratitudine vanno agli operatori che mi hanno indicato le anomalie sistemiche: Danila Blasi, Magda Siti, Lorenzo Vercelli, Mimmo Conte, Carlotta Vitale, Simonetta Pusceddu, Girolamo Lucania, Damiano Grasselli, Matteo Negrin, Valentina Tibaldi. E ultimi ma non ultimi gli artisti senza i quali non ci sarebbe teatro: Marco Chenevier, Marco Lorenzi e il Mulino di Amleto, Massimo Sgorbani, Gli Instabili Vaganti, La Piccola Compagnia della Magnolia, Liv Ferracchiati, Silvia Battaglio, Erika Di Crescenzo, Nicola Di Chio, Alba Porto, Thea Dellavalle e Irene Petris. Spero di non aver dimenticato nessuno.

Tommaso Serratore

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A TOMMASO SERRATORE

Per la quarantunesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Tommaso Serratore, friulano di nascita e torinese d’adozione. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Tommaso Serratore è danzatore e coreografo associato a VersiliaDanza e più volte collaboratore di Virgilio Sieni. Tra i suoi lavori recenti ricordiamo: L’esatto Colore del Dubbio, La Leggerezza del Divenire, Passenger_ il coraggio di stare, Mr. Furry.

Tommaso Serratore
Tommaso Serratore Mr. Furry ph: @Andrea Valenti

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

I processi creativi degli autori sono molteplici e soprattutto personali; ognuno trova la sua modalità di approccio ad un tema che può essere più o meno di richiamo sullo spettatore. La particolarità della creazione scenica sta proprio nella capacità dell’autore di esternare il suo immaginario in maniera unica e riconoscibile, portando lo sguardo dello spettatore dentro a una personale visione.

Da spettatore, le rappresentazioni più avvincenti sono quelle che mi coinvolgono non solo per l’interpretazione dei protagonisti, ma anche per la cura di tutta la regia. Luce, suono, azione e ogni aspetto drammaturgico ed estetico devono fondersi all’unisono per rendere spettacolare una creazione.

Qualche anno fa mio padre, all’epoca era un ragioniere cinquantacinquenne, è venuto a vedere un mio spettacolo nel carcere di Teramo. La location e gli interpreti (semiprofessionisti e detenuti) erano sicuramente eccezionali e l’insieme dei mestieri (suono, luce, videomapping) ha trasformato quattro mura di uno spazio grigio e senza immaginario, in qualcosa di magico e possibile.

Mio padre alla fine della performance era commosso in silenzio, senza sapere effettivamente perché. In quella occasione ho percepito l’efficacia di una mia creazione, site specific, facendomi comprendere la responsabilità come autore di dover portare in Teatro quel tipo di suggestioni.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Non so se è corretto definire “evoluto” questo sistema, sicuramente sono aumentate le possibilità, si sono moltiplicati i bandi per accedere a benefici, ma spesso questi si riducono a una rendicontazione economica senza una reale cura, attenzione o investimento sull’artista.

Personalmente posso dire che tutte le esperienze più significative e più durature del mio percorso artistico fanno riferimento a contatti diretti, conoscenze sul campo, scambi tra individui.

La drammatica situazione conseguente al COVID19 sta sicuramente mettendo allo scoperto la realtà del sistema: finalmente gli artisti stanno cercando di fare corpo unico all’emergere delle criticità concrete di un mestiere che presenta una serie di specificità. Superata questa emergenza, i lavoratori dello spettacolo dovranno rimanere uniti per riorganizzare l’intero impianto, dalle scuole di danza al sistema produttivo e distributivo ministeriale, non per sopravvivere, ma per essere riconosciuti come lavoratori e dare dignità a coloro che alla danza hanno dato il valore di una professione. Parlando con alcuni colleghi anche stranieri si è pensato alla necessità di istituire un provvedimento unico europeo in grado di equiparare i titoli di studi, tutelare gli artisti in egual misura, oltre che favorire la mobilità.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Effettivamente gli artisti sono per lo più autodidatti, si fanno da sé, diventando autori, interpreti, videomaker, manager delle proprie creazioni. Ci sono quelli che riescono a mantenere una propria identità intellettuale e quelli che procedono secondo le richieste del sistema distributivo contemporaneo. Sono strategie diverse, scelte che ogni artista è portato a fare. Attualmente i budget di produzione sono minimi e i festival premiano i lavori agili, assoli senza scenografie e con impianti tecnici ridotti al minimo. Tutto ciò uniforma il livello artistico.

In questo momento l’artista si ritrova a doversi occupare più di questioni amministrative e gestionali e meno di ricerca artistica, al punto che gli spettacoli spesso rispondono a una disponibilità economica e non a una necessità comunicativa. Spesso non c’è alle spalle un percorso creativo che va a costruire un messaggio esplicito da condividere con il pubblico. Inoltre questa tendenza sta provocando la scomparsa di figure professionali come quelle di costumisti, scenografi, macchinisti e tanti altri. L’artista continua ad essere il manager di se stesso in quanto, ad oggi, non è sostenibile economicamente avere accanto un manager che provvederebbe al meglio nelle forme contrattuali, mantenendo così separati i ruoli. Ad ogni modo sembra non esserci spazio per gli artisti che cercano un dialogo con gli operatori del settore. Questi, nonostante gli inviti, non si muovono molto volentieri per andare a vedere gli spettacoli degli artisti, se non in contesti a loro dedicati. Mi piacerebbe vedere più operatori e direttori con occhi curiosi nei teatri, penso dovrebbe parte del loro mestiere. Per questo non penso che il sistema si sia evoluto. Si risolve tutto con un bando, un video, con link, quando lo spettacolo dev’essere guardato dal vivo.

L’idea che potrebbe alleggerire gli artisti nel lavoro di comunicazione e promozione dei propri lavori potrebbe essere quella di istituire un albo annuale degli spettacoli prodotti in Italia cosi che anche gli operatori, direttori e critici, possano avere una panoramica completa delle produzioni promosse in tutto il Paese; un documento da redigere ogni anno che include tutte le schede complete degli spettacoli prodotti dalle compagnie italiane nell’arco di 12 mesi. Ciò garantirebbe una visibilità a tutti gli artisti e la possibilità, per i direttori artistici, di manifestare interesse agli spettacoli secondo la mission specifica del festival o della stagione, in particolare in un periodo come questo in cui sarebbe auspicabile sostenere il “made in Italy”.

Tommaso Serratore Passenger ph: Salvatore Insana

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Il Teatro oggi ha perso la sua funzione sociale; è venuto meno, da parte del pubblico, tutto il rituale che si accompagna alla visione: spesso si arriva in ritardo e si scappa al termine, manca quel momento di condivisione tra pubblico e artista che spesso è la parte più gratificante per una persona che crede nel suo lavoro. Siamo nell’era dell’istantaneo, ma il teatro è un’altra cosa. Bisogna concedersi il lusso di prendersi del tempo.

Sicuramente i social network e le varie piattaforme hanno accelerato il processo di uniformità delle poetiche riducendo l’apporto creativo e artistico, collocando l’attenzione su ciò che è più riconoscibile. Il digitale è una bella vetrina, è allettante, può rendere tutto brillante, ma se le aspettative diventano alte, poi la realtà deve corrispondere alle attese.

Per me questo mestiere è artigianale, vivo, materiale. Amo vivere il teatro, allestirlo, costruirlo, inventarlo, disegnarlo con le luci, ambientarlo con i suoni. Il Teatro è una stratificazione di mestieri, è quindi il risultato di tante competenze messe assieme. Lo spettacolo dal vivo coinvolge i nostri sensi, si percepisce la profondità, si sentono i respiri, si godono i vuoti, ci avvolge in una atmosfera unica che di volta in volta crea una nuova empatia.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il processo creativo di un artista trova la sua forza nella realtà in cui vive, che attraversa, che incontra. Non a caso, le diverse correnti stilistiche della danza si riconoscono per ambito geografico, a seconda della realtà in cui si risiede. Un atto creativo è porre l’attenzione su un aspetto della realtà che altrimenti rimarrebbe invisibile; la bellezza di un lavoro sta proprio nel riuscire a trasporre una situazione, un concetto, un pensiero reale inducendo chi osserva a entrare nell’immaginario dell’artista. E’ solo attraverso l’incontro con lo spettatore che la performance rivive la realtà. L’efficacia dell’atto creativo sta nella lettura visiva, nel saper cogliere ciò che c’è di autentico in quello che si vede. In questo campo i bambini sono straordinari, stimolano lo sguardo, i sensi e la fantasia, rendendo possibile ogni visione. Risvegliare quel tipo di sguardo permetterebbe all’adulto di non ricercare sottotesti in quello che vede ma di scendere al concreto prendendo per buono quello che c’è.