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Freedom Sonata di Emanuel Gat

Freedom Sonata di Emanuel Gat apre una nuova edizione di Torinodanza, sempre sotto la direzione di Anna Cremonini, stabilmente al timone dal 2018. Quello di Gat, acclamato coreografo di fama internazionale, è un ritorno sotto la Mole dopo aver presentato nel 2022 LoveTrain2020, opera creata durante la pandemia.

Con Freedom Sonata il coreografo israeliano che, prima di darsi alla danza, si è formato alla Rubin Academy of Music di Tel Aviv, si confronta con il tema della sonata classica, mettendo a confronto l’album The Life of Pablo di Kanye West del 2016 con il secondo movimento della Sonata per pianoforte n. 32 in Do minore, op. 111 di Beethoven nell’esecuzione di Mitsuko Uchida.

Questa scelta musicale suscitano in chi scrive riflessioni che ineriscono più al ruolo e alla funzione dell’opera d’arte che alla danza in particolare. Freedom Sonata è una coreografia così ben eseguita e a tratti così intensa che on ha bisogno quasi di lodi o descrizioni anche perché non è narrativa, non racconta una storia e quello che accade in scena riguarda più i rapporti tra gli esseri umani in generale, al loro interagire, che al modo in cui si danza, attraverso quali stili o alla qualità del movimento.

L’accostamento musicale invece pare al primo impatto incongruo. Cosa hanno a che fare un rapper e Beethoven? E cosa unisce la forma sonata con l’hip-hop di Kanye West? Il legame non si nasconde nella forma, benché Gat divida idealmente il suo lavoro coreografico in tre parti. L’op. 111 è l’ultima delle sonate per pianoforte di Beethoven ed è costituita di soli due movimenti, il Maestoso e l’Arietta, che ispirò pagine intense a Thomas Mann nel Doktor Faustus. È proprio in questo secondo movimento che il grande compositore austriaco opera il dissolvimento della forma sonata classica. Non si assiste più alla contrapposizione dei temi e al loro sviluppo che li ripresenta trasformati a chiudere un percorso narrativo unitario. Beethoven trasfigura la sonata incorporando forme compositive altre, come la variazione o il contrappunto severo, ma anche la melodia popolare e il lieder, fecondandoli a vicenda. Il grande Ludovico Van, per dirla con le parole di Alex di Arancia Meccanica, si libera della sonata, ibridandola, facendo fiorire temi su temi, e unendo in nozze alchemiche il sublime con l’umile. E in questa esplosione di momenti musicali costruisce nondimeno un organismo equilibrato e dolcissimo, lontano dalle maestosità eroiche della Quinta e della Nona Sinfonia. È come se si fosse divertito a giocare con la materia musicale, facendo della sonata un qualcos’altro, non definito, al contempo esplosivo e rasserenante. E questo gioco porta lontano, tanto che Mitsuko Uchida, non teme di eseguire l’Arietta colorandola di ritmi rag-time, senza per questo dissacrare l’opera del maestro, tanto da sembrare che l’avesse scritta proprio con quest’intenzione.

Anche Kanye West sconfina dall’hip-pop prendendo a prestito dal Krautrock al trip-hop, dalll’R&b degli anni Settanta al pop melodico, così come dalla musica classica o dallo sperimentalismo elettronico. Ma se Beethoven espande gli strumenti a disposizione della forma sonata, dissolvendola per espanderne i confini e superare la crisi di valori cui era giunta, quella di West sembra solo un’appropriazione strumentale, un fagocitare disordinato che non giunge ad alcuna sintesi propositiva.

La chiave per comprendere l’operazione coreografica di Emanuel Gat sembrerebbe nascosta proprio nel rapporto che si instaura tra la musica di Beethoven e di Kanye West, non solo a livello formale, ma persino politico. Ciò che vediamo sulla scena dovrebbe apparire come l’espressione fisica e danzata di questa libertà raggiunta dai corpi di prendere in prestito linguaggi e frasi dagli ambiti più disparati e farli fiorire insieme come in un’esotica serra in cui crescono rigogliose piante provenienti dai più lontani continenti.

L’accostamento di stili dissonanti e dissimili dovrebbe raccontare la complessità dei rapporti tra il singolo e il gruppo. Un esempio il posizionamento, tra un segmento danzato e l’altro, di rotoli di tappeto-danza che dovrebbe, e usiamo ancora il condizionale, mostrare il dispiegarsi delle dinamiche attraverso cui dall’ordine di un singolo, che distribuisce i compiti, si sviluppi in una collaborazione dell’insieme dei danzatori. Si opera una dissoluzione della leadership. Anche nella danza ritorna costante la proposta gestuale di un singolo danzatore che viene presto riassorbito dal gruppo subito pronto a variare e riformulare il gesto offerto. Scrive Emanuel Gat nel programma di sala: «la creazione di una coreografia può essere uno spazio per capire come risolvere la tensione interna fra l’individuale e il collettivo, quale tipo di autorità può servire come forza motrice e quale come forza distruttrice». È in questo modo che un’opera che non possiede una narrazione o un tema scottante in evidenza, dovrebbe sostanziarsi come “politica”. È attraverso la dinamica dei rapporti tra i danzatori, e di questi con gli altri elementi della scena che si propone un diverso modo di essere, offrendo un’alternativa all’esistente.

E siamo quindi giunti al nodo cruciale e al motivo di tutti questi condizionali. West e la sua musica sono, negli ultimi anni, diventati l’espressione del pensiero dell’estrema destra americana, e non solo per l’appoggio a Trump. West si è profuso in dichiarazioni negazioniste non solo dell’olocausto, ma addirittura dello schiavitù dei neri americani. Le sue esternazioni sessiste, misogine e razziste non si contano, tra cui l’appoggio a Bill Crosby dopo la condanna per stupro. La critica americana si rifiuta persino di recensire i suoi dischi.

Usare un tale materiale musicale, così divisivo, e in alcun modo accostabile a quello di Beethoven se non negli elementi sopracitati, in un’opera coreutica la cui intenzione è; «diventare una forza rilevante nell’individuare anomalie sociali e proporre alternative» ne inficia inevitabilmente l’esito. Emanuel Gat ha più volte dichiarato che West è il più significativo musicista degli ultimi anni, ma come si può scindere oggi la musica e il messaggio che vuole veicolare? Si può ancora sostenere che l’artista e la sua opera siano mondi separati? Se l’arte non si distingue per la sua etica da ciò che rende il nostro mondo un luogo terribile in cui vivere, ha ancora senso? La bellezza veramente monda ogni nefandezza?

Con questo non si vuole accomunare Gat con le posizioni di West, ma semplicemente mettere in questione l’utilizzo dei materialie la loro funzione all’interno di un’opera di così grande levatura tecnica ed espressiva. Forse la libertà di questa sonata danzata arriva fino a comprendere e inglobare in sé le forme più deteriori rivalutandole? Forse la libertà è vera quando accetta anche le manifestazioni più urticanti? Emanuel Gat di certo ci ha donato con Freedom Sonata, molte questioni su cui riflettere.

Infine, il confronto tra Beethoven e West appare sproporzionato, dove al secondo movimento della 111 si accostano tutte le quindici tracce dell’album del rapper americano, il cui messaggio cristiano integralista è estraneo all’opera del maestro viennese. Il tessuto sonoro e il suo significato espressivo diventano compagni ingombranti rispetto a una danza dalla qualità sopraffina. Era proprio necessario l’utilizzo di tutte le tracce, sbilanciando il confronto, così tanto a favore di West (crica 18′ l’esecuzione dell’arietta contro più di un’ora per The life of Pablo)?

Freedom Sonata inizia con i danzatori completamente vestiti di bianco che danzano su un tappeto nero. Alla fine i colori sono invertiti. Bianco e nero si scambiano i ruoli e così, forse, tutto tramontando nel proprio opposto si trasforma e assume altri significati imprevisti. Resta però la sensazione che la libertà di cui si parla si sia colorata di venature oscure e inquiete.

Crystal Pite

BETROFFENHEIT: di Crystal Pite e Jonathon Young

Betroffenheit di Crystal Pite e Jonathon Young alle Fonderie Limone di Moncalieri è l’anteprima di TorinoDanza e inaugura la nuova direzione artistica di Anna Cremonini.

Betroffenheit è parola tedesca che indica uno sbigottimento che segue a un trauma. Lo spettacolo di Crystal Pite e Jonathon Young è il lungo cammino che viene percorso per superare tale perturbamento della coscienza per ritornare a vedere il mondo.

Betroffenheit è anche una storia personale, quella di Jonathon Young autore del testo e interprete in scena, che diviene materiale per la creazione artistica.

Lo spettacolo di Crystal Pite è costituito di due parti: una prima, racchiusa in una stanza, un regno di fantasia in cui si rifugia la mente, una trappola da cui è difficile uscire. Un luogo animato da strane presenze, in prima istanza amiche, quasi simpatiche, e via via sempre più inquietanti, invadenti, quasi ostili.

Le voci vengono da un esterno lontano, quasi presenze fisiche che trapelano da una cortina ipnotica, separata dal reale appartenenti a un’altra dimensione. L’azione è ricca di cambi di ritmo, quasi ossessivo montaggio delle attrazioni in uno strano cafè chantant che si anima in questa dilatata scatola cranica.

Questa prima parte di Betroffenheit, se si dovesse trovare un parallelo in musica, pare Spillane di John Zorn, dove stili musicali si avvicendano a ritmo forsennato inanellando immagini di una città oscura da noir d’anni ’30. In Betroffenheit di Crystal Pite avviene proprio questo, si passa dalla salsa, al tip tap, dalla cupezza di una stanza trappola, all’allegria forzata di una festa da carnevale di Rio. Tutto trapassa da una gradazione all’altra, da un caldo deserto a temperature polari.

A questa prima parte, tra teatro, danza e montaggio sonoro, ne segue una seconda più intima, quasi esclusivamente dedicata alla danza. La stanza è sparita, solo per un momento evocata da un fondale incombente. Uno spazio aperto, tagliato da luci chirurgiche e fredde, circondato da un nero impenetrabile. Al centro solo un pilastro, quasi nero monolite, materica presenza di qualcosa conficcato a fondo, difficilmente estirpabile.

Il materiale danzato si fa via via più intimo, personale, vissuto. Finalmente si riesce a superare la tecnica incredibile, il miscuglio di generi, il montaggio serrato verso l’emersione di materiali più semplicemente umani. Affiorano all’ultimo, nel duo e solo finali, le fragilità commoventi, l’instabile riconquista di sé, il superamento parziale dello sbigottimento.

Betroffenheit di Crystal Pite e Jonathon Young è uno spettacolo complesso, di grande abilità tecnica che mischia generi e stili in un percorso che gradualmente toglie gli orpelli per arrivare all’essenza. È, per contro, uno spettacolo freddo, che non riesce, se non alla fine, a toccare delle corde profonde.

Betroffenheit, per quanto molto ben accolto dal pubblico che lo ha lungamente applaudito, possiede un grande difetto: benché sia stato costruito abilmente, con ottimi interpreti e una potente drammaturgia, non riesce mai a diventare incandescente. É come un gigante gassoso che non è riuscito a diventare stella luminosa.

Il materiale umano, che pur era presente nella storia personale di Jonathon Young, non riesce, se non nell’ultima sezione della seconda parte, a divenire toccante, a superare la meraviglia per l’abilità degli interpreti o la sorpresa per la trovata stupefacente.

Betroffenheit è pieno di idee, di immagini ben costruite, con una regia e un montaggio veramente impeccabili, ma quasi mai riesce ad aprirsi una strada verso il cuore di chi lo osserva. È come se fosse anch’esso imprigionato in quella stanza, in quel mondo separato e bellissimo, ma pur sempre trappola che trattiene un volo.

Ph: @wendydphotography