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Festen. Il gioco della verità

FESTEN: VERITÀ E COMUNITÀ, RICERCA E POLITICA

Da quando i teatri hanno riaperto ho voluto cercare l’occasione giusta per ritornare in sala. Volevo uno spettacolo che mi risvegliasse il desiderio del teatro e riportasse a galla gli alti valori di quest’arte millenaria sopiti nel lungo intermezzo d’assenza e che nessuno streaming o zoom poteva in alcun modo impersonare se non nella mancanza e nell’inadeguatezza.

Festen. Il gioco della verità messo in scena da Il Mulino di Amleto al Teatro Astra di Torino, prima versione teatrale italiana del capolavoro cinematografico di Thomas Vinterberg, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1998, mi sembrava l’occasione giusta per molti motivi ben rappresentati dalle parole chiave comprese nel titolo in testa a queste riflessioni.

La verità in primis. Veritas per i latini rimandava a una conformità di un’asserzione rispetto al reale oggettivo. Il termine aveva, etimologicamente parlando, anche una certa parentela con la fede, consanguineità rimasta nella vera nuziale (pensiamo anche alla religione cattolica dove si dice: Dio è verità). Per i greci d’altra parte, si parlava di Aletheia, ossia del non dimenticato, di un venire a galla attraverso uno svelamento, un apparire da un nascondiglio. Aletheia è velata ma sotto gli occhi di tutti, solo un’azione energica, coraggiosa, persino crudele, è capace di togliere il velo e farla apparire. Aletheia è appannaggio di Dike, dea della giustizia, perché ciò che rivela ci conduce lontano dalle false opinioni e dall’ignoranza. È dunque un’azione legata alla conoscenza, perciò è fluida, non granitica, mutevole secondo le circostanze e il contesto. Il teatro può essere una forma di conoscenza, laddove si allontana dallo spettacolino, per divenire dunque una sorta di prassi filosofica volta a far emergere ciò che di irrisolto resta nel nostro vivere, qui e ora.

Per dire la verità, intesa come Aletheia, bisogna percorrere strade tortuose. Per fare emergere ciò che è nascosto bisogna nascondersi a propria volta, usando la maschera, farsi parlare dalle voci, farsi attraversare dalle cose. Questo è il gioco della verità messo in atto da Il Mulino di Amleto: la festa a cui assistiamo, la vicenda di cui ci troviamo a essere complici (e vedremo in che modo), è la macchina di svelamento, il mezzo attraverso cui emerge il nascosto. Ulteriore strumento di emersione è il gioco tra ciò che avviene dal vivo e l’immagine filmica, in unico piano sequenza girato dagli stessi attori, proiettato sul telo trasparente che forma la quarta parete. Si può scegliere cosa guardare: la rappresentazione o la finzione, entrambe realtà parziali, frammenti di uno specchio da dover ricostruire ognuno a suo modo, e così scoprire il gioco di incastri, scambi e trucchi messi in atto davanti a noi per darci l’impressione della festa. Qui non siamo di fronte a un’ennesima applicazione della tanto sbandierata multidisciplinarietà, ma di un vero e proprio montaggio delle attrazioni in cui ogni linguaggio possiede una sua linea di significanza che si contrappunta con le altre a formarne uno più complesso da cui emergono i temi principali.

Da questo intreccio di forme diventa palese che il pretesto della vicenda, ciò che avviene tra i personaggi, non riguarda tanto e non solo l’istituzione famiglia, quanto piuttosto la lotta generazionale, l’oppressione dei padri sui figli, il liberarsi dei debiti ereditati, dalle catene imposte che negano una libera costruzione di un futuro diverso. La maschera e il montaggio delle attrazioni insieme rivelano un problema politico, soprattutto in questo paese, dove tutti abbiamo ricevuto in dote un fardello di cliché, debiti (pubblici e privati), automatismi e cattive abitudini da cui è molto difficile, non solo liberarsi, ma addirittura guardarle senza impallidire e distogliere lo sguardo.

In questo gioco di maschere e di scomodi svelamenti, una parte è affidata al pubblico. Ci scivoliamo dentro quasi senza accorgersene. Sembra un gioco per innescare la narrazione, una delle tante e vuote forme di coinvolgimento del pubblico, qualcosa per farlo partecipare all’opera. Ci viene fatto scegliere quale copione interpretare, se quello verde o quello giallo. E la festa comincia. Solo alla fine capiamo perché quando nel finale ci viene riproposto il meccanismo: scegliere la lettera gialla o quella verde. Da quella lettera si scopre il verminaio e noi pubblico, altro non eravamo che gli ospiti della festa, quegli invitati che di fronte agli scandali snocciolati davanti ai nostri occhi abbiamo taciuto, osservando interessati e incuriositi, ma senza intervenire. Come in Five easy pieces di Milo Rau dove nel terzo frammento ci troviamo tutti a essere Dutroux, anche in Festen tutti partecipiamo, con il nostro semplice osservare taciti, al tentativo di insabbiamento della verità. L’atto di svelamento avviene sul palcoscenico ma senza la nostra attiva partecipazione. Noi siamo i complici. Abbiamo visto ma taciuto continuando a partecipare da ospiti alla festa di compleanno. Questa è l’azione politica messa in atto da Il Mulino di Amleto: svelare la complicità di noi tutti nell’ignorare ciò che avviene sotto i nostri occhi, e di ciò farci prendere coscienza.

Art needs time

Il processo di svelamento mediante il dispositivo di rappresentazione è frutto di un lungo processo di ricerca che ha impegnato Il Mulino di Amleto per almeno due anni, processo di cui chi scrive è stato in parte testimone partecipando alle sessioni di lavoro del progetto Art needs time messo in atto dalla compagnia torinese durante il 2019 e bruscamente interrotto dallo scoppio della pandemia nel febbraio del 2020, quando proprio durante una sessione di lavoro fu annunciata la prima chiusura dei teatri. Durante quei periodi di intenso lavorio svincolato dalla necessità produttiva (un vero miracolo di questi tempi, soprattutto perché autofinanziato dalla compagnia stessa con estrema generosità) i materiali sono stati attraversati in molti modi: dal Manifesto Dogma 95, alla favole (Hansel e Gretel attraversa e si intreccia con Festen), e poi il Manifesto di Gent, Gli spettri e Un nemico del popolo di Ibsen. Un lungo lavoro con gli attori, i drammaturghi, la regia. Un processo reso possibile dalla grande coesione di un gruppo che sta crescendo insieme da anni condividendo l’evoluzione creativa sia del linguaggio registico, che delle scrittura e del lavoro dell’attore su se stesso, sulle tecniche e sui materiali.

Con troppa fretta in questi anni si è archiviata la modalità di creazione condivisa delle comunità teatrali, relegando il fenomeno a un momento storico concluso da cui non potevano maturare altri frutti. Eppure oggi si sente la mancanza di tale crescita comune, di coesione, discussione, lotta con la materia e con se stessi affrontata insieme in tutte le sue pericolose e tremende vicissitudini. Questa è la vera forza de Il Mulino di Amleto: l’essere un gruppo eterogeneo, unito, aperto alla sperimentazione e al confronto, con uno sguardo ampio e fiducioso verso il migliore teatro italiano ma soprattutto europeo. Questa forma comunitaria di agire, questa bottega artigiana abitata da molti, permette l’emergere della comunità proprio nel suo essere inclusiva anche del pubblico senza scomodare azioni forzate di coinvolgimento (avveniva anche nello splendido Platonov). È la forza dell’opera che ci permette, come pubblico, di essere parte in causa, di essere interpellati a viva forza e di essere quasi costretti, seppur gentilmente, a dire la nostra, a esprimerci. Ecco un’applicazione viva, non copiata, ma ispirata da quella che Milo Rau chiama Interpellation: il chiamare in causa il pubblico, scuotendolo, impegnandolo a dar conto delle proprie scelte e opinioni.

Ecco quindi le quattro parole che formano il titolo: verità, comunità, ricerca e politica intrecciate nella pratica di un gruppo che si impone sul panorama nazionale per il rigore con cui riafferma le funzioni più alte dell’azione teatrale: prassi filosofica, forma di conoscenza, luogo di confronto, farmaco delle ferite che ci attraversano come società.

Fin qui ho parlato de Il Mulino di Amleto come unita compatta, ma questo corpo unico e fortemente unito ha diverse anime che è giusto ricordare: a partire da Marco Lorenzi, uno dei registi di maggior spessore in questi anni, affiancato da Lorenzo De Iacovo alla scrittura e dalla dramaturg Anne Hirth, e quindi gli attori Roberta Calia, Yuri D’agostino, Elio D’Alessandro, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca, a cui, in questo ultimo lavoro si affiancano Roberta Lanave, Danilo Nigrelli e Irene Valdi.

Giunti alla fine qualcuno potrebbe obiettare che in questa recensione vi sono molte riflessioni ma pochi riferimenti alla storia. Avete ragione. La storia non è importante. È il pretesto per mettere in piedi un atto di conoscenza. Se si è interessati alle storie bisogna rivolgersi verso altri lidi, cercare l’intrattenimento, laddove tutto si basa sul plot. Il teatro, quando è grande teatro, è pensiero in atto, un ragionamento fatto d’azione, parole, movimento. È presa di conoscenza del mondo in cui si vive, ognuno dal suo punto di vista, sempre diverso nel tempo e nello spazio.

FESTEN. IL GIOCO DELLA VERITÀ

DI THOMAS VINTERBERG, MOGENS RUKOV & BO HR. HANSEN


ADATTAMENTO PER IL TEATRO DI DAVID ELDRIDGE


PRIMA PRODUZIONE MARLA RUBIN PRODUCTIONS LTD, A LONDRA


PER GENTILE CONCESSIONE DI NORDISKA APS, COPENHAGEN

VERSIONE ITALIANA E ADATTAMENTO DI LORENZO DE IACOVO E MARCO LORENZI

CON DANILO NIGRELLI, IRENE IVALDI E (IN ORDINE ALFABETICO) ROBERTA CALIA,
YURI D’AGOSTINO, ELIO D’ALESSANDRO, ROBERTA LANAVE, BARBARA MAZZI,
RAFFAELE MUSELLA, ANGELO TRONCA

REGIA MARCO LORENZI
ASSISTENTE ALLA REGIA NOEMI GRASSO
DRAMATURG ANNE HIRTH
VISUAL CONCEPT E VIDEO ELEONORA DIANA
COSTUMI ALESSIO ROSATI
SOUND DESIGNER GIORGIO TEDESCO
LUCI LINK-BOY (ELEONORA DIANA & GIORGIO TEDESCO)
CONSULENTE MUSICALE E VOCAL COACH BRUNO DE FRANCESCHI
PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA, ELSINOR CENTRO DI PRODUZIONE TEATRALE, TEATRO STABILE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, SOLARES FONDAZIONE DELLE ARTI
IN COLLABORAZIONE CON IL MULINO DI AMLETO

DEBUTTO 31 MAGGIO 2021 – TEATRO ASTRA, TORINO
PRIMA ASSOLUTA ITALIANA

DURATA 110 MIN

Il Mulino di Amleto

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A IL MULINO DI AMLETO

Per la diciottesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Barbara Mazzi e Marco Lorenzi, fondatori della compagnia torinese Il Mulino di Amleto e rispettivamente attrice e regista. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori sia della danza che del teatro su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Il Mulino di Amleto nasce nel 2009 e ha già al suo attivo numerosi spettacoli. Tra questi ricordiamo: Platonov, Senza Famiglia, Ruy Blas, Il misantropo, Susannah. Inoltre nel corso della stagione 2019/2020 la compagnia ha avviato Cantiere Ibsen #artneedstime un laboratorio aperto alla ricerca sul linguaggio teatrale senza fini di produzione. Nel 2019 Il Mulino di Amleto è stato finalista al Premio Rete Critica.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Marco Lorenzi: Penso che sia importante non dimenticare che la creazione scenica ha a che vedere con la comunicazione e non con l’espressione personale. La pura espressione di un stato d’animo, di una impressione, di un’immagine, di un fatto di cronaca, di una storia, di una statistica, di un desiderio puro e semplice di occupare lo spazio scenico non sono comunicazione, sono bisogno di espressione, cioè non presuppongono la trasmissione e la condivisione con l’Altro attraverso il filtro di una visione poetica, estetica ed etica del mondo. L’Altro in quanto spettatore è previsto solo come soddisfacimento di un mio bisogno narcisistico di approvazione. E questo – per me – non è sufficiente. Quando uso il termine “comunicazione”, invece, penso che una creazione artistica debba porsi il “problema dell’Altro” in quanto elemento inscindibile dell’opera poetica che si svolge nello spazio scenico, non come un puro voyeur, o un “consumatore”, ma come un impulso inscindibile alle domande che muovono la creazione artistica, come occhio umano che svela le nostre finzioni, che ci ricorda che è solo Teatro, che condivide con noi artisti il desiderio di chiedersi “chi sono?” . Senza comunicazione non esiste teatro come fatto artistico, secondo me. Esiste in quanto attività amatoriale; il che non è sbagliato, ma è semplicemente un’ altra cosa. A quanto detto sulla “comunicazione” va aggiunto uno scarto fondamentale: a noi Artisti va chiesta la responsabilità di un punto di vista sul mondo, ovvero di una messa in crisi di un ordine di valore assodato. Ci viene chiesto di mettere in dubbio continuamente se “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Non possiamo essere consolatori o “buoni” in accezione culinaria – come direbbe Brecht – , ma dobbiamo usare il teatro per essere nel nostro tempo in relazione con quanto ci ha preceduto nel passato e in allerta con quanto potrà accadere nel futuro. Per questo parlo di “un punto di vista su mondo”. Senza di questo, la creazione scenica è pura espressione pittorica, decorativa. Non arriverei neanche a parlare di estetica, perché secondo me non esiste estetica senza etica. La forma che precede o sostituisce un contenuto, la forma fine a se stessa o che non arriva alla comunicazione per me è solo vuoto. Per finire, è necessaria la ricerca costante e instancabile di una poetica personale e sincera. Di una ricerca di connessione con il proprio mondo simbolico e metaforico più profondo. Non basta la riconsegna di un evento, di un testo, di un processo di ricerca. È necessario rielaborare il tutto con un sistema di segni, di simboli onesti e sinceri che determinano il mio essere artista. Ovviamente non è necessariamente un lavoro individualistico: nel caso del mio percorso con la mia compagnia Il Mulino di Amleto, è sempre la ricerca delicata e profonda di un immaginario collettivo. Mi piace lavorare in gruppo e con il gruppo, personalmente mi sento più povero quando creo da solo, solitamente arrivo pieno di idee e progetti che abbandono il primo giorno di prove, scopro con le persone che ho davanti cosa creare di nuovo e per cui vogliamo “lottare” entrambi. Il percorso di prove è per questo unico e diverso con ogni singolo artista, questo lo è in generale, ma nel nostro caso specifico, in particolare, vi posso solo invitare, con piacere a vedere le prove. Ecco, per provare a fare una sintesi delle peculiarità che hai richiesto nella tua domanda, direi che 1) la creazione scenica è “comunicazione” e non è “espressione”, 2) la creazione scenica deve esprimere un punto di vista sul mondo, 3) la creazione scenica richiede la ricerca di una poetica, 4) è inscindibile dal concetto di rischio.

Barbara Mazzi: La peculiarità della creazione scenica… forse non c’è una sola peculiarità, ma diverse. Cosa è una “creazione scenica”? Ormai questa definizione è ampia. Intanto devo capire cosa intendo per “creazione scenica”. Se ripeto più volte questa espressione “creazione scenica”, la mia mente ha dei riferimenti che ovviamente sono parziali perché filtrati dal mio gusto, dal mio pensiero e dalla mia esperienza. Associo a “creazione” la parola artistico, quindi probabilmente deve avere qualcosa di artistico in sé e per essere artistico forse deve essere espressione di un pensiero, di un’idea, di un talento da comunicare fuori di sé, quindi ad un pubblico, quindi avere uno spazio pubblico nel quale essere presentato, quindi una scena sulla quale muoversi e il termine scenico mi rimanda al teatro o a spazi performativi, che ormai possono essere ovunque. Poco per volta “delimito” il raggio di azione del termine “creazione scenica”, ecco che mi rimangono le seguenti associazioni come ipotetiche peculiarità: artistica, comunicativa, in movimento dal dentro di sé al fuori, realizzata in luoghi predisposti per accogliere un pubblico, ancora in qualche modo associata al teatro, alla performance, alla danza, quindi allo spettacolo dal vivo. Ad es. un quadro o un film non sono una creazione scenica, possono essere una creazione o una creazione artistica, ma non scenica. Cosa necessita per essere efficace? per me… sono molto naif io, mi deve interessare, affascinare, essere esteticamente curata, non spiegarmi le cose, non “rappresentare”, farmi vedere qualcosa che non so o qualcosa di nuovo, ma non in modo pretestuoso o forzoso o dimostrativo, attivarmi, possibilmente non irritarmi, comunicare con me, “non essere perfetta”, non essere “comme il faut”, perché a me personalmente annoia, non essere quello che mi aspetto, sorprendermi, non essere solo un’idea “che risolve tutto”, avere più livelli, affrontare argomenti e temi che mi riguardano e molte molte altre cose. Riflettendo ancora, per fare tutto ciò, come artista, devo pensare a chi voglio parlare, con chi voglio comunicare, chi è il mio pubblico, come faccio a “smuovere” il mio pubblico (a volte basta uno sguardo in più o uno in meno, non c’è per forza sempre bisogno di qualcosa di gigantesco), infine aggiungo l’onestà. Le volte che ho amato di più le creazioni sceniche è stato quando aderivano al proprio artista, in connessione profonda con il proprio sé, senza lasciarsi incrinare dall’inseguire il gusto del pubblico, o degli operatori o della critica, o del successo, ecco lì ho trovato l’efficacia per me, qualcosa che andava oltre, magari non era il mio gusto, ma riconosco in quei casi una forza, una necessità di comunicazione artistica.

Il Mulino di Amleto – Platonov

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Marco Lorenzi – Barbara Mazzi: E’ una situazione davvero complessa, a nostro avviso. Servono più soldi, serve gestirli meglio, serve più onestà, più coraggio, più dinamismo. Serve distanziarsi da alcuni atteggiamenti lobbistici, essere onesti intellettualmente, credere negli artisti. C’è troppa domanda rispetto all’offerta e questo richiede un’ assunzione di responsabilità importante da parte delle istituzioni, soprattutto politiche che sono chiamate a prendersi cura della “società teatrale”.

Semplicemente quello che c’è non è sufficiente, sarebbe una bella insufficienza a scuola e poi una bocciatura, ma non ci abbattiamo, rimbocchiamoci le maniche. Ci sono degli esempi virtuosi e quelli per noi sono forza.

Siamo una compagnia, come altre, come altri artisti, che cerca di essere attenta allo stato dell’Arte e del sistema nella sua totalità, ma questo crediamo sia necessario, in generale quando sei un artista, in particolare quando hai un gruppo, hai delle responsabilità, di conseguenza sei impegnato su più fronti. Creiamo i nostri spettacoli, cerchiamo sempre produttori e collaboratori che si fidino di noi e che ci stimino, creiamo progetti extra teatrali, collaboriamo con scuole, con altre compagnie, siamo attivi, siamo impegnati ecco e questo impegno costante ti porta a vedere anche le mancanze, ad avere una visione ampia della situazione. Ci sono situazioni anche positive, assolutamente sì, quelle, come detto, danno forza per continuare ad interrogarsi, ad agire e migliorare.

Ad esempio questo anno ci siamo interrogati su cosa ci mancasse, certo che la risposta è “sempre i soldi”, ma non sempre è quello il punto. Perché in questo caso ci siamo accorti che in un sistema sempre più sclerotizzato su una corsa ai numeri, alla produzione – una produzione ossessiva che sembra essere l’unico valore di un panorama teatrale che sta diventando un “mercato” – quello di cui veramente avevamo bisogno era il Tempo per la ricerca, per approfondire, per scoprire punti di vista nuovi, slegandoci da ogni incombenza produttiva e performativa. Guardandoci intorno e parlando con altri artisti e colleghi, ci siamo accorti di non essere soli, ecco che la nostra risposta, spontanea e auto-sostenuta, è stata #ArtNeedsTime #Cantiere Ibsen, crediamo che un bel po’ di buono ne sia uscito.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Marco Lorenzi – Barbara Mazzi: L’Italia è un sistema che ha ancora molto viva la tradizione delle compagnie di giro, è ricca di compagnie indipendenti che vivono di produzione, progetti e tournée e questo non si può ignorare. Il sistema delle compagnie che producono e girano sono la spina dorsale di una società teatrale come quella italiana. E in questo è quasi un “unicum“ rispetto a quello che accade all’estero. L’attività e il dinamismo della creatività delle piccole e medie compagnie in Italia è importante, eppure si sta cercando di tagliarle sempre più fuori. La fotografia che è stata prodotta dal decreto ministeriale per il Fus è evidentemente una fotografia falsata del reale. Punta a marginalizzare l’attività d distribuzione nazionale di compagnie che fanno di questa attività il loro “core business”. In questi ultimi anni ci sembra ci siano stati dei tentativi di europeizzazione, senza però investire coraggiosamente le risorse necessarie creando degli ibridi dannosissimi. Le compagnie indipendenti in Italia sono importanti, molto più che all’estero, perché all’estero gli ensembles sono dei teatri stabili, invece in Italia gli ensembles, tranne in rarissime eccezioni, sono delle compagnie indipendenti e questo valore aggiunto non è considerato. Invece bisogna considerare la  nostra storia e la nostra natura o indole. Per quanto riguarda l’europeizzazione, invece, il ritardo rispetto al resto del continente è abissale. Viviamo di un provincialismo preoccupante. Non giochiamo ad armi pari con i nostri colleghi e poi rimaniamo stupiti dalle produzioni estere che arrivano, anche noi esportiamo eccellenze, ma poche troppo poche rispetto ai nostri talenti, ci sono fidatevi! Le poche esperienze, Festival in particolare, che cercano di costruire un dialogo sensato tra artisti italiani e realtà europee, lo fanno con pochissimi soldi e senza veri e propri programmi istituzionali alle spalle. Continuare a lamentarci che all’estero gli artisti fanno cose meravigliose e in Italia no, è ovviamente demenziale. È una questione di circostanze. Ci sono delle responsabilità di una politica e di istituzioni che hanno un ruolo ben preciso per questo vuoto che si è venuto a creare.

Il Mulino di Amleto – Ruy Blas

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sonooggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Barbara Mazzi: Crediamo nell’analogico, nel concreto, nell’esperienza condivisa, nell’umanità delle persone e pensiamo che ce ne sia sempre più voglia e necessità. Crediamo che la creazione scenica possa creare condivisone ed essere necessaria per togliere paura. Se mi accorgo di non essere solo, ma altri in “platea” con me stanno piangendo, soffrendo, scalpitando, arrabbiando, condividono con me un ‘esperienza allora forse ho meno paura, allora forse sono più accogliente allora, forse, parlo, mi apro…Noi ci ripetiamo spesso he il Teatro, per noi, è “esseri umani che si interrogano con altri esseri umani di che cosa vuol dire essere umani”.

Marco Lorenzi: Aggiungo ancora che l’esperienza performativa, la creazione artistica per il palcoscenico- sia essa prosa, danza, ecc… è una delle poche esperienze non riproducibili con un’ applicazione. Puoi scrivere un romanzo, girare un film, scattare fotografie, creare arte visiva con una o più applicazioni, ma non puoi realizzare il buon “vecchio” “fare teatro”. È un evento comunitario – e non di “community” – è offline per principio, presuppone il “live” per sua stessa natura, la partecipazione concreta e non virtuale. E questo ci fa pensare che il teatro ha ancora un futuro e se serve l’online per andare offline questa è l’epoca con cui giocare. E’ necessario il teatro per continue a ricordarci cosa vuol dire essere uomini. Hai ragione nel dire che il teatro vive in un istante che è difficilmente condivisibile sui nuovi media. Bene! Questa è una buona notizia. Vuol dire che abbiamo una speranza contro l’omologazione spaventosa a cui stiamo andando incontro e questo è proprio il ruolo del teatro.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Marco Lorenzi – Barbara Mazzi: Possiamo dire che è andato a cadere il vincolo di attenersi ad una concezione naturalistica del teatro come “specchio della natura”. Questo in realtà ci permette di poter giocare con la rottura o per meglio dire l’ibridazione dei codici con molta più libertà e curiosità. Come se il linguaggio contemporaneo che è meticcio, pieno di codici che si scambiano, di crossing, avesse fatto la sua irruzione nel teatro cambiando le regole del gioco. Questo non vuol dire che il naturalismo non può più essere usato a teatro, ma che lo possiamo accompagnare – ad esempio – da una fertile interpolazione con altri linguaggi non costituendo un ordine gerarchico tra codici, ma concorrendo tutti a costruire il racconto dello spettacolo con la stessa importanza. Quello che davvero conta è che non importa il codice o la tecnologia che decido di usare in una creazione teatrale, ma quello che è importante è che non possiamo non parlare di noi, di cosa succede oggi, di quello che siamo, dove stiamo andando, della nostra realtà. Per noi questa è la priorità, la forma è solo una conseguenza, modificata e continuamente modificabile a seconda di ciò di cui stiamo parlando e di come decidiamo di comunicarlo nel contesto storico- sociale che ci circonda. Il contenuto per noi è prioritario e il contenuto “siamo noi”, qui, oggi. E gli attori, le persone, tutte, anche gli uffici, che lavorano alla creazione sono anelli imprescindibili in questa catena. Se non c’è amore da parte di tutti questi “anelli”, compresi gli uffici, non ci può essere amore in sala prove, perché l’artista non si sente amato e creduto. Allora non ci può essere amore in scena, non ci può essere amore tra attore e spettatore, non c’è una comunione e una condivisione che fa scattare l’eros, l’energia, la forza vitale che fa uscire dal “teatro” cambiati e pronti a cambiare qualcosa di sé e intorno a sé. Per me, per noi il “teatro”, la “creazione scenica” , ecco ora torniamo alla prima domanda, è azione, è politica, è pericolosa, è pensante, è pensata, è in comunione, è in condivisione, è forte e ha bisogno di amore, di coraggio, di fiducia.