Lo Zoo di Vetro che il giovane e talentuoso Leonardo Lidi porta in scena al LAC di Lugano pone sin dalla prima battuta alcune interessanti e scottanti questioni sul teatro contemporaneo. Prima fra tutte il rapporto tra la scena e la verità. Ecco le parole iniziali di Tom Wingfield: “Mi chiamo Tommaso e sono un pagliaccio. Sono qui per raccontarvi la mia verità. Per farlo ho bisogno di finzione, io vi darò verità sotto il piacevole travestimento dell’illusione. C’è molto trucco e c’è molto inganno. Il dramma è memoria, è sentimentale non realistico”. Sembra dunque che in questo momento storico, che potremmo chiamare, seguendo l’orma di Noah Harari, della post-verità, il teatro riassuma in sé la primigenia funzione di velo disvelante. Fingendo si dice la verità o, meglio, si pone una verità possibile sul terreno di discussione comune con lo spettatore.
Leonardo Lidi, nuovamente alle prese con un universo familiare dopo Gli spettri di Ibsen alla Biennale di Venezia 2018, decide di affrontare la verità portata dal testo di Tennessee Williams attraverso un meccanismo rappresentativo antirealistico. La casa rosa e stilizzata come in un disegno di bambino circondata da un mare di palline di polistirolo azzurro sono due mondi diversi: la famiglia nel tempo del racconto, e l’età del ricordo, in un altrove futuro, lontano ma ancora imbrigliato in quella dimora. Entrambi sono artificiali ma non simbolici. Sono rappresentazione di un costrutto mentale dei personaggi e di Tom Wingfield, narratore ed evocatore. La regia dunque si discosta dalla maniera consueta ligia a un realismo borghese, per sfruttare la forza di un immaginario capace di smuovere sentimenti e sensazioni.
Ultimo elemento: la maschera clownesca, quello schermo, strumento rituale e antico, capace di far parlare le voci e le forze che stanno oltre l’interprete. Tutto è dunque finzione e artificio, ciò dunque che è più lontano possibile da una supposta realtà. Essa però è oggi sfuggente, relativa, essa stessa virtuale. Eccoci dunque alla domanda fondamentale: non resta che abbandonarsi a una spudorata finzione per giungere a una verità? In poco più di cento anni il “Non ci credo” di Stanislavkij è diventato non solo inutile ma anacronistico? La proliferazione di mondi possibili, più o meno virtuali, che la vita contemporanea ci costringe ad attraversare, ci ha condotto, volenti o nolenti, alle origini del teatro, dispositivo di menzogna portatore di riflessione sulla realtà del mondo. Di certo tutto questo ci ha anche costretto a porsi la questione fondamentale delle funzioni della scena che per troppi anni è stata data per scontata.
Una dichiarazione di intenti ambiziosissima da parte di Leonardo Lidi, regista di soli trentuno anni, ma condotta e sviluppata con abilità. Forse dobbiamo finalmente abbandonare l’idea che la giovinezza di un autore sia anche sintomo di immaturità compositiva. Thomas Mann pubblicò i Buddenbrook a ventisei anni, John Cage sperimentò il pianoforte preparato a ventotto, Filippo Tommaso Marinetti lanciò il futurismo a trentatré. Ossessionati dalla questione Under 35 ci stiamo dimenticando che a trent’anni si è adulti, solidi e maturi, pronti ad affrontare prove difficili e Leonardo Lidi ha già dimostrato ampiamente di essere in grado di aggredire anche i classici più ostici e dirigere attori di grande personalità e abilità.
La scelta antirealistica di Leonardo Lidi si sviluppa anche è soprattutto nel corpo degli attori, nella loro fisicità astratta, quasi di automi meccanici, costretti a protocolli operativi di cui si sia perso il senso. Si mimano gli oggetti mancanti: la tavola, il candelabro, la tovaglia stesa, i piatti lavati e, soprattutto, gli animaletti di vetro di Laura Wingfield, la cui assenza rende ancora più evidente il loro ruolo di rifugio nell’illusione. I costumi e le abnormi scarpe tipiche dei clown costringono a movimenti innaturali e goffi. L’unico personaggio che partecipa in qualche modo al nostro mondo è Jim O’Connor, ponte verso una normalità aggressiva, volta a impoverire l’unicità degli altri personaggi, e per questo più libero e sciolto nel corpo aderente a una quotidianità assente dalla scena.
Indovinato l’inserimento de “la casa stregata” di Topolino proiettato sulla parete schermo della casa rosa dei Wingfield. Non solo simbolo dell’ossessione per il cinema di Tom e suo personale luogo di evasione dal reale ma anche icona della fuga impossibile dai fantasmi del passato con cui termina Lo Zoo di vetro e di cui non ci si libera mai. Si è sempre in qualche modo presi dalla loro ragnatela polverosa e questa verità ancora una volta viene proferita da uno strumento di finzione, il cartone animato, inserito come scatola cinese nella rappresentazione.
Una prova matura e colma di interessanti spunti quella di Leonardo Lidi, abile soprattutto nel saper mescolare ritmi e sentimenti e nel modulare i toni del dramma oscillando tra gli estremi senza mai abusare.
Unica leggera perplessità la scelta della maschera clownesca. Essa è evocatrice di mondi oscuri, demonici, di forze irruenti collegate a un universo infero, più legata al grottesco, – pensiamo alla forza prepotente del recente Joker di Todd Phillips, splendidamente interpretato da Joachin Phoenix – piuttosto che non al delicato e fragile mondo da casa di bambola disegnato dalla regia. I clown che abitano questo Zoo di vetro sono invece più legati al cliché della tristezza e malinconia del pagliaccio dunque più costume che maschera, più immagine e ambiente che segno. Ma questo è forse un cercare il pelo nell’uovo in uno spettacolo che riesce a toccare il cuore e la mente dello spettatore.
Visto al LAC di Lugano il 4 novembre 2019