Archivi tag: christian La Rosa

Leonardo Lidi

Il misantropo secondo Leonardo Lidi

Deitaro Suzuki, maestro Zen, per mostrare ai suoi allievi l’azione nefasta dell’ego, disegnava un cerchio in cui figurava solo una piccola apertura, una strettoia o, meglio, un’angusta porticina, unico varco entro cui il mondo esterno poteva accedere all’interno del cerchio della mente.

La scena che Leonardo Lidi allestisce per questa riscrittura de Il Misantropo di Moliere, a quattrocento anni dalla nascita del grande uomo di teatro, ricorda il disegno di Suzuki: un semicerchio di ferro altissimo in cui al centro si apre un pertugio. L’ambiente all’interno: nient’altro che un arido deserto.

I personaggi per entrare in scena devono chinarsi, piegare la schiena come sotto delle forche caudine, e giunti sulla desolata landa, giocare il proprio ruolo e poi uscire, nuovamente prostrati dall’angustia della fessura.

La scena per farsi specchio del mondo deve forse riflettere i meandri desolati di una sola mente (quella ferita è angustiata di Alceste), metafora di tutte le altre? Siamo così desolatamente soli da non più misurare il nostro agire nella relazione con gli altri ma solo nel dialogo con i nostri stessi fantasmi? Leonardo Lidi sembra porci proprio questa precisa domanda.

La vicenda di Alceste, quest’uomo di nobile lignaggio, deluso dal mondo e dalle sue continue ipocrisie, uomo desideroso di verità fino al dolore, è intriso di rabbia, cede alla nefasta tentazione di vedere tutto in rovina, senza soluzione, avvinto e imbrigliato dalle false convenzioni della società. Eppure Alceste compie fin dall’inizio quel peccato mortale che gli preclude ogni salvazione: non ascolta, si rinchiude nel boschetto fortificato della sua fantasia e non può che proferire a ogni piè sospinto: “io…, io…, io…”. Non c’è spazio per le parole degli altri, per le loro qualità, ma solo per i difetti, unici elementi a risvegliare la sua attenzione, limitata e colma di pregiudizi, riuscendo ad entrare in quella strettoia che conduce all’interno della sua mente.

Christian La Rosae Giuliana Vigogna ne Il misantropo di Moliere per la regia di Leonardo Lidi Ph:@ Luigi De Palma

La riscrittura di Leonardo Lidi de Il Misantropo si impernia totalmente in questo viluppo che porta l’io all’io senza passare per l’altro, le sue opinioni, le sue mancanze, i suoi dolori. Non c’è compassione. Neppure amore, benché tutti in qualche modo siano innamorati di qualcuno: Alceste di Celimene, Eliante e Arsinoé di Alceste, Filinte di Eliante, Oronte di Celimene, Celimene della vita nel suo insieme.

Si parla d’amore benché sia assente. Vi è solo gelosia e desiderio di possesso o di rivalsa. Non può essere altrimenti: se l’altro non è un elemento di accesso al mondo, ma solo una lastra fotografica su cui imprimere le nostre aspettative, non vi è spazio per i sentimenti. Non vi è dono ma solo richieste e pretese.

Leonardo Lidi da una commedia ricava un dramma amaro, pregno di solitudine, in cui il riso, se c’è, è quasi un intruso e riconferma la sua volontà di aggiornare i testi della tradizione in una forma più adatta al presente, più vicina al pubblico di oggi.

La vicenda si sviluppa in frammenti, in scene singole, come un florilegio di arie dell’Opera di Pechino. I personaggi convengono in questo deserto pur non incontrandosi mai, proferiscono le loro battute o i loro monologhi, e poi escono o si aggirano senza meta tra le sabbie. Non sono mai uniti, anche nelle scene d’insieme. Soli persino in compagnia. La folla è anonima, priva di volti, senza interesse per i personaggi principali se non per essere oggetto di strali o di vanità.

Bravi gli interpreti nel conformarsi a questo mondo arido, e capaci di toccare i cuori disidratati e disseccati di noi spettatori.

Vi sono però anche alcuni elementi di perplessità. Il personaggio di Lui, per esempio, presente già in La casa di Bernarda Alba di Lorca: se in quell’occasione aveva un pregnanza evocativa, emblema di una presenza maschile fagocitante seppur assente, in questo allestimento sembra superfluo, utile a raccordare scene e situazioni ma non veramente significante nel meccanismo generale della regia.

Anche la pioggia nel finale, benché suggestiva (e per altro già utilizzata ne Gli spettri di Ibsen), non aggiunge e non toglie nulla alla catena di significanti che rendono fecondo l’allestimento. Così come la canzone Guarda che luna di Fred Buscaglione, più nota di colore romantico e pop che effettivo elemento pregnante della vicenda.

Leonardo Lidi ne Il Misantropo riafferma i suoi stilemi registici e interpretativi che lo hanno portato all’attenzione di pubblico e critica. È indubbio che i suoi allestimenti funzionino e sappiano sia far rendere gli attori che donare al pubblico emozioni e domande che necessitano di riflessione. Lo fa tenendo fede alla sua estetica ormai formata e sicura. Forse però, è questo non è che l’umile parere di un critico, è venuta l’ora di andare oltre, superare le proprie sicurezze per non venire imprigionato come Alceste nella sua fortezza mentale. Forse è il momento di osare di più perché sicuramente Leonardo Lidi ha le qualità e abilità tecniche per affrontare le terre incognite.

Durata 1h20′ senza intervallo

In scena al Teatro Stabile di Torino dal 3 al 22 maggio 2022

Visto al Teatro Carignano il 15 maggio 2022

Alba Porto

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA AD ALBA PORTO

Per la trentaquattresima intervista de Lo stato delle cose torniamo a Torino per parlare con Alba Porto, regista e attrice della compagnia Asterlizze Teatro. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

I lavori più recenti di Alba Porto come regista sono Arte di Yasmina Reza con Christian La Rosa, La bella e la bestia, scritto insieme a Giulia Ottaviano per il Teatro Stabile di Torino, e Something About you con Matilde Vigna.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità della creazione scenica è quella di confrontarsi con la problematicità dello stare al mondo rendendo “vivi” pensieri, sensazioni ed emozioni tramite l’accadimento. Quest’ultimo per verificarsi ed essere registrato ha bisogno di un pubblico che ne sia testimone e, più in generale, la creazione scenica – che è spettacolo dal vivo – non è nient’altro che il tentativo di creare ad ogni performance questo accadimento cercando una connessione e scambio con il pubblico.

Il pubblico quindi è l’ elemento fondamentale affinché essa risulti efficace e, poiché nasce da un interrogativo che riguarda l’uomo,  si rivolge a una comunità che diventa destinatario imprescindibile cui riportare la propria ricerca. Credo che la creazione scenica, per essere efficace, debba in primo luogo imparare a parlare a una comunità con sguardo sincero e tagliente se necessario.

Yasmina Reza
Arte di Yasmina Reza regia Alba Porto

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che un modo per migliorare la situazione esistente possa essere rimettere al centro l’importanza dell’artista. E cioè, che le istituzioni diano la giusta importanza agli artisti – che sono capaci di produrre un beneficio, forse non quantitativamente misurabile ma tangibile – pianificando strategie per sostenerli.

 Festival e bandi a  favore degli under 35  rappresentano sicuramente una una buona opportunità, grazie alla quale io e Asterlizze, la compagnia teatrale per cui lavoro, abbiamo ottenuto appoggio e riconoscimento. Mi riferisco al Bando Ora! della Compagnia di San Paolo e ad alcune possibilità di visibilità dedicate a giovani compagnie e offerte da realtà torinesi come (TST, TPE e Festival delle Colline). Tuttavia questi sostegni, che rappresentano un’occasione di visibilità e un sostegno produttivo, non sono sufficienti per garantire la possibilità a una compagnia teatrale di occuparsi realmente di produzione e più in generale di ricerca.

I requisiti per avere i sostegni ministeriali inoltre sono lontani dalle possibilità delle piccole compagnie – ci siamo accorti in questi giorni di emergenza come molte compagnie restino fuori anche dai parametri dell’Extra FUS e che non vi è una reale conoscenza delle peculiarità e differenze del settore -. Bisognerebbe quindi rivedere i parametri secondo le necessità reali e le differenze, attuando una politica di sostegno che si prenda carico anche delle più piccole e giovani realtà – che spesso sono quelle più attente nei confronti dell’attualità che le circonda – . Si potrebbe pensare a luoghi affidati gratuitamente ad artisti, affiancati da figure professionali che si occupino di valorizzarne l’ operato.

Da qui in avanti inoltre bisognerà pensare a una ripartenza che possa contenere i danni causati dalla pandemia dimostrando una maggiore collaborazione e cura. Mi riferisco a un rinnovato dialogo tra teatri nazionali, tric, regioni, comuni, realtà di vario tipo e gli Artisti.

Mi auguro che nuove forme di abbraccio possano nascere in questo periodo di distanziamento, insieme a una ritrovata fiducia e considerazione degli artisti. Nuove dovranno essere le strade da tracciare. Si tratta di offrire a noi tutti una grande libertà: la libertà della scommessa in percorsi non tracciati, nuovi, idealisti e soprattutto umani. La scommessa è un atto di fede, e potrebbe avere risvolti sorprendenti in molti aspetti della vita comunitaria.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Il discorso sulla distribuzione, argomento spinoso e sicuramente fondamentale per molte compagnie tra cui Asterlizze, dovrebbe essere inserito in una politica di azione più ampia e sinceramente sono d’accordo con quanto detto da Carmelo Rifici, nella tua prima intervista e che qui parafraso: più che soluzioni per la distribuzione, ogni artista dovrebbe avere un proprio luogo, una “casa” in cui poter creare i propri lavori. Certo, bisognerebbe supportare gli artisti cercando di garantire una tenitura distributiva più lunga forse e che permetta loro di circuitare venendo in contatto con  più realtà possibili, ma mi chiedo se questo non sia ancora una ennesima schiavitù.  Inoltre data la situazione critica che si prospetta nei prossimi anni per il teatro e non solo, la distribuzione sarà ancora più cosa ristretta a scambi tra teatri e, in ogni caso, difficilissima. Credo quindi che il problema della distribuzione (cui spesso è legata la principale risorsa di sostenibilità per le compagnie) potrebbe essere arginato e forse non sarebbe più troppo centrale, se ogni gruppo artistico avesse una “casa” in cui creare i propri lavori, dedicandosi soprattutto al contesto circostante e al contatto con il proprio pubblico, avvicinando maggiormente la comunità al teatro. Insomma diventando un fulcro di riferimento all’interno del contesto cittadino e riportando al centro anche un legame con il territorio, di cui l’artista può e deve farsi portavoce.

Alba Porto
Something about you regia Alba Porto Ph:@Andrea Macchia

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Oggi più che mai il valore della creazione scenica come evento a cui assistere e partecipare dal vivo è fondamentale. La creazione scenica impone uno scambio reale tra i partecipanti, provoca emozioni e ci impone di “stare” in connessione con l’altro – privandoci per un momento degli schermi dei telefonini -. Ci porta a recarci in un luogo deputato (spesso il teatro, ma non solo) per assistere a un racconto in qualsiasi forma e farne esperienza. L’esperienza, a mio avviso, è l’unico motore capace di generare comunicazione ed empatia. Tramite l’esperienza possiamo tralasciare i ruoli affidatici dalla società (gli artisti, gli spettatori, i critici) ma essere tutti parte di qualcosa: la nostra contingenza, l’essere umani. Lo spettacolo dal vivo è un luogo di scambio e si modifica a seconda della platea, del pubblico, in maniera sostanziale. Quindi credo che la funzione principale sia quella di produrre scambio e vicinanza allo stesso tempo. In un momento storico  come quello che stiamo vivendo ritengo che tale vicinanza debba trascendere dallo spettacolo dal vivo in sé e manifestarsi in azioni a sostegno della categoria. Questo sarebbe davvero un bello spettacolo cui assistere.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo che il rapporto con il reale consista prima di tutto nell’essere immersi nel reale. Il nostro reale è sicuramente complesso e interpretarlo, in un sistema che ci bombarda di informazioni, non è semplice. E tuttavia l’artista è spugna assorbente del suo tempo, interprete che si allontana dalla frammentarietà delle notizie e riporta l’attenzione su ciò che ci unisce in quanto uomini. Non si tratta per l’artista esclusivamente di valutare la verità o la falsità delle fonti, ma di ricercare con trasparente necessità i meccanismi che governano i rapporti di vario genere. L’artista sente il suo tempo e cerca di “vederci chiaro” formulando delle domande, che attingono al reale e lo trascendono allo stesso tempo. Ecco che partendo dal contemporaneo si ritorna a maneggiare testi classici creando parallelismi nei contraddittori eppure speculari meccanismi del contemporaneo. Perché tutto ciò che viviamo è stato già vissuto, e questi giorni di particolare emergenza ce lo confermano.

Stare nel reale dunque avendo curiosità e aprendosi al dialogo con altre discipline e campi di indagine, ponendosi la domanda se ciò a cui stiamo lavorando possa servire a essere stimolo per gli altri. Che cosa raccontare è il primo punto di partenza e perché. Se il perché include anche gli altri, se ha un senso oltre che personale, pubblico, allora ci stiamo rapportando al reale.

Leonardo Lidi

BIENNALE TEATRO 2018: LEONARDO LIDI Spettri

Debutta alla Biennale Teatro 2018 Spettri di Leonardo Lidi, vincitore della Biennale College Registi Under 30. Per descrivere il suo lavoro di riscrittura di Ibsen, il giovane Leonardo Lidi parla del gioco del Lego: “ho smontato il castello del Lego e l’ho ricomposto a mio piacimento”.

Gli Area cantavano: “giocare col mondo facendolo a pezzi”. Due modi per descrivere lo smontaggio e rimontaggio di un testo capitale del teatro borghese di fine Ottocento.

Gli attori in scena interpretano tutti i personaggi. Meglio sarebbe dire: prestano la loro voce, li fanno emergere per mezzo del loro corpo, in una sorta di labirinto di coscienze avviluppate e catturate dal gorgo della vicenda.

Le menzogne del passato tornano come spettri, influenzano il presente, incombono sul futuro. Vi è come un aria appestata, che sa di malattia, contagiosa. Gli eventi si sporcano nelle pozze di fango del ciò che fu un giorno. Una nuvolaglia nera e greve d’acqua pesante come il piombo schiaccia il cielo di cenere sulla testa dei personaggi, ma nemmeno una pioggia martellante riesce a lavare i peccati e le menzogne di un tempo.

È la famiglia il vaso di Pandora che viene scoperchiato. Il velo che nasconde le miserie viene sollevato, il bubbone suppura ma non guarisce. La cancrena si è ormai troppo diffusa.

L’azione si svolge su un quadrato di ferro, una semplice panchina nel mezzo, una buca verso il proscenio a sinistra. Sul fondo incombe una parete di ferro. Il quadrato è circondato da riflettori che illuminano a giorno la scena plumbea, fredda e metallica.

In Spettri Leonardo Lidi ha a disposizione quattro attori di grande livello tecnico espressivo: Michele Di Mauro, il premio Ubu Christian La Rosa, Mariano Pirrello e Matilde Vigna recentemente ammirata al Festival delle Colline Torinesi con Causa di Beatificazione di Sgorbani.

Leonardo Lidi dà buona prova di sé in questi Spettri ricomposti e rimontati. Un confronto con i classici, non solo letterari. Nel programma di sala, Leonardo Lidi chiama questa sua prova un punto di partenza e mi sembra appropriato. Come i pittori del passato per trovare le loro cifra espressiva, il loro stile pittorico, copiavano i capolavori del passato, così Leonardo Lidi si confronta, in maniera libera, frutto di un gioco di scomposizione ricomposizione, con la grande tradizione drammaturgia di fine Ottocento.

Gli auguro che veramente sia un punto di partenza per andare altrove, per esplorare nuove strade per il teatro, alle ricerca di nuove funzioni. Per quanto il teatro borghese sia stato una tappa fondamentale nell’evoluzione scenica, oggi il l’arte teatrale ha bisogno di altro, di qualcosa di più confacente ai suoi tempi e alle sue crisi. In un mondo dove la borghesia è a rischio estinzione, i segreti sono pubblicamente esposti sui social, e la famiglia non è più tradizionale, altre sono le problematiche che si agitano nelle fratture del corpo sociale.

Da questo punto di partenza bisogna andare avanti, verso il mondo, nel cuore di tenebra che palpita sotto il velo apparentemente sereno del civilizzazione, e per farlo, bisogna andare alla ricerca di strumenti affilatissimi che incidano, sezionino, intaglino, estirpino.

Yasmina Reza

Arte di Yasmina Reza: come un quadro bianco può scatenare una piccola guerra

Il 15 e 16 marzo al Teatro Gobetti va in scena nell’ambito della rassegna Il cielo su Torino, Arte di Yasmina Reza con la regia di Alba Maria Porto e interpretata da Mauro Bernardi, Elio D’Alessandro e Christian La Rosa, (premio UBU under 35 nel 2017 per la sua interpretazione nel Pinocchio di Latella).

Il pretesto è un quadro bianco acquistato a una cifra esorbitante. All’inizio sembra una questione di estetica anche un po’ datata (i Quadri Bianchi di Rauschemberg sono del 1951). Ma presto si comprende che il quadro è solo la scintilla che scatena l’incendio. Yasmina Reza, nelle sue drammaturgie, sembra interessata agli inneschi di piccoli inferni quotidiani, dove la patina di civiltà e buone maniere viene improvvisamente a mancare, le maschere cadono, e quel che resta è la miseria dell’uomo pronto a scatenarsi per niente.

Tre amici di fronte a un quadro bianco. Le loro divergenze o compiacenze in fatto di gusto smuovono piano piano, sassolino dopo sassolino, un’immane valanga che travolge il loro rapporto di stretta amicizia.

Come ne Il dio del massacro, che diventò Carnage di Roman Polanski, i rapporti più stretti degenerano in fretta di fronte al primo dissenso. Le parole diventano clave, armi contundenti pronte a ferire l’altro. E nessuno ha ragione, nessuno si salva. Non esistono i buoni e i cattivi.

Yasmina Reza è una grande osservatrice dell’animo umano, osserva con interesse quasi scientifico lo sgretolarsi dei legami sotto i colpi di piccole banalità quotidiane che vengono utilizzate come scuse per scatenare violenze represse. Come nei vortici che si formano nei romanzi di Gadda, in cui a poco a poco gli avvenimenti si ingarbugliano senza soluzione, così nelle drammaturgie di Yasmina Reza, si rimane ingabbiati dall’accumulo di violenza che presto o tardi dovrà scaricarsi.

Anche in Arte il gioco al massacro parte dalle prime battute, dal momento in cui viene mostrato il quadro e l’amico ride dell’amico. Come puoi comprare questa merda? Chi ti ha concesso il diritto di giudicare me e il quadro?

Bravi i tre attori ha costruire un percorso credibile, composto di lento accumulo di frustrazioni e incomprensioni, che sfociano poco a poco in una furiosa lotta che distrugge i legami fino a giungere a un finale falsamente consolatorio. Dietro alla riappacificazione resta l’incombere di una nuova crisi.

La regia della giovane Alba Maria Porto è semplice e lineare ma efficace. Forse si poteva fare qualcosa di più nel costruire una partitura di azioni meno ripetitiva e didascalica, lasciando che anche il corpo esprimesse un percorso di contrappunto alle parole. La partitura corporea resta un po’ troppo imbrigliata in una ripetitività non veramente significante. Il tempo e l’esperienza porterà a questa giovane regista una maggiore complessità di linguaggio.

Buono il ritmo dell’incedere dell’azione. Nessuna pausa superflua, il percorso di accumulo di tensione è inarrestabile e avvincente. Si rimane ammaliato e nello stesso agghiacciati nel riconoscimento che sulla scena ci siamo anche noi. Quel meccanismo di distruzione ci appartiene e presto o tardi si manifesterà nuovamente per quanti sforzi noi si faccia.

In fondo è questo il teatro, uno specchio che rimanda la nostra immagine così com’è. Un infingimento da cui scaturisce la verità su noi stessi. È lo sguardo che guarda il mondo e senza pietà lo disegna.

Premo Ubu

PREMIO UBU 2017: alcune brevi considerazioni

L’anno si sta chiudendo ed è tempo per tutti di bilanci. Il teatro non si esclude da questa tradizione e come di consueto il Premio Ubu permette alcune riflessioni sullo stato delle cose nell’ambito teatrale.

Premetto da subito che le considerazioni che seguono non criticano la qualità dei lavori o dei performer premiati. Per esempio il riconoscimento della qualità delle interpretazioni di Christian La Rosa o di Claudia Marsicano sono ineccepibili, così come i due premi nelle categorie miglior performer e miglior progetto sonoro a Cantico dei Cantici di Roberto Latini (per la lista completa dei premi rinvio al sito del Premio Ubu http://www.ubuperfq.it/fq/index.php/it/premi-ubu/premio-ubu-2017/vincitori-ubu2017 ). Le considerazioni che seguono riguardano più che altro l’immagine produttivo-distributiva del nostro teatro.

Se prendiamo in oggetto gli ultimi cinque o sei anni, ossia dal 2012 al 2017, scopriamo dei dati interessanti. Latella vince premi nel 2012, 2013, 2016 e 2017, Latini nel 2014 e 2017, Civica nel 2015 e 2017 e infine Ronconi nel 2013 e 2015 (i premi riguardano esclusivamente le categorie Miglior regia, Miglior spettacolo e Miglior performer).

La ricorrenza di questi nomi, garanzia per altro di alta qualità, indica cose interessanti soprattutto per quanto riguarda l’aspetto produttivo (in quasi ogni caso sono coproduzioni con a capo fila un teatro stabile) e distributivo (il sistema referendario del premio inevitabilmente premia i lavori che circuitano di più).

Se per esempio allarghiamo il periodo storico di osservazione partendo dalla sua fondazione a oggi, ossia dal 1977 (questa era l’edizione del 40esimo) troviamo Ronconi premiato in ben diciotto occasioni, Tiezzi in dieci, Carmelo Bene in otto, Castri in otto. Questi non sono gli unici nomi a ricorrere negli anni troviamo anche Martinelli/Montanari, Castellucci, Armando Punzo, Barberio Corsetti.

Quello che risulta da questa incompleta disamina (questo è un articolo breve e per sua natura lapidario) è una sorta di monopolio costituito da produzioni legate ai Teatri Stabili e alle coproduzioni internazionali che gioco forza sono quelle ad avere un potere economico e distributivo più forte e che quindi catalizzano l’attenzione. Gli outsider difficilmente trovano spazio se non in rare occasioni. Ricordo che il sistema di votazione è referendario, critici sparsi in tutto il paese votano e gioco forza gli spettacoli che girano di più, al di là della loro qualità, sono quelli più visti e più votati.

Per le compagnie indipendenti e giovani entrare in questo circuito produttivo e distributivo diventa difficilissimo. E questo comporta un difficile ricambio che genera le ricorrenze che abbiamo rilevato.

Se poi prendiamo in considerazione sempre nel quinquennio 2013-2017 il premio Ubu al miglior spettacolo straniero visto in Italia, possiamo notare un altro dato interessante che ci permette di fare altre considerazioni sulla filiera produttiva e distributiva del nostro paese. Negli ultimi cinque anni se si esclude il 2013 con la vittoria di Odyssey di Bob Wilson, vincono sempre spettacoli di area tedesca: Marthaler 2014 e 2015, Jan Fabre prodotto dal Berliner Festspiele nel 2016, Milo Rau nel 2017, con le She She Pop finaliste nel 2013 e 2015.

Questo primeggiare di opere provenienti da Svizzera e Germania si spiega non solo per un potere economico maggiore ma anche per una più saggia politica produttiva e distributiva che ha permesso un ricambio generazionale e l’emersione di giovani di talento. Per un artista svizzero alle prime armi, per esempio, è molto più facile, grazie a sostegni appositi previsti dai Cantoni, dalle Lotterie, dalla società per i diritti d’autore elvetica SSA, da festival e da teatri, una maggior circuitazione e una possibilità produttiva in Italia impossibile.

Milo Rau per esempio riesce a produrre lavori di alto livello e ampiamente sostenuti a partire già dal 2007 quando aveva solo trentanni. Ma il suo caso non è l’unico.

In Italia un giovane che non entra nei circuiti privilegiati difficilmente trova, non solo una produzione all’altezza, ma una distribuzione che gli permetta un sopravvivenza a lungo periodo. Per esempio gli Omini, o il Collettivo Controcanto, o Marco Chenevier hanno molte meno possibilità di essere visti di quanto meriterebbero perché difficilmente un programmatore o un direttore artistico punterebbe su di loro non avendo grandi possibilità di richiamare pubblico o stampa.

È ovvio che questo è un serpente che si morde la coda. Meno si punterà sugli sconosciuti di talento, meno possibilità avranno di emergere e sempre più vedremo premiati gli stessi nomi. È ora che si inverta la tendenza se vogliamo che il nostro teatro e la nostra danza ritrovino qualità e contenuti. È necessario riformulare le nostre filiere produttive e distributive, occorre formare figure che si occupino della vendita degli spettacoli, così come i direttori artistici si assumano dei rischi. Se questo non avverrà al più presto la qualità del nostro teatro e della nostra danza sarà sempre meno incisiva nei confronti dei pari età esteri che vivono situazioni meno difficoltose per l’emersione del loro talento.

Un ultima considerazione: la notizia del premio Ubu 2017 è stata a dir poco ininfluente sulla grande stampa. Se ne occupa per lo più quella web e specializzata. E questo è un segnale preoccupante della rilevanza che le arti sceniche hanno nel contesto culturale italiano. Il vero dramma è che nemmeno come controcultura è incisiva. Le arti sceniche in questo paese faticano a trovare un ruolo e una funzione e anche su questo aspetto andrebbe spesa più che una riflessione.