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Nicola Di Chio

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A NICOLA DI CHIO

Per la quarantacinquesima intervista de Lo Stato delle cose incontriamo Nicola di Chio. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Nicola di Chio attore e regista, diplomato all’ Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe”. Fondatore del collettivo La Ballata dei Lenna con cui realizza come regista e interprete, spettacoli che ricevono importanti riconoscimenti come Human Animal – dal Il re pallido di David F. Wallace e Cantare all’Amore. Negli ultimi anni ha cominciato una ricerca sul teatro documentario che commistiona il cinema del reale al teatro. Al cinema ha lavorato con Ridley Scott.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La creazione scenica deve pensare per prima cosa al pubblico, per quanto banale sembri questa affermazione, se la creazione scenica non considera lo sguardo dello spettatore rischia di essere un processo disutile.

Servono storie che raccontano del mondo. Che riflettono su quello che ruota intorno all’essere abitanti di questo mondo.

E proprio per recuperare l’efficacia della scena, sarebbe interessante chiedersi chi siamo come artisti, cosa abbiamo raccontato e come lo abbiamo fatto fino ad oggi.

Era tutto realmente necessario?
Quando arriva una crisi, come quella che stiamo vivendo, dovremmo esser in grado di mettere luce al buio, risollevare e curare l’anima affrontando la complessità dei fatti e delle storie.

Credo per questo sia fondamentale mettersi nella testa del nostro potenziale pubblico. Viviamo nell’era dell’informazione, in una società iperconessa, tempestata di input visuali e in cui le nostre richieste sono soddisfatte in pochi secondi. Occorre interloquire realmente con gli spettatori, ripensare alle forme di messa in scena, ai suoi ritmi interni e ai suoi contenuti, perché altrimenti ciò che accade in teatro rischierà di restare sempre un passo indietro rispetto alla quotidianità, alle altre arti, alle forme di comunicazione.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Appunto, aumenta tutto.

Tranne la capacità di scommettere e la possibilità di rischiare.

Credo che questo abbia portato ad un atrofizzarsi del mercato, ma soprattutto del pensiero.

Si vaga. Ci attacchiamo a quello che succede, a quello che uscirà domani, alla scadenza di questo e quell’altro bando.

Si risponde a parametri, a numeri.

Si è un po’ persa la libertà creativa.

Ho paura che sia andata perduta anche la capacità della lungimiranza, di essere visionari.

E allora come pensiamo ci possa essere un’evoluzione?

Il problema non credo stia solo nella scarsità di risorse, il problema ristagna nella poca volontà di assumersi il rischio, di investire in una scommessa, di godersi il privilegio dello sbaglio.

Non credo ci sia una reale crisi del teatro, ci sono teatri ovunque, ne nascono a bizzeffe, ci sono festival, stagioni, rassegne, eventi nei paesi di poche centinaia di abitanti come nelle grandi città.

Forse è in crisi “l’umano” che vive il teatro.

Alle volte ho l’impressione che tutti sappiano i problemi, tutti conoscano le soluzioni, tutti siano accomunati dalle stesse preoccupazioni, ma nessuno faccia niente.

Bisogna smettere di lamentarsi e ripetere che all’estero le cose vanno meglio, probabilmente sarebbe ora di capire perché all’estero le cose vanno meglio, stravolgere il sistema e riscriverlo provando ad imitare quei modelli che funzionano. Però prima di tutto serve cambiare il modo di pensare, altrimenti il rischio che si corre è quello di mettere in pratica solo una brutta copia.

Citando Godard: “L’arte nasce dall’arte: il punto non è dove prendi le cose, ma dove le porti”.

Non possono essere solo gli artisti a fare il salto nel vuoto cercando nuove forme, che poi nuove non sono, o intraprendendo chissà quale sentiero sperimentale, se poi il contenitore in cui si offrono e si muovono è arrugginito o nel peggiore dei casi non apre proprio le porte.

Serve che qualcuno sostenga il cambiamento, servono manovre istituzionali coraggiose, ci vuole l’assunzione di responsabilità sia da parte di chi fa, sia da parte di chi produce e ospita il teatro.

Leggo di molte realtà interessanti e di molti registi giovani in gamba, che fanno fatica ad emergere, in un contesto legato a vecchie logiche, che pare sia troppo scomodo abbandonare e condivido un senso di frustrazione. Quando mi capita di assistere al successo di un/a giovane collega che ha un pensiero agganciato al presente e proteso al futuro, mi sembra di respirare, gioisco per lei/lui, perché vedo uno spiraglio, una possibilità per tutti.

Nicola Di Chio in Human Animal

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Una maggior tutela di chi fa questo mestiere.

E poi mi ripeto: scommettere, rischiare, sbagliare.

Riscrivere le stagioni, riscrivere i finanziamenti.

Forse occorre trovare un punto d’incontro, una discussione comune, il rischio deve poter essere di entrambi: artisti e programmatori.

Ma si ha paura. Paura di fare l’investimento sbagliato. Di intraprendere nuove strade, di avvicinare nuovo pubblico.

E’ faticoso.

L’eventualità dell’errore stanca, non è concessa.

Non si può più sbagliare, mai un tweet sbagliato, una foto sbagliata, un progetto sbagliato, una regia sbagliata.

Io credo invece che l’errore sia libertà, sia la base del nostro lavoro, altrimenti non esisterebbero nemmeno le prove.

Purtroppo si continua a pensare più ai numeri, che a far emozionare la gente. Non ha più importanza se la gente va a teatro o da un’altra parte.

Eppure se un teatro chiude, diventa buia quella via, quel quartiere diventa pericoloso, diventa triste chi vive quella comunità.

E’ chiaro che servirà un anno zero, un periodo di transizione, fa parte del gioco.

Ma continuare così non credo aiuti nessuno.

Bisogna riscoprire il cambiamento abbandonando il consueto.

In certi casi abbiamo la presunzione di sapere cosa vuole il pubblico. Mah! Secondo me non sappiamo un bel niente.

E tutti facciamo finta di nulla.

Bisogna creare un dialogo con i giovani, che rare volte vanno a teatro.

E’ un lavoro complicato, meticoloso. E’ una sfida che vale la pena cominciare.

Il teatro è la forma più antica, è vero, va bene. Questo pensiero, però, rischia di essere un boomerang, ci condanna all’immobilità, bisogna scuoterlo un attimo.

E invece pare che si evolva tutto, tranne il teatro e il sistema teatrale.

E di conseguenza è ovvio che la distribuzione fatichi a funzionare se le richieste di chi ospita, a parte rare eccezioni, continueranno a girare sempre attorno agli stessi nomi e allo stesso pubblico.

Insisto sul fatto che occorre effettuare una rigenerazione del sistema dalle radici, non basta rattoppare o effettuare delle migliorie a qualche settore in particolare. Sarebbe come chiudere con un po’ di catrame grossolano i buchi di una strada dissestata e continuare a percorrerla. Al primo acquazzone non tarderebbero a riaffiorare le falle.

Ma la rivoluzione, come accennavo su, non può essere esercitata solo dal basso. Un cambiamento strutturale profondo non è possibile finché si combattono battaglie solitarie o peggio finché tra di noi ci bisticciamo manciate di date.

Nicola Di Chio

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Cambiano i linguaggi, cambiano i contenuti cambiano le forme, cambiano i ritmi, ma la funzione della creazione scenica deve restare quella di metterci di fronte alle nostre emozioni, permetterci di maturare riflessioni e sviluppare un pensiero. Porre domande, non dare risposte.

Il teatro è estremamente importante per creare nuove prospettive sulla realtà, fornire strumenti alternativi per conoscere il nostro passato, leggere la contemporaneità e guardare al futuro in maniera consapevole.

Certamente bisogna scegliere cosa raccontare e come farlo, ma se l’artista ama il suo pubblico non lo consola quasi mai, di conseguenza il pubblico, che ha così bisogno della relazione che si instaura con l’attore sulla scena, accetta di essere messo in una posizione scomoda. In questo patto la creazione scenica ottiene la sua massima realizzazione. Qui avviene l’evoluzione. Ed è un rapporto performativo quello che si crea con gli spettatori ogni sera, quello che rende ogni replica diversa dall’altra e l’arte del teatro unica e irrinunciabile nel suo genere.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo che, in questo momento storico, raccontare quello che ci riguarda da vicino sia una priorità. E’ fondamentale riportare un punto di vista, dei dubbi, far interrogare il pubblico stesso su determinati temi legati alla realtà che viviamo.

Nell’era delle fake news della falsa positività e delle vite artificiosamente perfette è forse necessario che in teatro, dove la presenza di spettatori e attori in carne ed ossa genera un’interazione fisica reale e irripetibile, si usi la lente di ingrandimento per affrontare da un altro lato alcuni aspetti della contemporaneità che magari ci sfuggono o ignoriamo.

Ci si prenda il tempo di indagare la complessità dei sentimenti, per tirare fuori tutte le emozioni anche quelle negative, quelle che i post motivazionali e le citazioni sul successo reprimono obbligandoci a credere che stiamo tutti bene, che il mondo non è un brutto posto, sei tu che lo vedi in quel modo. Evitando di far sentire lo spettatore comparsa, come se quello di cui stiamo parlando non lo riguardasse, al contrario rendendolo testimone attivo di questa epoca.

Quali siano gli strumenti efficaci non te lo so dire, ma posso raccontarti quello che sto sperimentando io ultimamente.

Da un po’ di tempo a questa parte mi sono avvicinato al teatro documentario, una modalità che cerca di narrare il “reale” attraverso un rapporto privilegiato con l’immagine video e le riprese live, ispirato dal bisogno di raccontare e vedere gli esseri umani così come sono per davvero.

Il tentativo è di ricreare sul palco, l’autenticità di quei contatti che si sono instaurati in tutto il percorso di ricerca, di creazione e produzione.

Tale tipo di approccio richiede mesi di studio, ricerche, approfondimenti.

Devi accettare di allontanarti dal teatro, dalla tua comfort zone per toccare altre aree come la sociologia, l’antropologia, l’architettura, l’urbanistica, insomma tutto ciò che si muta con gli eventi e con le trasformazioni del tempo, che appartiene alla vita.

E’ un lavoro complesso, si sbaglia molto, si viaggia su un terreno traballante, che muta continuamente, mi è capitato di perdere pezzi, di percorrere strade e poi dover tornare indietro, di inseguire soggetti sbagliati e di incontrare per caso persone illuminanti.

Per questo mi piace parlare più di sperimentazioni sociali che di spettacoli, di occasioni di esperienza e relazioni ancor prima di produzioni.

C’è tanto da raccontare. E a volte diventa difficile scegliere da dove partire per creare un nuovo progetto. Poi però succede qualcosa, ti capita di venire a contatto con una storia che senti di aver la responsabilità come artista di far conoscere a più persone possibili e lì, in quella spinta, comincia l’atto creativo. E’ in quel “reale”, in quelle emozioni, che incontro la straordinarietà del fare teatro.

Carlo Gallo

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CARLO GALLO

Per la ventunesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Carlo Gallo, un giovane autore, attore e regista che opera nella città di Crotone.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Carlo Gallo è un attore ed è uno dei fondatori della Compagnia Teatro della Maruca e dell’omonimo spazio OFF, il primo, della città di Crotone. È diplomato alla Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine. Da diversi anni recupera e trascrive memorie orali per strade, porti, mercati, fabbriche e campagne.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Deve incendiare l’anima, pervadere lo spettatore di bellezza, avere il bagliore dell’incanto. È importante che l’opera abbia la consistenza dell’ acqua, che possa arrivare ovunque, anche in spazi non convenzionali, fruibile da una fascia di pubblico ampia che includa tutti. Per essere efficace deve inseguire questa utopia: bruciarsi tutta e subito nel qui e ora dell’esperienza e durare in eterno.

L’architettura della drammaturgia, lo stile e la scelta dei linguaggi per me sono centrali nella creazione scenica. Per scrivere ho bisogno di guardare le cose con gli occhi di un primo giorno e questo è quello che accade quando ascolto un anziano raccontare una storia, la sua presenza, le sue pupille che indagano nel ricordo. Il modo in cui rimango incollato alle sue labbra e al racconto, l’ipnosi di quei gesti, l’intreccio musicale delle parole, delle pause, la commozione, la rabbia o la gioia che provo con lui passo dopo passo.

Questo racchiude il senso profondo della creazione scenica e la sua efficacia. Chi crea è sempre alla ricerca della sua strada nel solco del sentiero già intrapreso, l’opera è un dono condiviso con gli spettatori alla fine di un processo o all’interno di un processo in evoluzione.

Ogni artista ha la sua pozione magica o la inventa ogni sera col pubblico, io ho bisogno di sentire la spiaggia dello Jonio tra le dita dei piedi, ascoltare quegli sguardi, quelle barbe, i visi e le mani di uomini che hanno vissuto, per Bollari è stato così, il pubblico assiste a 50 minuti di spettacolo che sono la sintesi di almeno 4 ore di materiale trascritto su carta. Che il pubblico sappia o meno di ciò che è rimasto fuori dalla creazione scenica poco importa, c’è qualcosa di magico però che rende l’opera un abisso sempre più profondo quando salgo sul palco batto il pugno sul petto e canto il rema-rema.

Discorso diverso per mio fratello Angelo, lui è burattinaio e scenografo, lui il mondo ha bisogno di costruirselo con le proprie mani, di plasmare la materia. Nel suo caso, spesso, nascono prima personaggi e marchingegni e poi per ultimo arriva il testo.

La filosofia è però universale: la creazione deve incidere rotture profonde, dolorose se necessarie, aprire spazi di riflessione, versare conoscenza, ispirarci ad essere migliori di noi stessi sempre.

Sulla destra Carlo Gallo

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Dobbiamo innanzitutto prendere in considerazione il modo in cui il teatro è diffuso sul territorio italiano, la ricchezza data dalla peculiarità di artisti e compagnie eterogenee. Sono dell’idea che bisognerebbe investire sulla decentralizzazione del sistema teatrale piuttosto che il contrario. Oltre ai Festival, alle residenze, ai teatri che in questi anni hanno consolidato la propria posizione, proporrei di inserire dei fondi che permettano ad organizzatori e compagnie di giungere nelle periferie e nei piccoli paesi. Fare teatro e vivere di teatro significa fare repliche, creare tappe, arrivare in paesi e piccole frazioni con i propri spettacoli.

Sono molte le associazioni e compagnie che lavorano in questa direzione sul proprio territorio, ma spesso si tratta di situazioni isolate senza alcun tipo di connessione con un circuito più ampio, nazionale. Il valore dell’operazione sarebbe molto alto: riportare l’evento teatrale dal vivo in paesini di 5-600 persone. Si potrebbe pensare per esempio a delle proposte per attori giovani, neo diplomati o compagnie/artisti meritevoli che per motivi diversi non hanno ancora ottenuto riconoscimenti o visibilità. D’altra parte, anche nelle periferie più lontane, esistono auditorium, sale teatro, vecchi cinema, edifici d’epoca e se non ci fosse questo magma teatrale “occulto” che si muove in silenzio, i luoghi rimarrebbero vuoti a lungo. Insomma una tipicità tutta italiana che potrebbe essere ufficializzata attraverso un sistema, delle azioni di bando precise.

Crediamo che la scena italiana teatrale sia ancora in pieno fermento, in ogni piccolo angolo dello stivale. Uno degli obiettivi dei bandi o dei fondi destinati al nostro settore dovrebbe essere quello di fare arrivare il teatro nei luoghi in cui non arriverebbe mai. Si pensa sempre alla centralità tralasciando il resto del territorio che ha desiderio e bisogno di essere attraversato.

(Bisogna riconoscere che il fermento c’è ed è vivo, e le volte in cui si esce da teatro soddisfatti sono di gran lunga maggiori a quando avviene il contrario).

Un’ altra riflessione ha a che vedere con la dimensione del “tuttofare”. In questo momento sto rispondendo da autore? Attore? Regista? Distributore? Organizzatore? Scenografo? Sogniamo spesso di avere tempo da occupare solo per la creazione artistica, letture di libri, interviste, raccolta di materiale, costruzione di pupazzi e burattini, prove e poi recitare almeno 11 volte alla settimana come diceva Eduardo De Filippo.

A mio avviso una soluzione potrebbe essere quella di affiancare alle compagnie, attraverso i bandi stessi, delle figure che si occupino della parte burocratica e distributiva, liberando i creativi e gli interpreti da ogni altro impegno: restituire tempo.

Dunque creare, pensare a un sistema che permetta ad ogni figura di svolgere il proprio lavoro a fondo.

Teatro della Maruca – Crotone

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Ciò che rende il Teatro primordiale, antico e allo stesso tempo sempre attuale è la sua capacità di creare, con un solo racconto, immagini diverse nella testa di ogni singolo spettatore. Mentre milioni di persone ricevono la stessa immagine su Whatsapp, guardano un video su YouTube, a Teatro ognuno di loro avrà la possibilità di immaginare quel personaggio, quella barca, quel mare blu-verde macchiato di scogli in maniera specifica ed unica. L’esperienza si brucia nell’atto di compiersi, e il viaggio sensoriale emotivo si rinnova ogni volta, anche assistendo allo stesso spettacolo più volte.

Il virtuale è ormai parte integrante della vita quotidiana, è con noi prima di dormire, mentre ceniamo, quando parliamo con altre persone. Il teatro come espressione del sociale viene contaminato da ciò che nel sociale si muove.

Allora penso che nella creazione scenica tutte le scelte sono possibili, a seconda del proprio percorso, del proprio stile, del proprio gusto, ma credo che il teatro in ogni tempo e luogo permetta un’ esperienza di condivisione tra il corpo di chi è in scena e di chi sta assistendo all’evento: un’esperienza insostituibile della quale avremo sempre bisogno.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Intanto c’è da domandarsi che cosa veramente interessi l’artista, cosa vuole raccontare, come e perché. Detto questo, spesso sento dire, proprio da chi il teatro lo fa, che gli strumenti sono aumentati ma aleggia una certa ansia da prestazione creativa che suona come un “già detto, già visto e già fatto”, un atteggiamento che ci porta fuori strada se pensiamo ad un rapporto possibile col reale.

Dunque mi domando: quali narrazioni ci caratterizzano? Quali scegliamo? Cosa nutre veramente chi crea? Cosa e come guardare? Come e cosa far vedere? In questa prospettiva il Teatro continua ad offrire strumenti, ad avere un rapporto profondo, possibile con il reale, diventa spazio di conoscenza condiviso con il pubblico che abbiamo il dovere di andarci a cercare, che non possiamo aspettare soltanto e comodamente in sala.

La risposta, per me, sta nel tornare alle persone, ai luoghi. Il mio rapporto col reale avviene attraverso infusioni di memoria, di ripetizioni sottovoce del materiale “raccolto” senza l’ausilio di mezzi di registrazione: è un ascolto profondo. Ciò che ricordo lo trascrivo e se dimentico qualcosa tornerà in superficie nella mente a distanza di qualche giorno o nel bel mezzo della notte. Questo esercizio “pitagorico” è il mio modo di confrontarmi con il reale.

Un’inversione di tendenza rispetto a un’ epoca in cui tutto può essere impresso, registrato su dispositivi elettronici e porsi come specchio fedele della realtà. Ma è davvero così? Quale porzione di realtà restituiamo e quale escludiamo? Alla fine, come vedi, sono più le domande che le risposte su questo tema, ma forse è proprio questo interrogarsi costantemente il senso profondo dell’arte.

Per chi volesse confrontare le altre interviste:

Lo stato delle cose: uno studio sulla ricerca teatrale italiana