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Clara Sancricca

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CLARA SANCRICCA

Prosegue il nostro ciclo di interviste ai protagonisti della giovane scena italiana. Questa settimana è la volta di Clara Sancricca. Anche a lei abbiamo posto cinque domande su temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il reale. Lo scopo di questi incontri è di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento nonché le possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.

Clara Sancricca è regista, drammaturga e attrice fondatrice del Collettivo Controcanto di Roma di cui si ricordano gli spettacoli Sempre domenica e il recente Settanta volte sette.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Penso che la creazione scenica possa e debba muovere da esigenze molto diverse tra loro: può rivolgersi al pubblico, includerlo, comprenderlo nel proprio discorso; può invece quasi prescindere dal pubblico, frustrarlo, scavalcarlo in cerca di nuove forme estetiche. Ciò che mi appare in ogni caso imprescindibile è la necessità, l’urgenza creativa, l’autenticità della spinta che innesca il processo, comunque si scelga poi di condurlo. Insieme a una messa a fuoco precisa e a un posizionamento del proprio sguardo.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

La nostra è stata una parabola così felice che al momento ci risulta difficile sottolineare le criticità di un sistema che ci ha portati all’emersione senza costringerci ad alcun compromesso e senza esporci anche solo al rischio di snaturarci. I bandi cui abbiamo finora partecipato hanno permesso al nostro lavoro di rendersi visibile, di trovare canali di accesso e supporto economico e logistico. Abbiamo avuto soltanto delle accortezze, a tutela delle nostre istanze. Abbiamo scelto di affiancarci una figura che potesse con più competenza occuparsi delle questioni legate all’organizzazione e alla distribuzione, in modo che il tempo che riusciamo a dedicare a Controcanto non sia eroso da questi aspetti, che sono centrali e rischiano di mangiare il resto. Abbiamo scelto di partecipare solo a bandi che fossero in linea con quanto già stavamo facendo, avevamo bisogno di fare e avremmo in ogni caso fatto; infine di non disperderci in troppi progetti e di mantenere lunga la durata del processo creativo. Il fatto che la nostra esistenza di collettivo preceda di parecchio la nostra visibilità ci ha aiutati finora a percepirci comunque esistenti, a non confondere le possibilità (enormemente facilitanti) che il sistema produttivo può offrire con la possibilità stessa di creare.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Per quanto la distribuzione dei nostri spettacoli sia stata finora davvero buona e al di sopra delle nostre aspettative, abbiamo la percezione che il mercato teatrale sia in certo modo saturo e non possa da solo garantire a tutti noi ( che peraltro siamo tanti e intendiamo rimanerlo) la possibilità di vivere esclusivamente del nostro lavoro artistico. La risposta che stiamo cercando insieme al nostro organizzatore è quella di accompagnare la circuitazione teatrale dei nostri spettacoli con un’altra in contesti altri, opportuni e sensati rispetto alla natura dei singoli lavori, inventando per ogni spettacolo – in virtù delle sue specifiche caratteristiche – nuove possibili modalità distributive.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Credo che la forma teatrale resista e debba resistere proprio in virtù della sua anti-economicità, dell’investimento di compresenza che richiede e dalla condivisione profonda che in nome di questo può offrire. In questo credo che sia – e lo sia da sempre – l’arte più di tutte deputata a rifondare il senso della comunità.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Non penso che il rapporto con il reale debba essere programmaticamente richiesto ad un artista. Tuttavia ogni grande artista ha saputo, anche quando non ha voluto, farsi interprete della realtà. Per noi si tratta di un imprescindibile punto di partenza, perché è dall’osservazione attenta, rabbiosa e non per questo meno amorosa del reale che muove la possibilità di individuare nelle sue contraddizioni un cuore pulsante di senso, cui dare voce e respiro. Ma non per inchiodare la realtà a se stessa, ma nel tentativo di ricordare che il reale è solo una forma del possibile, e che il possibile può essere altrettanto reale.

Settanta volte sette

CONTRO LA LEGGE DELL’ODIO: SETTANTA VOLTE SETTE

Per la settima edizione di Concentrica – Spettacoli in orbita organizzato dal Teatro Della Caduta va in scena a Torino Settanta volte sette di Collettivo Controcanto, spettacolo vincitore di Teatri del Sacro 2019. Lo spettacolo si inserisce nella nuova sezione Concentrica a scuola, costruita, pensata e organizzata insieme agli studenti del Convitto Nazionale Umberto I e l’IIS Avogadro, due storici istituti torinesi eccezionalmente aperti la sera. Il pubblico cittadino viene accolto dai ragazzi, guide accoglienti pronti a svelare la storia e le curiosità degli edifici scolastici da loro abitati e vissuti e per una sera trasformati in sale teatrali. Proprio all’IIS Avogadro, scuola inaugurata a Torino nel lontano 1805 durante il regno di Vittorio Emanuele I, ha fatto il suo debutto regionale il delicato lavoro dedicato al perdono di Collettivo Controcanto.

Benché Settanta volte sette si ponga la stessa domanda dell’Orestea, ossia come superare la vendetta e ovviare l’ineluttabilità dell’odio e della legge del sangue, non siamo di fronte a una tragedia. Non c’è nessun fato scritto, non sono Ananke e le Moire a filare il destino. Non ci sono neppure gli eroi. Tutto è anzi molto comune e ordinario. Assassino e vittima sono come sradicatati, non inseriti nel flusso della Storia, quella dei grandi eventi e a cui partecipano coloro che sanno cosa vogliono dalla vita e hanno una missione. Colpevoli e innocenti, – ma sono queste categorie veramente utili in grado di fotografare un delitto? – si trovano uno di fronte all’altro in un momento di disattenzione.

Sono assenti anche le omissioni che caratterizzano una cronaca di una morte annunciata, così come le cause di quei vortici gaddiani messaggeri di pasticciacci brutti. Gli eventi sembrano accadere senza ragione alcuna, in un momento fatale in cui chi è coinvolto perde il controllo e si trova catapultato improvvisamente nel mondo inesorabile governato dalle conseguenze degli atti di sangue. Quanto avviene sulla scena potrebbe avvenire a noi litigando al semaforo, al bar, in coda alla posta. Non vi è nulla di eccezionale: si esce per una festa tra amici e ci si ritrova vittime e assassini.

Le cause non vengono indagate. Restano in penombra e in disparte come i magi nei quadri del Tiepolo. Si intuiscono senza approfondirli. In fondo non serve. Potremmo essere noi e tali ragioni cerchiamole nella nostra coscienza. Quello invece evidente è il dolore, il pentimento, il rimorso e la rabbia, il lento e travagliato percorso che porta al perdono. Tutti i personaggi coinvolti, vittime e colpevoli, vengono investiti dall’onda di piena di un evento assente dalla scena e fulmineo. Le conseguenze invece agiscono lentamente, sottovoce, a fatica. Il seme dell’odio è duro a morire prima di dar frutto nel perdono.

É lo spirito femminile il primo ad accogliere la possibilità di uscire dalla spirale inflessibile. Il maschile è troppo preso dall’orgoglio, ma soprattutto dalla parte assunta dalla storia come portatore di vendetta. Deve essere guidato, condotto, dal cedere, dall’accogliere, dal ritirarsi. Senza opposizione e contrasto il maschile si trova sbilanciato, cade su se stesso, perde il vento nelle vele e così scopre la possibilità difficile, quella esclusa a priori. Assassino e vittima si trovano al cospetto uno dell’altro, senza molte parole da dirsi. Il perdono sta nei silenzi e nelle attese, in un ricordo scambiato, ceduto e accolto per infine smuovere i piatti della bilancia di una giustizia troppo spesso sommaria.

Settanta volte sette, così il Cristo invitava Pietro a perdonare. Un infinito doloroso eppure vitale per sconfiggere la legge del sangue. Settanta volte sette di Collettivo Controcanto esorta, con grazia gentile, a riflettere sul perdono in un’epoca in cui tutto sembra spingere all’odio, alla divisione e al contrasto.

La domanda su come si possa uscire dalla catena di azione e reazione, di causa ed effetto sembra centrale nel teatro odierno. Lo testimoniano l’Orestea di Anagoor, come quella di Milo Rau ambientata a Mosul. Se però queste ultime si rifanno al mito e alla grande Storia, Settanta volte sette, si concentra sul quotidiano anonimo, su quello che troviamo ogni giorno sul giornale e che potrebbe accadere ovunque e in ogni momento. Sebbene con un pizzico di retorica che forse si poteva abbandonare, Collettivo Controcanto ha il merito di fissare l’occhio non sulla grandiosità dell’evento delittuoso, sulla sua magnificenza, quanto appunto sul trascurabile e comunissimo, ma è il granello di polvere a creare la valanga. Una briciola pesante come una montagna per rimuovere la quale serve tutto il coraggio del mondo.

Visto a Torino il 14 novembre 2019