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sylphidarium

SYLPHIDARIUM di CollettivO CineticO

Sylphidarium e la Sylphide. Modello e variazione del canone. Se uno osserva bene il cavallo centrale in Guernica si può riconoscere il modello lontano: La battaglia di San Romano di Paolo Uccello. C’è una comunanza potente tra le due opere, non solo tecnica, non solo negli occhi allucinati del cavallo che distorce la testa dall’orrore della guerra. Parlo di qualcosa di viscerale, di intimo, come due laghi che si alimentano della stessa acqua, rinvigorendosi, mantenendosi vivi. Persino in John Cage si possono trovare piccoli e vitali frammenti di Mozart.

Questo fluire energetico tra le opere è la linfa che nutre il linguaggio artistico nel tempo. Se non ci fosse come sarebbe il linguaggio dell’arte? Non possiamo saperlo, perché essendo l’arte una lingua essa muta nel tempo, si nutre di vocaboli desueti, di forme arcaiche, di costrutti antichi rilanciandoli in forme nuove, neologismi, generazioni equivoche. Il tutto verso una lingua che ancora non si parla. Ci si limita a balbettarla.

Non c’è niente di strano in questo. È il corso naturale dei linguaggi. Un antico proverbio arabo dice: non si dicono cose nuove, ma cose vecchie in modo nuovo.

Per cui niente di strano che Sylphidarium intessa un dialogo con la lontana Sylphide, quel balletto che portò alla danza il tutù e l’elevarsi sulle punte.

Potremmo citare mille casi simili, negli ultimi tempi le She She Pop hanno fatto uno splendido ibrido con la Sagra della primavera. È una prassi in qualsiasi arte. Quello che mi stupisce di più è che questo venga visto come una sorta di cannibalismo necrofago. Non è un nutrirsi di carogne morte e abbandonate nella savana. È dialogo. È la metamorfosi che affascina Ovidio, questo trascorrere delle forme divine in quelle vegetali, di umani trasformati in animali, di mostri che generano dei. È il processo splendido e tremendo dell’arte.

Quello che mi manca davvero in Sylphidarium è la meraviglia del processo di rivitalizzazione. Questo splendido e tremendo bisbigliare tra le forme. C’è come una volontà freddamente clinica, priva d’amore nel dissezionare il cadavere, nel ricomporlo come un novello Frankenstein. È un nutrirsi come fanno le iene.

Ma c’è anche un disperdersi, un compiacersi nell’ossessivo sfilare di costumi, come in un defilé di moda autunno/inverno. Non che manchino momenti di grande fantasia formale, un creare forme dalle forme. Ma come in una sfilata di moda, queste fantastiche creazioni sono offerte allo sguardo come merci. Passano da una all’altra come in un catalogo. C’è molto freddo. Io almeno l’ho percepito così.

La musica di Francesco Antonioni è il valore aggiunto. Anche in questo caso c’è un rimandare alle forme classiche, soprattutto a Chopin, ma in un dialogo molto più fruttuoso, ibridato con calore. La danza piuttosto si adegua ai ritmi musicali in un assecondare lentezze, densità, frequenze. Non è un vero botta e risposta, quasi più un assentire.

Per tutti questi motivi, nonostante una possente tessitura, in questo lavoro intenso e persin crudele nel voler denudare le forme, ricomporle, rimodellarle, ho avvertito il dolciastro odor di decomposizione e il rumore assordante degli insetti necrofagi. Avrei voluto assaporare lo sbocciar di vita nova da ciò che lontano scompare all’orizzonte, più che un fredda meditazione sul cadavere.