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Mirabilia Ph:@Andrea Macchia

Comunicare lo spettacolo: a Mirabilia nuovi linguaggi per le Live Arts

Mirabilia è un festival dedicato al circo contemporaneo e alla danza che si svolge tra agosto e settembre nei comuni di Alba, Busca, Savigliano e, per la parte più importante e corposa, nella città di Cuneo. Il Festival diretto da Fabrizio Gavosto cerca di dare un respiro europeo al progetto affiancando agli spettacoli, dislocati in ogni quartiere e parco cittadino, una serie di appuntamenti dedicati agli operatori alternando occasioni di mercato, incontri professionali e tavole rotonde.

Tra questi, di particolare interesse, è stata la giornata di convegno dal titolo Il ruolo della scrittura critica e drammaturgica nello sviluppo delle arti circensi. L’evento è stato organizzato in collaborazione con Adolfo Rossomando, direttore di Juggling magazine, Silvia Mei, studiosa e docente all’Università di Foggia, e la rete INCAm (International Network of Circus Art magazines). Diversi i motivi che hanno reso attrattive le argomentazioni emerse. Cerchiamo di riassumerle in brevi spunti di riflessione.

In primo luogo ci si è interrogati su come comunicare lo spettacolo alla pluralità di referenti possibili: pubblico, operatori e referenti istituzionali. Per ogni caso preso in esame va considerato un differente linguaggio, in parte ancora da inventare e sviluppare, perché differenti sono gli obiettivi: portare spettatori in sala, vendere o produrre un lavoro, finanziare l’attività di ricerca e sviluppo.

Innanzitutto occorre segnalare come molti artisti ancora credano che l’arte sia una forma di comunicazione, ossia che l’opera abbia finalità comunicative in sé, nonostante la riflessione e la pratica estetica e filosofica degli ultimi duecento anni abbia sgomberato il campo da questo fraintendimento. L’azione artistica non è una forma di comunicazione, quanto piuttosto una prassi del pensiero in azione. Inoltre l’opera d’arte possiede una certa sua opacità nonché una volontà propria rispetto ai propri creatori, indipendenza tale da permettere all’occhio dell’osservatore di entrare in essa e trarne messaggi e significati impensati e inauditi. Chiudere la visione, percezione o fruizione dell’opera in un unico univoco messaggio preclude all’opera la usa possibilità di coinvolgere e attivare l’occhio che guarda, relegato in posizione passiva e semplicemente ricevente. Tra opera aperta e opera chiusa non esiste una divisione manichea e precisa. I confini sono labili e grigi ma la tendenza è orientata verso una trasformazione dell’intenzione in tensione, non certo verso un travaso immutabile di un messaggio da un trasmettitore a un ricevente.

, Simone Pacini, Silvia Mei, Adolfo Rossomando

Non a caso all’artista oggi, nelle migliori e più avanzate produzioni, si affiancano altre figure professionali, quali il dramaturg, gli addetti stampa o gli esperti di comunicazione digitale pronti a curare gli aspetti dedicati al mondo della comunicazione al posto dell’artista, declinando l’oggetto secondo i vari pubblici di riferimento (professionali, istituzionali e generici). Comunicare e creare non sono creature di una medesima specie benché alcune prassi di comportamento possano dare l’illusione di una parentela tra cui, soprattutto, il furto di modalità artistiche da parte della comunicazione di massa. Purtroppo per la maggior parte dei casi sono gli artisti stessi costretti a curare tutti gli aspetti per mancanza di sufficienti finanziamenti e, da qui, forse, il fraintendimento e sovrapposizione dei concetti di comunicazione e creazione.

In questo panorama la critica potrebbe svolgere un ruolo significativo, come mediatori culturali, a patto però di inventare nuove modalità. La recensione dello spettacolo post-evento non può più essere il solo mezzo attraverso cui il pubblico entra in contatto con lo spettacolo. E questo per molti motivi primo fra tutti la quasi scomparsa delle lunghe teniture in teatro. Se uno spettacolo resta in cartellone solo una sera è chiaro che leggere una recensione a posteriori non porta pubblico in sala e ciò che succede a Torino potrebbe avere esiti diversi a Napoli o a Bologna. Oggi le recensioni servono per la maggior parte ad artisti e operatori come rassegna stampa, ma nei riguardi del pubblico generico restiamo indietro. Questo si percepisce anche dai progetti editoriali presentati dai colleghi stranieri (presenti al convegno Stacy Clark di Circus Talk dagli Stati Uniti, Cyrille Roussial di Jonglages dalla Francia, Ruby Burgess di Circus Diary dalla Gran Bretagna e Tim Behren di Voices Magazine dalla Germania). Tutti questi progetti, nati digitali, sono orientati allo studio delle arti circensi con contributi anche di grande spessore accademico, e orientati verso una circolazione delle opere sul mercato, quindi l’obiettivo appare diretto verso un pubblico specializzato, altamente alfabetizzato e costituito da professionisti dello spettacolo.

Ruby Burgess di Cyrcus Diaries

Non solo bisogna inventare un linguaggio ma riformulare le parole. Spesso si usano termini e locuzioni senza un vero significato nel contesto attuale della ricerca sulle arti performative. Un esempio su tutte: multidisciplinarietà e multimedialità utilizzare per indicare un futuro necessario e radioso per le live arts. Tali termini più che unire e creare alleanze inedite, sono divisive, perché presuppongono famiglie e tribù in realtà inesistenti.

Teatro infatti è parola nata a indicare un luogo e non un’arte. Teatron è il luogo da cui si guarda. L’arte era Koreia: la sinergica coesistenza di danza, musica e poesia (quest’ultima fu considerata appieno un arte solo a partire da Aristotele in quanto costituita da un insieme di regole). Multidisciplinarietà e multimedialità fin dall’origine dunque. E non è superfluo ricordare come durante l’Umanesimo e il Rinascimento, periodo di grande riflessione teorica da cui sorgeranno non solo il Teatro all’Italiana ma i principi della moderna arte scenica, la Commedia dell’Arte era bottega abitata da una sorprendente permeabilità di confini tra le arti e i generi: commedia, tragedia, drammi pastorali, numeri da saltimbanco (oggi diremmo circensi), imbonimenti da fiera, astuzie da cerretani. Unione proficua di cultura alta e bassa, capace di parlare ai re come ai popolani.

Saltando di secolo in secolo, se attraversiamo come uccelli in volo il Novecento, non osserveremmo altro che una ininterrotta teoria di ibridazioni, matrimoni impensabili, sconfinamenti. Pensiamo solo alla figura di John Cage, la cui influenza determinò mutamenti impensabili non solo nella musica, ma nella danza e nel teatro, per non dire delle arti visive come padre dell’happening e della perfomance. Pensiamo a Kantor, artista visivo capace di rivoluzionare il mondo del teatro.

Non resta che far capire alle istituzioni, per lo meno in Italia, non solo l’inutilità degli appelli alla multimedialità e multidisciplinarietà proprie al DNA delle live Arts, ma l’inefficacia delle divisioni e separazioni dei generi. È superfluo ricordare quanto tali divisioni creino cortocircuiti burocratici che se non fossero imbarazzanti indurrebbero al riso.

Forse, in conclusione, per operare un vero superamento dei generi si potrebbe aspirare piuttosto a una sorta di stato vegetale (non vegetativo) in cui come nella vita della pianta, le sue diverse parti possiedono specificità uniche e linguaggi propri ma tutti partecipanti e dipendenti dalla vita di un solo e unico organismo. Non solo una nuova biologia ma anche una diversa visione politica di appartenenza di cui in Italia siamo privi perché continuamente lacerati da divisioni e contrasti.

Cyrille Roussial di Revue Jonglages

Ultimo aspetto, ma non meno importante, riguardante ruolo e funzioni della critica è il fatto che il giornalismo culturale è divenuto una sorta di azione di volontariato e non più un mestiere riconosciuto e pagato. Fenomeno purtroppo non solo italiano da quanto emerso dal dibattito dove, anche in altri paesi europeo e non, la migliore delle risulta essere un pagamento discontinuo e non sufficiente. Questo provoca due effetti: il primo un necessario conflitto di interessi, essendo i critici spesso sostenuti dai festival e dagli artisti stessi; in secondo luogo la deprofessionalizzazione e la mancanza di giuste competenze le quali si formano solo con un dedizione costante e continuativa. La penuria di finanziamenti e sostegni all’editoria culturale risulta essere un gap quasi insormontabile per l’insorgere di una critica veramente indipendente ed efficace.

Molti dunque i temi emersi purtroppo, per mancanza di tempo, non sufficientemente dibattuti tanto da trovare proposte e strategie per instradare la discussione verso delle possibili vie di uscita. È stato comunque importante parlarne e questo è un indubbio merito di Mirabilia e dei curatori del convegno.

Il ruolo della scrittura critica e drammaturgica nello sviluppo delle arti circensi.

Convegno tenuto a Cuneo, presso il Rondò dei Talenti, durante Mirabilia il 2 settembre 2022

Link alle testate straniere specializzate in circo contemporaneo, ma non solo, presenti al convegno per chi avesse curiosità di esplorare i progetti editoriali dei nostri colleghi all’estero:

Circus Talk (USA) https://circustalk.com/

Circus Diaries (GB) https://thecircusdiaries.com/

Revue Jonglages (FR) https://maisondesjonglages.fr/revue/accueil/

Voices Magazine (D) https://circus-dance-festival.de/en/projects/magazin/

Simon Stone

LES TROIS SOEURS: Cechov riscritto e rivisitato da Simon Stone

Lo dico subito così non resta alcun dubbio: questa versione de Le tre sorelle diretta da Simon Stone e in scena al Teatro Carignano fino al 26 gennaio prossimo,  è grande regia e non fa per niente parte di quella categoria di spettacoli di cui ci si dimentica dopo dieci minuti che si è usciti da teatro.

Cercheremo in questa breve disamina di capire in cosa consistono i punti di forza ma anche di individuarne i difetti, e non per fare i puntigliosi che cercano in ogni occasione il pelo nell’uovo, ma per assolvere uno dei compiti della critica, che non è quello di accodarsi al pubblico plaudente ma quello di sollevare questioni e problemi che siano utili all’arte scenica.

Simon Stone fa riscrivere completamente Cechov. Tutta l’azione e il dialogo sono riferiti al nostro presente. C’è tutto: da Donald Trump a The Walking Dead. La scrittura è aggiornata anche sulle questioni di genere con inserti e personaggi del mondo LGBT. Un’operazione che richiama le riscritture filmiche dei grandi romanzi.

Tutta l’azione, divisa in tre atti, avviene in uno chalet girevole, una casetta per vacanze con vari locali su due piani e giardino. Noi spettatori voyeur, abituati a curiosare nelle vite degli altri su Facebook, siamo i guardoni che vedono la vita degli altri scorrere senza parteciparvi come tanti Tonio Kroger.

Tre atti e tre momenti nella vita di questa piccola comunità che gravita intorno alle tre sorelle: un’estate, un natale, e il momento in cui lo chalet si vende e avviene il suicidio. Tutta l’azione scorre davanti a noi nelle varie stanze in un sapiente montaggio di dialoghi e situazioni. Benché non accada quasi nulla e le conversazioni siano per la gran parte quelle di una famiglia qualsiasi, il flusso narrativo è intrigante, senza mai un momento di pausa.

Le scene orchestrate da Simon Stone sono sempre multifocali. Non c’è un solo punto di vista, ma molteplici. Se l’azione principale avviene in cucina, in giardino, in salotto o in bagno qualcos’altro accade che porta avanti la narrazione e tocca a noi pubblico fare il nostro montaggio.

Gli attori sono straordinari. I personaggi credibili. L’illusione di trovarsi di fronte a qualcosa di reale è massima. Sembra di essere al cinema e vedere tre episodi di una serie tv. Non di fronte alla vita vera, quella è ben più caotica, disperata, deludente. Una vita ricostruita dal cinema, che coincide quasi con la nostra, se non per i dialoghi perfetti, per i colpi di scena abilmente posizionati al posto e al momento giusto. Ma l’arte è questo: è artificio che parla della vita, non è la vita stessa, anche se per qualcuno il binomio doveva essere perfetto.

Così alla fine di questa breve descrizione ci troviamo di fronte a una delle questioni che sollevano Les Trois Soeurs di Simon Stone: convenzione vs iperrealismo.

Mentre osservavo e, lo ripeto a scanso di equivoci, mi godevo lo spettacolo, nello stesso tempo mi frullavano nel cervello le lezioni di Mejerchol’d del 1918 in cui parla dei Meininger. Il grande maestro russo parla dell’opposizione tra il naturalismo spinto all’estremo che non lascia nulla all’immaginazione e la convenzione che spinge la fantasia dello spettatore a riempire i vuoti e ammirare il mistero. E guarda caso questa disamina parte proprio da Cechov, il quale criticò Stanislavskij il quale aveva avuto il demerito di aver portato le regie delle sue opere troppo vicino alle posizioni iperrealiste dei Meininger.

Cechov stesso, secondo Mejerchol’d chiedeva di condurre le sue opere verso un mondo più convenzionale, magari sognate, ma che facesse emergere una sorta di mistero dal testo.

A questo pensavo mentre vedevo scorrere di fronte a me la regia di Simon Stone, pensavo alla curiosa coincidenza in cui vedevo questo Cechov giusto cento anni dopo le lezioni di Mejerchol’d e che quanto detto allora valeva ancora oggi. Cosa avrebbe detto Cechov di fronte a questo chalet perfettamente costruito e rotante, queste scene così aderenti al vero, questi personaggi così credibili in questa versione moderna dei Meininger? E questa forma di realismo estremizzato, dove in ogni scena c’è tutto, perfino le forchette nei cassetti, l’asciugamano di fianco al lavandino e le birre nel frigo, non è parte anche di un mondo produttivo elitario?

Chi mai nel teatro normale, quello che si dibatte nei problemi di finanziamento e distribuzione potrebbe mai permettersi questa forma di rappresentazione? Ed è forse poi necessaria, al di là di un risultato sopraffino, questa ricerca del reale a tutti i costi?

Mejerchol’d abbandonò nel 1918 il grande teatro, quello dei velluti e delle risorse infinite, per intraprendere una nuova avventura, che aderisse al momento rivoluzionario. Un teatro diverso, fatto di poveri mezzi ma di grande inventiva. E da questa scelta si creò una polemica in seno alla scena russa, proprio in merito alle due polarità di realismo e convenzione. Le stesso domande che assillavano Mejerchol’d e la scena russa abitata anche da Cechov, si possono curiosamente riferire anche all’oggi e ci fanno capire che in fondo benché molte condizioni siano mutate non molto è cambiato in cento anni.

Ma questa curiosa coincidenza riferita allo spettacolo di Simon Stone e al suo Cechov fa sì che la domanda che viene posta sia riformulata rispetto al presente. Questo iperrealismo cinematografico, al di là degli splendidi risultati, è una strada utile per il teatro di oggi? Questo osservare un’azione che si svolge davanti a noi indipendentemente da noi, non è una modalità rappresentativa d’altri tempi? Le Live arts non si stanno spostando gradualmente ma pare in maniera inequivocabile, verso una modalità performativa partecipata e processuale?

Ripeto queste sono domande che mi sorgono spontanee nel vedere uno spettacolo quasi perfetto e acclamato da numerosi e lunghi applausi del pubblico. Sono domande di sistema che vanno al di là dei meriti indubbi di un regista giovane ma già assai maturo e con ampi e valenti mezzi espressivi al suo arco. Sono domande che riguardano il teatro in generale e sorgono proprio di fronte a una delle sue migliori manifestazioni. Les trois soeurs di Simon Stone, questo Cechov riscritto e riattualizzato, è la Rappresentazione con la maiuscola. Ma non si era fatto di tutto per uscirne?

foto @Thierry Depagne

Andrea Cosentino

LOURDES di Andrea Cosentino: la risata che si nutre di fallimento

La comicità di Andrea Cosentino colpisce per essere sempre creatura duomorfa: aulica e dialettale, potente ed erosiva ma in qualche modo fallimentare, graffiante ma in maniera difensiva quasi a chieder scusa di tanto osare, assurda e fantastica nel suo essere estremamente reale e quotidiana.

Questa doppia natura è accattivante, accogliente. Il mostro a due facce che si agita sulla scena non fa paura, tutt’altro. Anzi aiuta a metterti comodo e a goderti le sue evoluzioni, ed è in quel momento che agisce con maggior efficacia sul pubblico, quando le difese sono abbassate, quando la nostra mente rubrica quanto si vede come inoffensivo. E il tutto viene anche facilitato dal fatto che le due facce si somigliano, pochi particolari le differiscono, dando quella vaga sensazione che non tutto è come dovrebbe essere ma, dopo un attimo di dubbio, si scrollano le spalle e si fa finta di nulla.

Questa supposta impotenza, questo indurre a farsi sottovalutare, è la vera forza del teatro di Andrea Cosentino: la morbidezza che si fa forza, la fluida debolezza che perfora più di una trivella. È come la mela di Biancaneve: perfetta e dolcissima ma che nasconde nel suo cuore un maleficio.

Ma vi è anche un altro aspetto da non tralasciare. Andrea Cosentino nutre il suo mostro dalla doppia natura con il fallimento inteso come mancanza, incompletezza, caducità. Sia gli atti che le parole vengono a mancare e proprio in questo loro quasi non essere complete, diventano forti. Le parole mitragliate e smangiucchiate, il gesto che prova a compiersi e ci ripensa rimanendo in potenza. Un armamentario di quasi, di incompiuti, di nati a metà.

In ogni spettacolo che ho visto di Andrea Cosentino mi ha colpito in primo luogo il vasto spettro di chiavi di lettura che fornisce al pubblico. Come un mago che pone un vasto mazzo di carte entro cui scegliere la carta eletta, così Andrea Cosentino presenta molteplici piani di visione che vanno dall’aulico, al metateatrale, al popolare inteso come folklorico e al pop inteso come cultura quotidiana condivisa.

L’aspetto aulico induce molti a pensare che sia un atteggiamento un poco ruffiano, che occhieggia a quella parte di pubblico intellettuale, in cerca di avanguardia pret-a-porter, quando in verità è solo una freccia linguistica e stilistica in più incoccata nel suo arco. È quello che in Giappone si chiamerebbe superflat: un miscuglio indistinguibile di alto e basso, di classico e pop, la citazione dotta in slang da strada.

Anche i riferimenti molteplici, penso ad esempio a Kotekino Riff, ultima sua fatica, dove abbondano i riferimenti a certa cultura teatrale come il pupazzo dalla figura di Antonin Artaud o ai riferimenti a Grotowski, non sono sfoggio di cultura, e nemmeno appunto occhiolini al pubblico snob, ma necessità all’interno di un linguaggio che si nutre di molteplicità, che attinge a un ampio bacino di strumenti di cui far uso ma in stato di necessità senza affettazione alcuna.

In Lourdes, visto ieri sera al Teatro della Caduta di Torino nell’ambito di Concentrica, lavoro per la regia di Luca Ricci che cura anche l’adattamento teatrale del romanzo di Rosa Matteucci, opera quindi non interamente del sacco di Andrea Cosentino, si assiste ai medesimi meccanismi di cui sopra: il mostro duomorfo appare, affascina, ammalia, ma corrode lentamente con il sorriso, svelando miserie e poche nobiltà dell’umano agire/patire.

Un Andrea Cosentino vestito da suora della carità, ci conduce per mano, sul torpedone per Lourdes, con gli anziani, i malati, gli sciancati, verso la grotta e la piscina della Madonna in cerca di un miracolo a buon mercato come un brutto souvenir o, al massimo, di un poco di avventura e compagnia.

Proprio in mezzo a questo bailamme, in questa folla improbabile, vociante, scombinata, superstiziosa nella sua religiosità egoista volta solo al soddisfacimento del proprio desiderio (Madonnina fammi diventare bella) o cura per i propri comunissimi acciacchi, che si trova l’abbandono a Dio. Un finale un po’ troppo facilmente consolatorio ma comprensibile nell’economia dell’opera.

Una sorta di moderno racconto boccaccesco, come Abraam giudeo che vista a Roma la gran cattiveria dei monaci torna a Parigi e fassi cristiano, così la protagonista immersa in tanta commerciale religiosità, e in tanta miserevole umanità ignorante e superstiziosa, scopre il Dio nascosto.

Lourdes è uno spettacolo divertente e profondo, viziato un poco da un finale scontato, sebbene, come detto, comprensibile. Non è l’opera che più si adatta alla pelle di Andrea Cosentino, ma che certo solo Andrea Cosentino poteva rendere così accattivante e profonda. Molto azzeccate le musiche originali eseguite in scena di Danila Massimi.

Turandot

TURANDOT: l’indomato fascino dell’incompiuta di Puccini

Turandot: l’ultima opera di Puccini, quella destinata a rimaner incompiuta e, di conseguenza, ad attirare tutta la nostra attenzione, noi che come Calaf cerchiamo di risolvere il suo mistero. Puccini non fu l’unico a farsi affascinare dalla fiaba della principessa incapace d’amare. All’inizio del Ventesimo secolo la fiaba Turandot calcherà le scene di tutta Europa affascinando musicisti e registi: Max Reinhardt nel 1911 su musica del futurista Busoni, Vachtangov a Mosca nel 1922.

C’era qualcosa nel mondo della fiaba che attirava i grandi artisti agli albori del ‘900. Pensiamo a molti balletti russi di Stravinskij, a Prokofiev. Nella favola forse si cercava il mito che non si riusciva più ad esprimere. Non si era più in grado di creare racconti che accogliessero in sé l’urgenza di un’epoca e di una società. Forse la Prima Guerra Mondiale aveva reso difficile concepire una forma che potesse spiegare l’immane massacro. La fiaba diventava così un luogo fuori dal tempo dove ricostruire delle immagini che si riappropriassero del reale.

Turandot, la principessa del gelo, incapace d’amare, che taglia la testa a tutti i pretendenti che sono incapaci di risolvere i suoi enigmi. E quando alla fine Calaf riesce a superare l’ostacolo, Turandot non cede e crea un altro ostacolo. La morte regna su questa Cina che non è un luogo fisico ed esotico ma nemmeno immaginario, una Cina gravata dal terrore e dalla morte.

Puccini rende certamente l’esotico con i mezzi a disposizione del repertorio, in fondo per fare cinese bastava usare una scala pentatonica (anche se Puccini usa strumenti più fini come la Canzone del Gelsomino che trarrà dal carillon del barone Fassini), ma il suo scopo non è riprodurre una chinoiserie quanto collocare la fiaba in un altrove che è sì riconoscibile ma nello stesso tempo sfuggente. Secondo la definizione di perturbante di Freud è qualcosa di familiare ma nello stesso tempo di estraneo ed è proprio questa discrepanza che ci crea angoscia. Non dimentichiamo che siamo nel 1924, l’Europa è appena uscita dal grande macello della guerra e ha appena superato da poco il terrore dell’epidemia di spagnola. Questa Cina di cui si parla è molto più vicina di quel che si pensi.

Turandot però è anche un’assenza. E tre maschere lo dicono chiaro a Calaf: Turandot non esiste. Nel primo atto addirittura è niente più che un’ombra lontana. Ella è un simulacro come Elena di Troia, forse niente più che un’immagine. L’incapacità d’amare di Turandot, le sue cervellotiche strategie per difendersi dall’amore, sono in ognuno di noi, sono dentro i nostri cuori, e le teste che si mozzano non sono nient’altro che quelle dei nostri sentimenti. Turandot è dentro e fuori di noi, sulla scena e nella nostra anima. Ecco dunque la potenza del mito attraverso la fiaba.

Ottima la scelta di interrompere l’opera sulle ultime note scritte da Puccini, appena dopo la morte e il sacrificio di Liù, evitando il finale di Alfano e quello di Berio. L’opera resta così aperta, incompiuta, e lascia a noi la facoltà di colmare come più ci piace quel vuoto.

Stefano Poda, la cui opera ho già avuto modo di vedere in Leggenda di Alessandro Solbiati ispirato al Grande inquisitore di Dostoevskij, crea una gabbia a molti strati entro cui si svolge tutta la vicenda. Una prigione asettica, ospedaliera, colma di bianchi abbacinanti, con pochissimi tratti di colore, per lo più neri.

Tre porte sul fondo che richiamano il tre che ricorre nell’opera (Tre enigmi, tre maschere) e che conducono e comunicano con un altrove ancora più sconosciuto e forse angusto di quello visibile. Lo spazio di questa prigione è asfittico, claustrofobico, sempre colmo di persone che si muovono lentamente, quasi senza un perché ne una destinazione.

Il movimento, quasi sempre lento, fornisce un ritmo alternativo all’azione, una dimensione temporale misteriosa, evanescente, come di sogno.

I personaggi sono a malapena riconoscibili in questo bianco insistito. Solo Calaf in nero si staglia, unico protagonista evidente. Turandot sfugge, come riflessa in mille immagini identiche da castello degli specchi da fiera. Calaf si aggira tra questi simulacri senza saper veramente a quale Turandot parlare.

Una Turandot interessante, avvincente questa di Poda e Noseda in scena al Teatro Regio di Torino fino al 25 gennaio.. Una versione che mantiene il mistero di un’incompiuta, senza dar risposte fantasiose o consolanti. Si resta nel mondo che ha lasciato Puccini morendo, senza risposte. Una Turandot che fa riflettere a quanto saremmo disposti per amore o a difenderci dall’amore.

Teatrino Giullare

FINALE DI PARTITA: Teatrino Giullare incontra Beckett

Mentre assistevo a questo Finale di partita di Teatrino Giullare, ieri sera al Teatro della Caduta, mi tornavano alla mente le parole di Roger Blin quando racconta della prima messa in scena: «Beckett mi diceva :”non c’è nessun dramma in Finale di partita, da quando Clov dice la sua prima battuta […] non succede più niente. C’è un vago movimento, un sacco di parole, ma nessun dramma».

Questa versione di Teatrino giullare sembra smentire le parole di Beckett. Due giocatori mascherati si fronteggiano davanti a una scacchiera su cui sono posati i quattro personaggi: Hamm è il re, Clov l’alfiere, e i due bidoni della spazzatura contenenti Neg e Nell diventano due torri. Il dramma quindi se c’è, è nel gioco più violento mai creato (gli scacchi per chi non lo sapesse nascono da un fatto di sangue). Ma perché questi due personaggi stanno giocando? cosa li spinge? e soprattutto quali sono le regole? Non ci sono. Come nel Teatro grottesco di Thomas Ligotti, le cose accadono perché accadono, senza ragione alcuna, ma allora può esserci dramma?

I burattini vengono mossi sulla scacchiera al ritmo delle battute rendendo fisica la sensazione di trovarsi di fronte a una partitura musicale (e la volontà di Beckett era di fare emergere questo aspetto).

Il suono delle pedine mosse sulla scacchiera intervallate dalle pause, è controcanto alle parole che tratteggiano questo estenuante finale di gioco tra personaggi ormai allo stremo. Finita è finita, forse è finita. Sì, forse. Domani tutto potrebbe cominciare nuovamente. Clov e la sua valigia possono essere solo un ennesimo gioco crudele che non porta a nient’altro che a far passare il tempo.

Che ore sono? La stessa di sempre. Che tempo fa? Lo stesso di sempre. I finali negli scacchi sono matematici. Tutta la variabilità che può sconvolgere il medio gioco svanisce di fronte all’ineluttabilità del finale. Eppure è possibile dilazionare il tempo, si può protrarre l’agonia all’infinito in alcuni casi. E infatti Hamm lo ammette: potrei farla finita, ma non riesco. E qui torna in mente la massima di Roger Blin, che di Beckett curò le prime magistrali: «penso che a teatro esista una regola semplice, che in ogni forma di scrittura, classica o meno, deve rispettare: saper finire».

E se il finale di questo Finale di partita è aperto come quello di una serie televisiva, quello di Teatrino Giullare è suggestivo e improvviso: una piccola fiamma che illumina i resti del gioco sulla scacchiera e poi buio.

Visivamente affascinante questo Finale di partita di Teatrino Giullare che da molto tempo affronta la drammaturgia contemporanea (ricordiamo en passant le esplorazioni di Koltès, Bernhard, Jelinek etc.). I burattini sono evocativi dell’universo stantio di Beckett: un lenzuolo macchiato di sangue e pieno di polvere, i bidoncini della monnezza dove sono rintanati le larve umane dei genitori, la sedia a rotelle, persino il cane immaginario.

Qualche difetto nella drammaturgia vocale. La voce raschiata di gola di Hamm, o la caratterizzazione da cartone animato di Negg e Nell lasciano un po’ a desiderare. Forse l’aspetto vocale poteva essere esplorato in altro modo. Per esempio Hamm con una voce femminile avrebbe aperto scenari insoliti. Ma è un mio pallino: preferisco sempre il naturale all’artificio per quanto il teatro in sé sia un artificio. Amo quanto il confine si fa confuso, quando l’insolito, per le strane alchimie della scena, diventa assolutamente accettato e consueto, come se non ci fosse altra soluzione che quella esperita.

Anche nell’interpretazione qualcosa in più si sarebbe potuta fare soprattutto nell’esplorazione della profondità dei personaggi. Per esempio non si avverte il travaso di potere che gradualmente passa da Hamm a Clov. I due restano sostanzialmente identici in questa versione di Teatrino Giullare, mentre nell’originale beckettiano il bastone del potere passa lentamente dalla mano di Hamm a quella di Clov che infatti nel finale ha il facoltà di allontanarsi. A lui resta l’ultima mossa a noi sconosciuta. Così come il tono delle chiamate di Hamm passa da imperioso a supplicante ma che in questa versione si manifesta solo nell’affievolirsi del suono del fischietto.

Buono invece il ritmo che rende esplicita e incessante, perfino nelle pause, la violenza dei colpi scambiati tra Hamm e Clov. Una lotta senza quartiere, lotta che si ripete ancora e ancora, è quella che avviene tra le quattro mura o, in questo caso, tra i quattro lati che delimitano la scacchiera.

Questo Finale di partita di Teatrino Giullare è lavoro pieno di luci e ombre, godibile e intenso, seppur attraversato da vistose contraddizioni tra ottime riuscite e buone intenzioni che restano a livello larvale.

Ph@ Rosalba Amorelli

Premo Ubu

PREMIO UBU 2017: alcune brevi considerazioni

L’anno si sta chiudendo ed è tempo per tutti di bilanci. Il teatro non si esclude da questa tradizione e come di consueto il Premio Ubu permette alcune riflessioni sullo stato delle cose nell’ambito teatrale.

Premetto da subito che le considerazioni che seguono non criticano la qualità dei lavori o dei performer premiati. Per esempio il riconoscimento della qualità delle interpretazioni di Christian La Rosa o di Claudia Marsicano sono ineccepibili, così come i due premi nelle categorie miglior performer e miglior progetto sonoro a Cantico dei Cantici di Roberto Latini (per la lista completa dei premi rinvio al sito del Premio Ubu http://www.ubuperfq.it/fq/index.php/it/premi-ubu/premio-ubu-2017/vincitori-ubu2017 ). Le considerazioni che seguono riguardano più che altro l’immagine produttivo-distributiva del nostro teatro.

Se prendiamo in oggetto gli ultimi cinque o sei anni, ossia dal 2012 al 2017, scopriamo dei dati interessanti. Latella vince premi nel 2012, 2013, 2016 e 2017, Latini nel 2014 e 2017, Civica nel 2015 e 2017 e infine Ronconi nel 2013 e 2015 (i premi riguardano esclusivamente le categorie Miglior regia, Miglior spettacolo e Miglior performer).

La ricorrenza di questi nomi, garanzia per altro di alta qualità, indica cose interessanti soprattutto per quanto riguarda l’aspetto produttivo (in quasi ogni caso sono coproduzioni con a capo fila un teatro stabile) e distributivo (il sistema referendario del premio inevitabilmente premia i lavori che circuitano di più).

Se per esempio allarghiamo il periodo storico di osservazione partendo dalla sua fondazione a oggi, ossia dal 1977 (questa era l’edizione del 40esimo) troviamo Ronconi premiato in ben diciotto occasioni, Tiezzi in dieci, Carmelo Bene in otto, Castri in otto. Questi non sono gli unici nomi a ricorrere negli anni troviamo anche Martinelli/Montanari, Castellucci, Armando Punzo, Barberio Corsetti.

Quello che risulta da questa incompleta disamina (questo è un articolo breve e per sua natura lapidario) è una sorta di monopolio costituito da produzioni legate ai Teatri Stabili e alle coproduzioni internazionali che gioco forza sono quelle ad avere un potere economico e distributivo più forte e che quindi catalizzano l’attenzione. Gli outsider difficilmente trovano spazio se non in rare occasioni. Ricordo che il sistema di votazione è referendario, critici sparsi in tutto il paese votano e gioco forza gli spettacoli che girano di più, al di là della loro qualità, sono quelli più visti e più votati.

Per le compagnie indipendenti e giovani entrare in questo circuito produttivo e distributivo diventa difficilissimo. E questo comporta un difficile ricambio che genera le ricorrenze che abbiamo rilevato.

Se poi prendiamo in considerazione sempre nel quinquennio 2013-2017 il premio Ubu al miglior spettacolo straniero visto in Italia, possiamo notare un altro dato interessante che ci permette di fare altre considerazioni sulla filiera produttiva e distributiva del nostro paese. Negli ultimi cinque anni se si esclude il 2013 con la vittoria di Odyssey di Bob Wilson, vincono sempre spettacoli di area tedesca: Marthaler 2014 e 2015, Jan Fabre prodotto dal Berliner Festspiele nel 2016, Milo Rau nel 2017, con le She She Pop finaliste nel 2013 e 2015.

Questo primeggiare di opere provenienti da Svizzera e Germania si spiega non solo per un potere economico maggiore ma anche per una più saggia politica produttiva e distributiva che ha permesso un ricambio generazionale e l’emersione di giovani di talento. Per un artista svizzero alle prime armi, per esempio, è molto più facile, grazie a sostegni appositi previsti dai Cantoni, dalle Lotterie, dalla società per i diritti d’autore elvetica SSA, da festival e da teatri, una maggior circuitazione e una possibilità produttiva in Italia impossibile.

Milo Rau per esempio riesce a produrre lavori di alto livello e ampiamente sostenuti a partire già dal 2007 quando aveva solo trentanni. Ma il suo caso non è l’unico.

In Italia un giovane che non entra nei circuiti privilegiati difficilmente trova, non solo una produzione all’altezza, ma una distribuzione che gli permetta un sopravvivenza a lungo periodo. Per esempio gli Omini, o il Collettivo Controcanto, o Marco Chenevier hanno molte meno possibilità di essere visti di quanto meriterebbero perché difficilmente un programmatore o un direttore artistico punterebbe su di loro non avendo grandi possibilità di richiamare pubblico o stampa.

È ovvio che questo è un serpente che si morde la coda. Meno si punterà sugli sconosciuti di talento, meno possibilità avranno di emergere e sempre più vedremo premiati gli stessi nomi. È ora che si inverta la tendenza se vogliamo che il nostro teatro e la nostra danza ritrovino qualità e contenuti. È necessario riformulare le nostre filiere produttive e distributive, occorre formare figure che si occupino della vendita degli spettacoli, così come i direttori artistici si assumano dei rischi. Se questo non avverrà al più presto la qualità del nostro teatro e della nostra danza sarà sempre meno incisiva nei confronti dei pari età esteri che vivono situazioni meno difficoltose per l’emersione del loro talento.

Un ultima considerazione: la notizia del premio Ubu 2017 è stata a dir poco ininfluente sulla grande stampa. Se ne occupa per lo più quella web e specializzata. E questo è un segnale preoccupante della rilevanza che le arti sceniche hanno nel contesto culturale italiano. Il vero dramma è che nemmeno come controcultura è incisiva. Le arti sceniche in questo paese faticano a trovare un ruolo e una funzione e anche su questo aspetto andrebbe spesa più che una riflessione.

Anne Teresa De Keersmaker

A LOVE SUPREME: di Anne Teresa De Keersmaker

A love Supreme è non solo un capolavoro del Jazz, ma è un sublime incontro con il divino. Una preghiera accorata di John Coltrane in forma di suite in quattro parti: Acknoledgement, Resolution, Pursuance e Psalm. Anne Teresa De Keersmaker si confronta con questo sentiero accidentato, angosciato, profondamente sentito intrecciando alla musica la sua coreografia in un perfetto ed estatico contrappunto.

A love supreme di Anne Teresa De Keersmaeker con Salva Sanchis del 2005 ripresa in questo 2017 in occasione dei cinquantanni dalla morte di John Coltrane e andata in scena il 13 dicembre alle Lavanderie a Vapore.

Un prologo silenzioso prepara il terreno alla fusione di musica e movimento. Un luogo silenzioso costellato di frasi danzate che è preghiera prima della preghiera, dove il respiro, le prime gocce di sudore, il suono dei piedi che strisciano e battono il palco sono preludio di una musica che è attesa, agognata, evocata.

L’assetto della coreografia di Anne Teresa De Keersmaker è combinazione di struttura e improvvisazione che si impasta perfettamente con il Jazz di Coltrane. I quattro danzatori diventano strumenti fisici in movimento, quasi impersonando sax, basso, piano e batteria. Gli assoli emergono dal background, i riff, le improvvisazioni che si intrecciano alle parti composte: il suono si manifesta visibile aprendo la possibilità di emersione di sensi imprevisti e imprevedibili.

Ma quello che si vede non è un semplice calco. È dialogo, un botta e risposta, contrappunto di armonie e dissonanze, di ritmi e velocità. È composizione nella composizione. Il sostegno dei corpi e degli sguardi ricrea il sottile seppur intensissimo ascolto che lega i musicisti jazz. Un ascolto che permette gli inserimenti, l’emersione degli assoli nel quartetto, le possibilità di improvvisare, seguire, sostenere, abbracciare i temi e i loro sviluppi.

Il quarto e ultimo movimento, il salmo costruito sulla preghiera scritta da Coltrane rende ancor più manifesta questa tessitura delicata seppur solidissima: le mani che sostengono, i corpi lanciati verso l’alto, le mani che spingono e slanciano rendono visibile e corporeo quanto si ascolta nella musica, laddove il sassofono viene innalzato e sostenuto dal terreno sonoro della batteria, del contrabbasso e del pianoforte. Ed ecco che ritornano le frasi del pezzo silenzioso, un loop ripetuto e variato che chiude il cerchio perfetto di questo magico connubio tra Anne Teresa De Keersmaker e John Coltrane.

A love supreme è un magistrale saggio di composizione, ma non solo. È espressione di un dialogo virtuoso tra danza e musica dove nessuno è ancella di nessuno, dove la danza non è semplice clone della musica e quest’ultima non è semplice tappeto o colonna sonora della danza. Due anime che si intrecciano in una tessitura contrappuntistica di eccezionale maestria.

A love supreme di Anne Teresa De Keersmaker è anche un inno alla libertà, quella che si può trovare solo nella struttura. Libertà che necessita dell’assorbimento della regola e della costrizione tanto da padroneggiarla nella variazione e trovare la via di fuga. Un non essere soggetti alla regola e alla struttura perché si è diventati regola ed eccezione insieme. Padroni del linguaggio si crea linguaggio a propria volta, liberi di esplorare le possibilità e le variazioni perché si conosce alla perfezione lo spazio di azione, i confini dell’universo che si abita.

Questo essere tecnica per andare al di là della tecnica, che le nuove generazioni spesso dimenticano e tralasciano, è percorso lunghissimo, fatto di studio matto e disperatissimo, di fatica immensa che sparisce nel risultato che fa apparire l’opera semplice e fatta quasi senza pensarvi. E accordandomi a Baldassarre Castiglione, da questo cred’io che derivi la grazia.

Stalker Teatro

STALKER TEATRO: Onirico, il fiume dell’oblio

Onirico, il fiume dell’oblio è un progetto di Stalker Teatro realizzato nell’ambito del Festival LiberAzioni e che va in scena all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cotugno fino al 15 dicembre prossimo.

Il teatro carcere ormai da molti anni è una realtà italiana che ha prodotto risultati anche di altissimo livello se pensiamo al Marat/Sade e la Gatta Cenerentola di Armando Punzo, ma che non si limita a quanto di buono ha fatto la compagnia di Volterra (pensiamo al Tam Teatromusica di Padova per esempio, e con lui molti altri). Teatro di confine, teatro fuori dal teatro, dove la vita stessa si fa dramma, vive anche sul limine tra retorica buonista e necessità di affermazione e riscatto. La condizione carceraria italiana è da molti anni drammatica, realtà da sempre dimenticata perché in fondo “se la sono cercata” ma che è specchio di una società che alza il tono del conflitto sociale anziché risolvere ciò che agita la comunità.

I detenuti sono dimenticati, rimossi, simbolo spesso di un male le cui cause sono negli alti uffici del potere economico, libero e indisturbato di creare danni sociali incalcolabili e di distruggere interi contesti sociali nel lucore sinistro ammantato di rispettabilità. Certo vi è sempre la libera scelta, non è che tutto sia determinato dai contesti, ma certo è che spesso il reato è frutto di povertà.

Ecco dunque il presupposto per la riflessione in azione di Stalker Teatro. Il Lete, mitico fiume che compare nel decimo libro de La Repubblica di Platone nel mito di Er, dona l’oblio alle anime pronte, dopo aver scelto il proprio destino, a reincarnarsi in una nuova vita. Gli Orfici raccomandavano di non berne troppa per poter ricordare. Chi beveva avidamente dimenticava completamente il suo passato.

Da questo presupposto Gabriele Boccaccini parte per costruire un evento che coinvolge un gruppo di detenute insieme ai performer di Stalker Teatro. I detenuti tutti sono obliati dal momento che varcano le porte del carcere. Nascosti alla vista del mondo attendono il momento in cui possono reinserirsi nel fiume della vita.

All’interno di questa azione che simula il fluire di un immenso fiume si gioca l’abbraccio tra i due opposti, tra Lete e Mnemosine, oblio e ricordo. L’affermazione dell’identità di questi scomparsi della società avviene nella lotta contro il muro dell’oblio che li tiene segregati. Le parole delle detenute, le loro azioni, sono volte al recupero del ricordo tanto quanto all’oblio di ciò che è stato fatto.

Memoria e oblio stretti in un abbraccio che è lotta, un pugnace avvinghiarsi per non scomparire, un feroce abbraccio per dimenticare che è di ogni avventura umana. Il baratro della scomparsa dalla memoria legato alla dolce tentazione di tutto dimenticare, ecco il pendolo fatale di ogni esistenza che si fa più struggente per chi è racchiuso tra quattro mura separare dal contesto della società.

L’azione di Stalker teatro, azione sempre comunitaria, di gruppo, dove l’assolo difficilmente compare, è atto politico di abbraccio al contesto sociale in cui il teatro si trova a vivere. Che siano gli abitanti de Le Vallette, un gruppo di rifugiati, o le detenute della Casa Circondariale Lorusso e Cotugno, Stalker Teatro agisce il suo corpo teatrale all’interno e in sincronia con quello sociale. Un teatro quindi necessario, che cerca l’incontro, la prossimità, la vicinanza. Valori alti che fanno il teatro vivo al di là di quel poco di retorica che sempre accompagna queste operazioni.

Marco Chenevier

QUESTO LAVORO SULL’ARANCIA di Marco Chenevier

Sabato 2 dicembre alla Dancehaus di Milano nell’ambito del festival Exister è andato in scena Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier con Alessia Pinto, spettacolo di estrema intelligenza e acume, che presenta la danza non come oggetto da ammirare ma piuttosto come esperienza che interroga, filosofia in azione, prassi del pensiero attraverso il corpo in movimento.

Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier comincia con la distribuzione di un welcome kit. Contiene vari e semplici oggetti: un’arancia, un foglio di carta A4, una pallina di carta, una galatina. Si intuisce subito che non si sarà spettatori passivi ma che in qualche modo si finirà per partecipare, ma è difficile prefigurare quanto sta per avvenire.

Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier si configura da subito come un dispositivo di crudeltà. A partire dalle due scene propedeutiche una voce spiega le regole del gioco al pubblico che ha il potere di fermare o meno quanto avverrà sulla scena. Il danzatore tirerà uno schiaffo alla danzatrice a meno che voi non lo fermiate col dissenso. A partire da questo punto il percorso diventa chiaro: è necessario prendere posizione, perfino l’astenersi è di fatto un gesto attivo e politico, una scelta.

Il pubblico è immerso in una trappola, è preso al laccio, diventa vittima e carnefice, dall’istante in cui accetta di restare e partecipare all’esperienza.

Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier contiene già nel titolo un indizio ulteriore per mappare questo territorio che via via, scena per scena, si sta costruendo davanti a noi: un’arancia, un bicchiere di latte, l’amatissimo Ludovico Van e una bella dose di ultraviolenza. Non serve lambiccarsi troppo il Gulliver per capire che l’universo evocato è quello di Arancia Meccanica e capire che quello che stiamo per subire è un vero e proprio trattamento Ludovico.

Una voce anonima da navigatore ci guida passo per passo verso un’escalation, proponendo nuove e più atroci prove: una serie di volontari sale sulla scena. Si trovano davanti a una scelta: il danzatore è intollerante al lattosio è ha in mano un bicchiere di latte. Si può fermarlo o farglielo bere per intero e in questo caso si vincono 5 € (poi 10€ fino a 20€). C’è chi lo ferma e chi no.

Altre prove si accumulano seguite da intermezzi in cui sempre la voce indica regole e procedure di intervento. Possiamo fermare la scena quando vogliamo lanciando pallette di carta o aereoplanini. Se uno solo lo fa vince dei soldi, se più di uno nessuno vince nulla. E anche in questo caso scatta una forma di crudeltà: si permetterà all’uno di vincere il danaro? Oppure proveremo a impedirglielo?

Ma arriviamo al finale in modo da non svelare tutto il processo di accumulo che In questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier porta ad accrescere la partecipazione e a alzare l’asticella di intervento del pubblico su quanto andrà ad avvenire sulla scena. Si allestisce un ambiente: una piccola piscina, un tavolo, vari bidoni di latte, dei secchi che vengono riempiti di latte, del ghiaccio in cubetti che viene gettato nei secchi di latte. Tutto bianco ospedaliero e luce abbacinante.

Si chiede al pubblico nuovi volontari disposti a spogliarsi in intimo ed entrare nella piscina. Il primo per 5€, il secondo per 10€ fino a 50€. I volontari si prestano, si spogliano ed entrano nella piscina e il pubblico può sempre scegliere se farglieli vincere oppure no. I danzatori a loro volta eseguono azioni sui malcapitati. Cosa sei disposto a fare per 5€? cosa sei disposto a fare per non farli guadagnare?

E infine la tortura finale. Un’urna, nella quale all’inizio dello spettacolo vengono raccolte delle offerte per la grande estrazione finale, viene portata in scena, così come un coltello e un cesto di arance e un piccolo cerchio nero di non più di un metro di diametro che viene posto in proscenio. Chi vuole vincere il danaro deve mettere il suo nome nell’urna e spremere negli occhi della danzatrice, legata e imbavagliata, il succo dell’arancia. Inoltre il danzatore versa su di lei i secchi di latte ghiacciato (chiaro il riferimento alla violenza sulla donna). Chi vuole impedire l’atto violento deve entrare nel cerchio e lì rimanervi dopo aver lanciato sul danzatore l’arancia contenuta nel welcome kit. Dopo sedici centri l’azione crudele si interrompe e nessuno vince; oppure può lanciare nella piscina il suo aereoplanino di carta, ma sono necessari sessantacinque centri per interrompere l’azione. Altre scelte sono possibili: stare a guardare e godersi lo spettacolo, oppure reagire infrangendo le regole.

E avviene di tutto: si fa la fila per spremere negli occhi della danzatrice inerme le arance, si viola le regole lanciandone più di una sul danzatore (azione inutile che non porta al blocco dell’azione), c’è chi entra in scena e sottrae degli oggetti per sabotare il carnefice. C’è chi seduto in scena urla consigli, inneggia, oppure inorridisce impotente. I più cercano di lanciare gli aereoplanini nella piscina non riuscendovi per la grande distanza, e quanto è inutile l’atto in sé di fronte a tanta violenza. E pure inutile aver lanciato l’arancia e restare impotenti e pigiati sul disco nero.

C’è un’opzione non considerata da nessuno: impedire l’azione con una scelta consapevole.

In questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier si costruisce un meccanismo di tortura che mette in scena la banalità del male. Tutti partecipano, tutti costruiscono il dispositivo, tutti in qualche modo sono complici del suo svolgimento, in quanto anche la ribellione in qualche modo viene disinnescata dall’inutilità dell’atto in sé. E infine si compie un percorso di mercificazione, si viene pagati per soffrire e far soffrire, si stabilisce un patto economico per subire o partecipare a un atto scellerato. Il tutto è condito da una forte dose di ironia e dimostra ancor di più che si può ridere e sorridere ed essere dei furfanti non solo in Danimarca.

Esperienza e non oggetto questo spettacolo, erlebenis che porta a galla, fa emergere dal profondo le nostre nature violente. E pone quesiti, domande scomode su se stessi e sulla società in cui si vive, società dello spettacolo in cui in massima parte esposta è la violenza e la crudeltà, violenza generata e provocata in prevalenza dal mercato.

Carnefici e prostitute, osservatori voyeur disgustati seppur eccitati, vittime condiscendenti. Meccanismo sadomaso, specchio bisturi dell’anima nera di tutti noi, Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier è spietato, non concede facili assoluzioni seppur non esprima giudizi. È semplicemente Teatron, il luogo da cui si guarda il mondo e se il mondo non piace non resta che cambiarlo, se l’immagine disgusta basterebbe distogliere lo sguardo da quello di questa scena medusa che anziché pietrificare scatena.

Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier ricorda esperienze analoghe messe in atto da Ivo Dimchev (penso ad esempio a P Project), performer geniale che chissà perché frequenta pochissimo le scene italiane, e pone interessantissime questioni riguardo le funzioni e le modalità della scena. Superato il concetto di oggetto si giunge a un processo immersivo, in cui quanto avviene in scena è scelta non solo dell’autore ma anche del pubblico che non solo partecipa ma agisce. È esperienza che conduce all’emersione di una consapevolezza di sé, è specchio che restituisce l’immagine che noi vogliamo proiettarvi, è teatro crudele che scatena la peste, che incide il bubbone, è danza di Dioniso dio di tutte le contraddizioni.

Ph.@Stefano Mazzotta

Mejerchol'd

FUGHE DAL TEATRO: Mejerchol’d e i padri fondatori alla ricerca di nuove funzioni per l’arte scenica

Il 25 ottobre 1917 si compie l’assalto del Palazzo d’Inverno e inizia per la Russia una nuova epoca. Pochi giorni dopo si tenta l’impresa di assaltare anche il palazzo del teatro tradizionale. Lunačarskij, commissario per l’istruzione del nuovo governo, convoca “tutti i rappresentanti delle arti disposti a collaborare”. C’era da costruire qualcosa di nuovo, di sicuramente inedito. Risposero solo in cinque tra cui Blok, Majakovskij e Mejerchol’d.

L’adesione al nuovo corso rivoluzionario attirò su Mejerchol’d le ire e le antipatie di molti colleghi dell’Aleksandrinskij, tanto che in pochi mesi si consumerà la rottura completa. Mejerchol’d nutriva già da tempo una certa insofferenza per i teatri tradizionali che, a suo dire, non rispondevano alle esigenze nuove dei tempi.

Nell’abbracciare l’avvento della rivoluzione Mejerchol’d ne inizia una sua personale per un nuovo teatro che recuperasse nella tradizione gli elementi per giungere a un rinnovato linguaggio. Attraverso una diversa figura di attore si prefigurava un uomo diverso, attraverso il teatro si costruiva un’idea inedita di società.

L’uscita di Mejerchol’d dal teatro tradizionale, il suo impegno verso la pedagogia e l’insegnamento, la visione etico-politica che accompagna il suo agire artistico è comune a molti padri fondatori.

Il rifiuto di canoni pletorici e stantii non ha portato Copeau prima a spostarsi sulla Rive Gauche e poi in Borgogna con i Copiaus? E lo stesso, seppur con le dovute differenze, non si potrebbe dire di Max Reinhardt per il Grosse Schauspielhaus?

L’ansia riformatrice dei padri fondatori parte dall’esigenza di riformulare il teatro tradizionale avvertito come ente da rimodulare, ma coinvolge la visione di un uomo nuovo e una società diversa. E non è un caso che molti abbiano avvertito l’esigenza, nel costruire questo teatro del futuro, di uscire dall’edificio-teatro per iniziare nuovi percorsi produttivi e creativi, per incontrare un pubblico diverso, agire inconsuete strategie.

Pensiamo al teatro agitprop nella Repubblica di Weimar, dalle Riviste Rosse di Piscator a Brecht, al russo Proletkul’t, al Theatre du Peuple di Romain Rolland in Francia e il già citato Copeau. I teatranti e i danzatori cercano formule, stimoli e nuovi pubblici utilizzando strategie diverse ma tutte mirate alla riformulazione di un teatro che sfugga alle catene della tradizione e attraverso quest’azione prefigurare un’idea di uomo adatto a una società in via di costruzione.

E non è un caso che la maggior parte di questi esperimenti si siano svolti di pari passo a un’azione pedagogica che fornisse al nuovo attore o danzatore strumenti adeguati. Laban a Monte Verità, i teatri laboratorio di Vachtangov e Mejerchol’d a Mosca, il Bauhaus e tanti altri cercano di formare una figura rinnovata e rimodellata di attore o danzatore.

Si cerca anche un pubblico in categorie sociali spesso abbandonate o non considerate. Si scende nelle piazze e nelle fabbriche, nei cabaret e Café Chantant, ci si rifugia in comunità chiuse così come ci si apre nella condivisione nelle varie comuni che attraversano il continente. Si scende persino nelle trincee, nei manicomi, negli ospedali, nelle carceri. L’unico luogo che sembra tabù pare sia proprio l’edificio teatrale, simbolo di un mondo e di una tradizione che si vuole abbandonare.

Utopie riformatrici, illusioni, battaglie perse e vinte. Persino vittime, si pensi al povero Artaud.

Queste tensioni alla riformulazione dei codici non si placano con il dopoguerra, anzi rifioriscono un po’ dovunque in Europa e negli Stati Uniti e ancora una volta si esce dal teatro per costruirne uno nuovo. Cage e Cunningham al Black Mountain College e poi alla New York School for Social Research, ed ecco esplodere una nuova danza, il Living Theatre e il movimento Happening prima e Fluxus poi.

Grotowsky e l’Odin Teatret in Europa costruiscono interi sistemi di training per attori ma si preoccupano di affiancare alla tecnica una visione del mondo e della società, così come la scuola del Piccolo di Milano con Strehler e Paolo Grassi. E questo solo per citare alcune realtà note, ma la lista è lunghissima.

Quanti nomi e quanti protagonisti in questa onda che attraversa il ‘900. Se c’è un filo rosso comune a tanta diversità resta quanto espresso in maniera lucida da Jacques Copeau: «Il rinnovamento del teatro, che tante epoche hanno sognato e che oggi non si cessa di invocare mi apparve in primo luogo un rinnovamento dell’uomo nel teatro».

Non solo pensiero artistico legato al proprio linguaggio espressivo ed estetico, ma ansia etico-politica, consci del fatto che il teatro, come la danza o la performance sono fatte dall’uomo per l’uomo, all’interno di una comunità, piccola o grande che sia.

Ripensare le funzioni significa innanzitutto cercare un ruolo all’interno della società, condividerlo con il pubblico che si incontra, confrontarsi con la comunità, addirittura scontrarsi.

E così fino ai giorni nostri il teatro sfugge al teatro e cerca di formare gli abitanti di questo edificio in perenne costruzione.

Ma qualcosa in questo filo rosso si è spezzato. Nelle nostre società così sfilacciate, demotivate, lontane da una vera azione politica che prefiguri un’idea di uomo e di comunità, anche l’arte si chiude in se stessa. Certo non dappertutto, non in maniera univoca e uniforme, ma certa è la tendenza a un generale ripiegamento a strategie di sopravvivenza sia da parte dei festival, che delle istituzioni e soprattutto da parte degli artisti.

Più che il gran teatro del mondo si assiste a un progressivo richiudersi nel personale, nel proprio vissuto problematico. Quando c’è apertura verso l’esterno difficilmente si procede oltre la cronaca senza creare un’immagine che apra un immaginario comune, anche perché spesso si tratta di certe tematiche per sperare nell’assegnazione del bando di turno. Senza ansia rinnovatrice difficilmente si scoprono nuovi linguaggi e nuove formule e si finisce per reiterare modelli vincenti ancorandosi ad essi come a dei feticci. A volte addirittura si riproducono inconsapevolmente, arrivandoci per caso.

E così il pubblico difficilmente si riconosce in opere che per lo più non parlano se non a se stesse. Il loro carattere inoffensivo le fa ideali laddove non si vuol creare dibattito ma limitarsi a passare la nuttata. Civica e Scarpellini ne La Fortezza vuota delineano meglio di me un sistema che non produce il nuovo anzi mira a comprimerlo e contenerlo.

Le volte che ho provato, attraverso questo blog, a cercare con i miei poveri mezzi di riaccendere un dibattito sui temi delle funzioni del teatro e della danza in un nuovo contesto sociale, le reazioni sono state per lo più avverse e proprio da parte degli artisti. Il che mi fa non solo intristire ma credere che in fondo la tanto temuta morte del teatro alla fine si sia presentata. Toccherà attendere una nuova rinascita. Come nei numeri dei clown si muore per finta, per risorgere, per continuare un ciclo, in un eterno ritorno senza fine. Bisogna sperare che sorgano nuovi padri fondatori che pensino un uomo e un teatro nuovo o forse semplicemente evocare un Padre Ubu che con la sua immensa pancia scuota tutto, abbatta tutto e poi anche le rovine affinché si ritorni a pensare a nuove funzioni per un teatro e una danza che le hanno perse per strada, e da quel punto provare a rinnovarle e a rinnovarci, riscoprendo tensioni etiche e politiche nel lavoro d’artista e tornare a incontrare il pubblico in una comunità.