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Dario Franceschini

LETTERA APERTA AL MINISTRO DARIO FRANCESCHINI

Gentile On. Ministro Dario Franceschini,

mi permetto di scriverle queste poche righe in seguito alla decisione, inserita nell’ultimo DPCM, di chiudere i teatri e i cinema considerandoli attività non essenziali. Mi rivolgo a lei cercando, nel mio piccolo di storico del teatro, di farle comprendere come in realtà proprio il teatro sia stato, nei momenti più drammatici della storia recente, l’attività umana tra le più necessarie. Mi permetta di farle pochi ma significativi esempi: in Russia tra il 1917 e il 1922, in una nazione alle prese con la Rivoluzione d’ottobre, la fine della Prima Guerra Mondiale e la seguente guerra civile, immersa in una crisi economica senza precedenti, si trovò proprio nel teatro e per opera di artisti straordinari come Stanislavskij, Mejerchol’d, Vachtangov, Ejsenstein, Tairov, un luogo dove immaginare un futuro e un mondo. E il pubblico non mancava perché sapeva di poter trovare in mezzo a tanti drammi un luogo dove tutto poteva essere ripensato. E poi durante l’Olocausto il teatro accompagnò gli ebrei nei campi di sterminio, non solo ad Auschwitz, ma a Dachau, Theresienstadt, Sachsenhausen, Malines, Westerbork. In quasi ogni campo i prigionieri, immersi nel più grande male che l’uomo abbia commesso, trovavano conforto nel teatro, e questo proprio laddove non avevano niente, nella più assoluta fragilità. Da ultimo le ricordo che nella città di Sarajevo assediata i teatri rimasero aperti e frequentati nonostante i bombardamenti e i cecchini cetnici e questo perché, caro ministro, fin dalle origini dell’Occidente, all’alba radiosa della grecità, il teatro è stato il luogo primario della nascita dell’agorà, dove la comunità si riuniva per metabolizzare le crisi che la attraversavano.

Necessari il teatro e la danza lo sono, come vede, fin dal principio, e li troviamo presenti nei luoghi di maggior dolore e complessità della storia recente. Questa necessità Signor Ministro la può constatare non tanto nei teatri stabili o dei teatri lirici, ma soprattutto delle piccole realtà, quelle di periferia e di provincia, spazi in cui si ritrova spesso la vita socio-culturale delle comunità. Gli artisti della scena sono presenti, infatti, nei presidi culturali di tutte le città italiane nel lavoro indefesso e costante con le categorie più deboli: con i malati, gli anziani, i giovani, i carcerati, gli immigrati. Vuole veramente dirci, signor ministro, che questo lavoro sia inutile o sacrificabile per la società? Non le pare piuttosto che in questo drammatico frangente della storia nazionale, avere un luogo dove poter riflettere, metabolizzare, rielaborare, tutto quanto ci sta accadendo sia invece salutare per lo spirito e le menti della cittadinanza tutta? Il teatro è un luogo sicuro perché l’intero comparto ha cura dei propri spettatori, parte fondamentale del processo creativo, specchio in cui riflettere e rifletterci, senza i quali la nostra arte non avrebbe senso di esistere. Il teatro è necessario perché è una delle cellule base su cui è costruito il corpo sociale e dove, a ogni rappresentazione, si ricostruisce simbolicamente tale corpo. Far mancare l’ossigeno a questa cellula mette a grave rischio l’intera nostra comunità nazionale.

Signor Ministro chi le scrive sa che le parole spese saranno probabilmente inascoltate, che voci più autorevoli della mia verranno ignorate sotto la bandiera della salute pubblica, ma rammenti, la prego, che non di solo pane vive l’uomo, che il nutrimento dello spirito e delle menti è necessario come l’aria che si respira. Certo il teatro non morirà oggi, non per la sua serrata, essendo sopravvissuto a millenni di sciagurata storia umana, ma certo la maggior parte di chi oggi si occupa di quest’arte meravigliosa sarà costretta a immensi sacrifici, molti dei quali si dimostreranno inutili, e molti si troveranno costretti non solo a sospendere, ma a chiudere la propria attività e da questo deriverà una desertificazione culturale di interi quartieri e territori. Avremmo sperato che lei Sig. Ministro si battesse per le categorie di cui il suo Ministero avrebbe dovuto occuparsi. Invece l’intera categoria si sente abbandonata perché Lei non ha nemmeno preso in considerazione la profonda necessità del nostro operare in seno alla comunità. Ci ha considerati inutili e superflui. Per questo, la prego, si dimetta e faccia come i nobili comandanti che affondano con la nave loro affidatagli, condivida così almeno simbolicamente i nostri non piccoli sacrifici.

sua maestà l'algoritmo

PERICOLI DIGITALI: L’IMPERO DEI NUMERI E SUA MAESTÀ L’ALGORITMO

:«Conterò poco, è vero – diceva l’uno ar Zero – Ma tu che vali? Gnente: proprio gnente». Così diceva Trilussa. Eppure uno e zero, da poco e “gnente”, son diventati tutto. E non solo loro. Ci siamo messi tutti a dare i numeri: quelli dei morti, dei sopravvissuti, dei disoccupati, dei nuovi poveri. Numeri freddi, solidi e sfacciati, privi di pietas, senza storia né dolore, buttati lì senza riguardo alcuno. E poi i numeri teatrali, quelli che contano ancora meno di “gnente”: quelli del pubblico, delle repliche, dei borderò, e ora, alla fine di questa corsa senza ragione, i numeri delle visualizzazioni. A questi numeri brutali ci inchiniamo convinti dal pensiero economico che sian tutto: «con dati sufficienti, i numeri parlano da soli», diceva Chris Anderson su Wired.

È l’imperio del pensiero computazionale, il dominio assoluto del pensiero algoritmico portato dal neocapitalismo digitale che ha infestato ogni campo dell’umano agire patire. Abitiamo il tempo dalla Datafication, dell’ingegnerizzazione della vita quotidiana, un mondo del numero in cui non esiste alcuna etica, se non quella della crescita.

Nei Principi di organizzazione scientifica del lavoro del 1911 Frederick Taylor aveva già impresso il marchio ai successivi sviluppi di questo pensiero. Ecco i suoi sei assiomi nella loro adamantina evidenza: unico e principale obiettivo del lavoro è l’efficienza; il calcolo tecnico è sempre superiore al giudizio umano; il giudizio umano non è affidabile; la soggettività è un ostacolo; tutto ciò che non si può misurare non esiste o comunque non ha valore; gli affari dei cittadini devono essere guidati da esperti.

Frrederick Taylor

Tale assiomi non solo sono stati implementati nel capitalismo fordista ma rinnovati e riadattati nell’industria digitale neocapitalista, pensiamo ai lavoratori di Amazon, umani robotizzati e spinti al limite della nevrosi, e in particolare da Google che tutto quantifica e per cui i dati sono tutto. Inoltre tali principi hanno sconfinato in ambiti all’economia distanti, per esempio quello artistico, e sono divenuti i veri dittatori di un pensiero culturale dove, in tutta teoria, dovrebbe annidarsi una piccola scintilla di opposizione al pensiero unico e fideistico nell’onnipotenza del numero.

Ma i numeri dicono davvero sempre la verità? Sono veramente questa potenza oggettiva e inconfutabile? Davvero quello che è zero oggi, inqualificabile, merita di non essere nemmeno indicizzato? Vogliamo davvero creare e abitare un mondo culturale la cui logica algoritmica favorisce l’omologazione e le echo chambers piuttosto che il confronto con il diverso e l’inaspettato?

L’impero dei numero è governato da molti sovrani dal potere assoluto: gli algoritmi, enti oramai semidivinizzati ma per niente neutrali e super partes. Sono creati dagli uomini e si portano dietro i perenni umani difetti. Come dice Kelly McBride del Paynter Institute: «gli algoritmi sono pezzi di codici che prendono decisioni e in ogni decisione che prendono danno la priorità ad alcune informazioni rispetto ad altre» e ancora :«Le aziende che scrivono gli algoritmi possono, nella migliore delle ipotesi, contribuire alla diminuzione dello spettro delle idee e dei punti di vista, tralasciando alcune informazioni e dando la precedenza ad altre, Nella peggiore, invece, possono usare i codici per filtrare alcuni pezzi di informazione e così arrivare a influenzare l’opinione pubblica». Il caso Cambridge Analytica avrebbe dovuto far risuonare più di un campanello d’allarme.

Brittany Kaiser, nella sua biografia in cui racconta l’esperienza in Cambridge Analytica, illustra con chiarezza i principi del capitalismo digitale basato sul modeling, tecnica scientifica che serve a prevedere il comportamento degli individui, sull’analisi dei dati (che continuiamo a fornire gratuitamente ogni giorno scegliendo un film, scrivendo un post o cercando un indirizzo su Google maps), e sul microtargeting comportamentale, attraverso cui si confezionano messaggi specifici creati per certi tipi di personalità attentamente individuati tra gli utenti. Gli effetti di queste operazioni non sono paragonabili alla semplice pubblicità in cui a furia di vedere una bottiglia di Coca Cola ci vien voglia di comprarla, qui si tratta di prevedere il comportamento degli individui, di orientarli e indurli a compiere determinate scelte. Creare insomma le condizioni che portino il pubblico a comportarsi come ci si aspetta che facciano. O diano il loro voto a questa piuttosto che quella fazione politica. Questo è già avvenuto per importanti elezioni, mettendo a rischio e in dubbio il concetto stesso di democrazia.

Brittany Kaiser

Vogliamo veramente importare questo pensiero e tali processi in campo culturale? Se qualcuno pensasse che sia un pensiero complottista o esagerato invito a considerare che uno dei motti di Cambridge Analytica era: la soluzione è nel pubblico, pensiero che, guarda caso, si sente ripetere negli ultimi anni come un tormentone da qualsiasi ente finanziatore in ambito culturale, sotto la bandiera audience engagement o audience development.

In questi mesi di lontananza dai teatri e dai palcoscenici, le arti dal vivo si sono precipitate nel mondo digitale, unico luogo pronto ad accogliere ciò che era proibito in presenza. Festival digitali, residenze digitali, corsi digitali di regia, di recitazione e di danza, performance digitali e infine riunioni fiume su zoom e similari. Tutto ciò nell’emergenza è avvenuto senza ponderare le conseguenze. E poi dall’esternazione del Ministro Franceschini su una Netflix della cultura, e che ora pare diventare realtà, ecco ancora il gran dibattito vertere più sulla sua utilità e modalità che sulle sue conseguenze, eppure queste sono dietro l’angolo e guarda caso hanno a che fare con i numeri, l’imperio dell’algoritmo e l’etica, se mai ci fosse, del neocapitalismo digitale.

La piattaforma: ecco un’altra parola chiave offerta come fosse un luogo di incontro aperto, accessibile. Queste sulla rete non sono elementi neutri ma si configurano come incarnazione di una nuova forma di politica. Le piattaforme sono dei possedimenti privati che tendono a configurarsi come dei monopoli e quindi come ecosistemi chiusi. Chi possiede la piattaforma non solo sceglie le regole del gioco ma controlla dati e accessi degli utenti, nonché i contenuti da trasmettere. È quello che tecnicamente si chiama Gatekeeper, ossia qualcosa di simile al kafkiano guardiano posto a sorvegliare la porta della legge. Come dice Nick Srnicek: «le sviolinate sull’era dell’accesso sono una retorica priva di significato che oscura la realtà della situazione: le piattaforme stanno diventando proprietarie delle infrastrutture della società».

Nick Srnicek

Ancora una volta il principio che apre la porta sono i numeri. E poi c’è sua maestà l’algoritmo il quale suggerisce all’utente contenuti simili, o relazionati a quelli scelti da altri che come lui hanno visto quel contenuto. Come dice Massimo Airoldi: «la cultura risultante rispetta i canoni di significazione statistica stabiliti dal codice software, l’algoritmo registrerà e riproporrà le correlazioni più forti, nascondendo quelle statisticamente non significative». Quindi la vista dalla cima dell’Everest è meno bella perché l’hanno vista in pochi? O se oggi Grotowsky facesse la prima de Il principe costante a Woclaw sarebbe ininfluente perché pochi spettatori ne avrebbero l’accesso?

A essere sotto attacco e a rischio di estinzione sarebbero, secondo questo principio e come nel film Divergent, i cosiddetti Outlier, tutti coloro che non seguono il modello statistico, la cultura così normalizzata dalla production of prediction. E ad affondare nell’oceano scuro e profondo della rete tutti coloro che non riescono a trovare le catene di parole chiavi giuste o a investire sulla visibilità. Il numero infatti vive dell’immediato pronto a essere sostituito da un nuovo numero il giorno successivo. Nessun pensiero sull’impatto a lungo termine di un’azione civile, artistica o politica, solo risultato immediato prima di essere sommersi da un altro contenuto inneggiato da migliaia di like.

Ma oltre a questo, a frammentarsi sarebbe una comunità che dal vivo, benché ridotta ormai a riserva indiana, (e questo nonostante a teatro ci vada molta più gente che negli anni ’90), era comunque presente. Ma cos’altro aspettarsi dall’etica e dalla pratica del neocapitalismo? Come afferma il sociologo Todd McGowan: «la società contemporanea ci sollecita a massimizzare il godimento individuale. Il godimento privato diventa di importanza primaria mentre a recedere è l’importanza dell’ordine sociale nel suo insieme». Il neocapitalismo corrode il concetto di comunità per accedere all’individuo ben più facilmente misurabile, manipolabile, e controllabile ai fini del mercato.

La cultura tutta e il teatro soprattutto, nato luogo da cui si guarda, nato agorà civile laddove si dibatte i temi laceranti della società, non dovrebbe provare a resistere a questa tendenza? Non dovrebbe provare a recuperare, anche clandestinamente, i luoghi suoi propri, luoghi di incontro e ritrovare le sue funzioni, invece di soggiacere alla logica del produrre a qualsiasi costo e su qualsiasi mezzo qualunque sia il sacrificio? Bastano pochi mesi di inattività per mettere in crisi la presenza?

Nel racconto di fantascienza di Ted Chiang dal titolo Respiro leggiamo questo pensiero: «se la durata di un universo è calcolabile, non lo è la varietà della vita generata al suo interno. Gli edifici che abbiamo edificato, i quadri che abbiamo dipinto, la musica e i versi che abbiamo composto […] niente di tutto questo avrebbe potuto essere predetto, perché niente di tutto ciò era inevitabile». Non lasciamo dunque che i pensieri e le funzioni dell’arte siano decisi da economisti e informatici. Gli artisti sono i massimi esperti del loro campo, sappiano scegliere il meglio per la loro arte, perché le scelte che stiamo facendo oggi condizioneranno il nostro futuro. Quando si adotta uno strumento questo difficilmente verrà abbandonato. Facciamo dunque in modo che serva gli scopi dell’arte e non di sua maestà l’algoritmo, figlio del capitale. C’è un bellissimo racconto breve di Kafka che vorrei mettere a chiusura di questo fugace ragionamento. Si intitola Piccola favola e forse ci induce a riflettere sul momento attuale e sulle conseguenze derivanti dalle scelte affrettate

:«Ahi!» disse il topo «il mondo diventa ogni giorno più angusto. Prima era così ampio che avevo paura. Continuavo a correre ed ero felice finalmente di vedere a sinistra e a destra in lontananza delle pareti, ma queste lunghe pareti si corrono incontro l’un l’altra così rapidamente che io sono già nell’ultima stanza, e lì, nell’angolo, c’è la trappola nella quale cadrò».

«Dovevi solo cambiare la direzione della corsa» disse il gatto e lo mangiò».

Piccola bibliografia

Nick Srnicek Capitalismo digitale, Luiss University Press, 2017

Andy Bown Capitalismo e Candy Crush, Nero Edizioni, 2019

Brittany Kaiser La dittatura dei dati, Harper Collins Italia, 2019

Daniele Gambetta, antologia a cura di, Datacrazia: politica, cultura algoritmica e conflitti ai tempi dei big data, D Editore, 2018

James Bridle Nuova era oscura, Nero edizioni, 2019

Manfred Spitzer Solitudine digitale, Corbaccio, 2016