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Babilonia Teatri

IMPRESSIONI DI SETTEMBRE: TODI OFF E CASTEL DEI MONDI

Teatro non è solo un arte, è prima di tutto un luogo, quello da cui si guarda. Nel consumo frettoloso, nel vortice affollato di eventi, si dimentica un aspetto fondamentale del teatro: la contemplazione del luogo, il lasciarsi impregnare dallo spirito che anima il territorio. Non parlo quindi solo dell’edificio-teatro ma delle città, dei borghi, delle province, spesso molto periferiche rispetto a ipotetici centri d’attività e di potere, e quindi portatrici di dinamiche, problematiche e relative pratiche risolutive spesso originali, da studiare e capire. La consuetudine bulimica da ingordi ci porta invece a guardare e passare senza veramente vedere, e soprattutto capire, come turisti in crociera.

Se vogliamo recuperare un senso e una funzione al teatro, dobbiamo cominciare dalle piccole cose: dalla lentezza e dall’indugio per dar riposo all’occhio invece di saturarlo con bombardamenti di immagini senza soluzione di continuità. Il teatro è arte antica, necessita, nella creazione così come nell’osservazione, di tempo, bene sempre più messo a rischio in quest’era di capitalismo crepuscolare.

Questa volontà di recupero del tempo, sia di visione, che di chiacchiera, di conoscenza, di discussione anche accesa, è battaglia tutt’altro che agevole perché tutto congiura a favore della velocità, del frettoloso voltare pagina per rincorrere il prossimo evento, più fresco quindi più buono e bello solo perché più recente. Sembriamo tutti rincorsi dai Langolieri di Stephen King, creature fameliche divoratrici del passato prossimo. Siamo ormai esseri privi di storia.

La fretta ci fa divorare l’evento e trascurare il luogo. Vediamo tutto come avulso da un contesto, come se l’opera non si nutrisse di ciò che la circonda, soprattutto quando in trasferta, lontana da un pubblico amico e consueto. Per osservare, frequentare e conoscere ci vuole tempo. Come si può conquistare un pubblico in una sola sera? Che relazione si può trovare in così poco tempo? Questo vale certo per l’artista, ma anche per il critico che deve in qualche modo restituire quanto vede.

Un esempio delle disfunzioni generate dalla brevità congenita delle programmazioni e delle tenute dei cartelloni è La febbre di Veronica Cruciani da un testo di Wallace Shawn (drammaturgo e noto attore di tanti film di Woody Allen e Luois Malle) per l’interpretazione della sempre ottima Federica Fracassi.

Wallace Shawn

Il testo di Shawn è un lungo monologo, una riflessione autoaccusatoria sui privilegi di una certa casta benestante, democratica, colta, molto spesso cieca di fronte ai propri privilegi ottenuti grazie allo sfruttamento di molta parte del mondo. Una drammaturgia politica, forte, difficile da ascoltare per i toni appunto febbrili e ostica per le questioni che pone alla coscienza del pubblico. Il primo allestimento degli anni ’90 prevedeva un semplice reading in appartamento. In seguito il regista Robert Icke lo allestì in una suite di lusso al May Fair Hotel per 25 persone fornite di tutti i comfort, dalle bevande ai cioccolatini, il tutto per far immergere il pubblico stesso in una atmosfera di privilegio. Forse un po’ troppo. Come si dice in cucina: less is more. Veronica Cruciani opta per una soluzione più sobria e nello stesso tempo drammatica: un lussuoso bagno di camera d’hotel, inclinato paurosamente verso il pubblico. Un water dove vomitare, una vasca dove fare un bagno. Sul finestrone in fondale, anch’esso inclinato e aggettante, continue proiezione sfumate del corpo della Fracassi. L’attrice al centro della scena a intessere il proprio flusso di coscienza, sempre più piretico e convulso, alla ricerca delle complicità più sepolte, compiacendosi di risvegliare il sopito senso di colpa. Il problema è che la strada è senza uscita a meno di non rovesciare il sistema su cui si basa il sistema di privilegi di cui noi tutti siamo partecipi, e nessuno sembra, a oggi, disposto a scuotere l’albero dalle fondamenta,

Federica Fracassi In La febbre

Un allestimento dunque importante, ricco di questioni scomode, affrontato da una grandissima attrice ma in sala per una sola sera. Non è certo colpa del Todi Festival. Difficilmente i festival possono permettersi una tenuta di più di un giorno. Veniamo però a sapere che oltre a qualche data al Teatro India quest’autunno, un lavoro di questa portata non ha, per ora, altre piazze previste. Non pare un’assurdità? Un tale investimento creativo e di denaro per neanche dieci date? Come fa a crescere un lavoro con così poche repliche? Come fa a influenzare un dibattito se solo pochi lo vedranno? E come è possibile rientrare nell’investimento, ora che tanto si parla di impresa culturale, laddove viene impedito dal sistema stesso un rientro di cassa?

Questi sono alcuni dei temi di cui si è parlato proprio a Todi, nel convegno Se non ora, quando? condotto da Viviana Raciti durante il Todi Off diretto da Roberto Biselli. Critici, operatori, artisti, rappresentanti di categoria, titolari di progetti di residenza si sono confrontati in un pomeriggio di discussione. Ovviamente non basta parlare per poche ore. Si deve continuare il confronto e soprattutto ricercare un’unità d’intesa nello spettacolo dal vivo al di là dei corporativismi. Si deve lottare per ottenere un sistema equo non solo a livello contrattuale ma anche nel rispetto delle opere e dei repertori sempre più fagocitati dalla fretta di proporre novità. Solo essendo uniti si potrà confrontarsi con la politica in maniera efficace. Divisi non potremo che perdere terreno ogni giorno di più. E il franare costante è sotto gli occhi di tutti da un bel po’, ma si preferisce festeggiare per l’inserimento nel FUS o per l’ennesimo inutile premio.

Nel proseguire queste brevi riflessioni ci spostiamo da Todi direzione sud, verso Andria, sede del Festival Castel dei Mondi, diretto da Riccardo Carbutti. Andria è città molto viva, il centro animato e vissuto da giovani e meno giovani. Il Festival Castel dei Mondi si inserisce organicamente in questo vivace tessuto cittadino. Gli spettatori sono numerosi, grazie a Dio non di soli addetti ai lavori, ma di appassionati e curiosi di ogni fascia d’età. Un pubblico caloroso, partecipante e attento. Di fronte a Romeo e Giulietta. Una Canzone d’amore di Babilonia Teatri che oltre alla coppia Enrico Castellani e Valeria Raimondi vede in scena Ugo Pagliai, Paola Gassman e Simone Scimemi, questo pubblico, per una volta vivo davvero, ha percepito la grande umanità insita nel progetto e ha risposto con un sincero entusiasmo che da molto non vedevo in teatro.

Merito senz’altro di Babilonia Teatri che ha saputo restituire alla tragedia Shakespeariana tutta la sua bruciante vitalità al di là degli intellettualismi, dei dotti commentari, del marinettiano verminaio di glossatori. Romeo e Giulietta sono portati in scena da due vecchi attori Ugo Pagliai e Paola Gassman, e il racconto della loro relazione sentimentale lunga quasi mezzo secolo rivela l’amore dei due ragazzi. E così le parole di Shakespeare non sono solo poesia alta, ma parole che descrivono la quotidiana passione, aldilà degli anni e dei cliché. Fondamentale la presenza di Scimemi, mago e comico di grande levatura, la cui azione, da fool vero e proprio, crea i giusti stacchi ritmici ed emotivi, legando il sorriso alla commozione. Il pubblico ha capito e ha donato le proprie emozioni al palcoscenico che se ne è nutrito ricostruendo, una volta tanto, quel circolo virtuoso che fa grande l’arte dal vivo, dove l’opera diventa carne ed emozione e s’accresce nello scambio tra attori e spettatori.

Romeo e Giulietta Babilonia Teatri

Le istituzioni cittadine paiono essere presenti e vicine al festival e all’organizzazione, soprattutto la sindaca sempre partecipante, resta però purtroppo un calo dei sostegni e i finanziamenti risultano non adeguati per un evento che ha una storia di venticinque anni e una programmazione importante votata alla scoperta di giovani talenti nel corso del tempo (Ricci/Forte sono forse l’esempio più luminoso). La politica, locale, regionale o ministeriale che sia, ha il dovere civico di sostenere, gli eventi che hanno dato prova di costruire comunità e cultura per più di un ventennio. Mantenere il tessuto sociale costituito con tanta fatica è un imperativo di cui la politica in questo paese pare essersi dimenticata.

Il direttore artistico Riccardo Carbutti oltre alla programmazione, in cui quest’anno mancano gli stranieri proprio per la diminuzione dei fondi e per le restrizioni pandemiche, ma in cui spiccano Babilonia, Beradi/Casolari, Equilibrio Dinamico, Cantieri Koreja, Massimiliano Civica, ha voluto promuovere dei momenti di dibattito e confronto proprio per affrontare le criticità che attanagliano il sistema da ben prima del Covid e che quest’ultimo ha solo aggravato.

Di particolare interesse la proposta di costruzione di un’etica teatrale proposta da Andrea Cramarossa e Federico Gobbi de Il Teatro delle Bambole. Durante l’incontro è stato presentato il libro L’edera, per un’etica rampicante dello spettacolo, edito da Edizioni Corsare, pubblicazione che contiene parecchi spunti di riflessione su cui il comparto dovrebbe ragionare più attentamente. Il punto fondamentale, all’avviso di chi scrive, è la messa in rilievo del principio di responsabilità individuale: ogni scelta ha delle conseguenze che ricadono su tutti. Da qui la riflessione in cui un principio di sana etica lavorativa è; non prendere decisioni le cui conseguenze nefaste ricadano su tutto il comparto. La capacità di dire no di fronte a condizioni umilianti di lavoro sia a livello tecnico che contributivo è la chiave di volta. Un no che dovrebbe essere detto all’unisono per cancellare dalla lavagna i comportamenti abietti che continuano a perpetrarsi nel mondo dello spettacolo. Purtroppo perdurano proprio perché si accetta nonostante tutto, persino le offerte al ribasso pur di lavorare. Ovviamente non è solo questo. Gli aspetti etici del lavoro sono anche quelli comportamentali, di discriminazione di genere, la parità di contribuzione tra uomini e donne, e molto altro ancora. Immensa è la mole di lavoro da fare. C’è da ragionare per agire, di concerto, non divisi, per acquisire forza di fronte a una società che sta mettendo all’angolo i valori umanistici rispetto a quelli meramente tecnici.

Intrigante la riflessione di Alberto Oliva, regista milanese e giornalista, autore del libro Il teatro al tempo della peste. Modelli di rinascita. edito da Jaca Book. Oliva nel suo libro analizza in una prima parte le innumerevoli pesti che hanno chiuso i teatri nel corso della storia, confrontando ciò che stato con ciò che sta avvenendo; nella seconda parte propone invece una nuova alleanza con la politica per creare un teatro volto alla rinascita. La tesi è che senza il sostegno della politica, la sola forza dell’arte non basti a creare i presupposti per una vera rinascita. Oliva propone quindi un rinnovato pensiero politico sostenuto da quello artistico. La sua fiducia è certo contagiosa benché sia difficile trovare oggi nel panorama italiano un/a politico/a che faccia minimamente sperare in un pensiero illuminato riguardo agli affari culturali. Di certo Franceschini è figura quando più distante possibile da Elisabetta I d’Inghilterra. Forse è il momento di pensare ad aiutarci da soli trovando alternative all’appoggio istituzionale. Forse si deve tornare a essere carbonari, ritrovando quel senso di utopismo volto alla riforma della società tutta che in questi anni è mancato. Come diceva Eugenio Barba, nato in terra di Puglia, il teatro è “solitudine, mestiere, rivolta”.

Babilonia Teatri

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A BABILONIA TEATRI

Per la diciassettesima intervista incontriamo Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, fondatori di Babilonia Teatri. Ricordiamo che Lo stato delle cose è un’indagine volta a conoscere il pensiero di artisti e operatori su alcuni temi fondamentali quali: condizioni basilari per la creazione, produzione, distribuzione, rapporto con il reale e funzioni della scena.

Di base nel veronese Babilonia Teatri, vincitori di due Premi Ubu e di un Leone d’Argento, rappresenta una delle formazioni di ricerca più interessanti e dirompenti nell’unire una drammaturgia tagliente con forti sfumature politiche con un teatro per lo più istallativo. Tra i lavori più importanti ricordiamo Made in Italy (vincitore Premio Scenario 2007), Jesus, Pedigree, Paradiso, Calcinculo e Padre Nostro.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Credo che la peculiarità della creazione scenica, come ogni forma d’arte, sia la tabula rasa di partenza che ad ogni spettacolo abbiamo davanti a noi, le infinite possibilità che ci impongono di dover continuamente scegliere, decidere, declinare. Ogni spettacolo deve trovare la sua forma scenica in grado di veicolare i contenuti e le emozioni che stanno a monte delle creazione. La creazione per essere efficace non deve mai dimenticare quale sia stato il grumo emotivo e di pensiero da cui si è partiti. Ogni volta che la creazione si incaglia, che il lavoro sembra perdere forza e senso è necessario alzare lo sguardo e fare un passo indietro. E’ necessario recuperare e non dimenticare il perché di partenza.

Babilonia teatri Pedigree

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che ogni compagnia ed ogni artista abbia necessità diverse, oggi forse più di ieri. Il passo da compiere sarebbe mettersi maggiormente in ascolto, provare a non ragionare e a non procedere secondo logiche standard più o meno consolidate, ma aprirsi ed adeguarsi ad esigenze creative e produttive non sempre omogenee e lineari. Esigenze che non sempre sono in grado di restare coerenti a se stesse, che non sono univoche, che reclamano la possibilità di contraddirsi, di cambiare strada lungo il tragitto, di uscire da binari che sono maggiormente certi e maggiormente in grado di rispondere a valutazioni di tipo numerico eteroimposte, ma che finiscono per non rispondere alle esigenze della creazione. Tutto questo in parte sta già accadendo, ma credo sia necessario il coraggio di andare fino in fondo. Credo sia necessario, a volte, rinunciare ad alcune certezze, in nome delle quali il percorso creativo deve piegarsi ai dettami dei numeri, per poter seguire un percorso creativo libero; o quantomeno non compiere le proprie scelte artistiche per rispondere a parametri dati, ma affidarsi a chi è in grado di far rientrare un percorso artistico personale nella nomenclatura esistente.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

E’ vero che spesso i diversi circuiti diventano dei cerchi concentrici che non si toccano mai. E’ vero anche che alcune aperture sono sempre più presenti. Altrettanto vero è che il teatro italiano è molto poco conosciuto fuori dal nostro paese. Credo che le azioni da compire sarebbero molteplici, sia a livello istituzionale, che da parte dei teatri, dei festival e delle compagnie. Non penso sia individuabile un responsabile unico. La mia opinione è che ognuno deve individuare le sue priorità e sulla base di queste decidere il tipo di lavoro che vuole svolgere da un punto di vista distributivo.

Jesus
Babilonia Teatri Jesus

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Credo che il qui ed ora del teatro sia oggi come un tempo una dimensione dotata di una vera e propria unicità. Il teatro è una comunità. E’ un luogo di incontro e di scambio. Un luogo dove alcuni corpi si incontrano, si annusano, si sfiorano e si toccano, sul palcoscenico e in platea. Il teatro è un luogo dove la fruizione dello spettacolo è condizionata dal nostro corpo, dalle condizioni psico fisiche di cui godiamo durante la visione. Anche i corpi attorno al nostro, le loro reazioni e il loro umore, finiscono per essere parte dello spettacolo. Credo che oggi non siano molti i luoghi in cui comunità di questo tipo si creano e si sciolgono, per poi magari tornare ad incontrarsi. Il teatro oggi può essere ancora un luogo di incontro e di scambio. Di confronto e di dialettica.

La creazione scenica per noi è sempre stata occasione per confrontarsi e occuparsi del reale, per esserne specchio. Crediamo che il teatro possa ancora essere lente di ingrandimento e di scandaglio di quello che ci circonda e che spesso ci scivola addosso per assuefazione, noia, distrazione disinteresse. Il teatro è in grado di condensare, di coagulare senso e parole, di rendere evidente e se possibile dirompente la materia e le notizie che nel quotidiano ci attraversano senza lasciare traccia. Credo che il teatro non debba abdicare a questo compito. Lo ha sempre svolto e fino quando esisterà resterà una sua prerogativa.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?


Credo che oggi il teatro abbia più mezzi che mai per confrontarsi col reale. Il teatro non è più luogo di esclusiva rappresentazione. I piani di intersezione tra verità e finzione, tra autobiografico e letterario, tra reale e virtuale dialogano spesso sul palco declinati secondo le diverse sensibilità. E’ un tempo in cui i linguaggi si contaminano, si sporcano, cercano relazioni inesplorate per approdare continuamente a scoperte e sconfitte.
Il teatro oggi è un luogo in cui il reale irrompe in infinite forme. Ogni artista cerca la sua mediazione, la sua lingua, la sua via per portare il reale sul palco. Quello che vediamo non è mai il reale, altrimenti ci troveremmo davanti ad un’opera di tipo installativo. Molto spesso ciò a cui assistiamo è un factotum del reale, una sua riproduzione che, nei modi più svariati, ha il compito di rendere teatrale ciò che, seconda l’idea tradizionale di rappresentazione, teatrale non è.

Il teatro da sempre è specchio del suo tempo e siamo convinti debba continuare ad esserlo, le forme da utilizzare perché questa funzione sia svolta in modo efficace, vanno ricercate di continuo.

Il reale è davanti ai nostri occhi ogni istante, ma spesso fatichiamo a vederlo, a decifrarlo, a relazionarci con esso e ad immaginarne il futuro. Il teatro può venirci in aiuto attraverso la sua funzione di lente d’ingrandimento, la sua funzione maieutica, la sua capacità di accostare i pezzi. Non credo che il teatro abbia né la capacità né la funzione di creare un quadro unitario di ciò che ci circonda, ma di certo può sollevare dei veli, risvegliare dei fuochi e instillare dei dubbi.

Improvvisazione

LA BELLEZZA FUGGEVOLE DEI FIORI DI CILIEGIO: L’ARTE DELL’IMPROVVISAZIONE A TEMPI DI REAZIONE

Nel Comunedi Porcari (Lucca) a Spam, sede operativa della Compagnia Aldes guidata da Roberto Castello, si è tenuta dal 5 al 9 dicembre una rassegna dedicata all’arte dell’improvvisazione dal titolo Tempidi reazione. Nell’arco di cinque serate si sono alternati sul palcoscenico filosofi, danzatori, musicisti,attori, pensatori della scena contemporanea al fine di confrontarsi sul significato, la funzione e le pratiche di un’arte trasversale quanto fragile, capace di attraversare tutti i linguaggi e morire nell’istante in cui si compie : senza lasciare quasi traccia del suo passaggio.

EnricoCastellani, Andrea Cosentino, Eugenio Sanna, Julyen Hamilton, Tristan Honsinger, Teri Weigel, Giselda Ranieri, Paola Bianchi, Stefano Questorio, Alessandra Moretti, Mariano Nieddu, John De Leo, Romano Gasparotti, Alessandro Bertinetto, Charlotte Zerbey, Alessandro Certini, Edoardo Ricci si sono avvicendati, offrendo al pubblico i loro differenti approcci alla difficile arte dell’improvvisazione, ciascuno con il suo modo per andar al di là dei modi, condividendo con l’occhio che guarda non solo le loro riflessioni, ma i processi creativi e il rischio a essi connessi.

Improvvisare è termine a cui nel linguaggio corrente si accostano significati con accezioni vagamente negative: raffazzonare, abborracciare, preparare lì per lì. Concetti che rimandano all’imprecisione, alla mancanza di progetto, all’impreparazione. Nel pensiero occidentale come si sostanzia a partire dell’Umanesimo, l’opera d’arte è infatti frutto del genio dell’artista che pensa l’opera e attraverso lo sforzo della propria volontà e manualità rende manifesta l’idea nelle forme. L’opera d’arte è quindi stampo del pensiero che la precede e la determina. L’improvvisazione, al contrario, non ha niente che le preesista, sorge tempestiva nell’attimo in cui si forma e come il fiore di ciliegio scompare in un’istante.

Per questo suo breve batter d’ali è considerata pratica minore, più strumento creativo propedeutico all’opera pensata e concepita, che forma d’arte di rango elevato. Più uno sfizio affine al divertissement. Eppure l’improvvisazione porta con sé questioni di primariaimportanza per le arti dal vivo che nello spazio breve di unariflessione cercheremo solo di delineare.

Innanzituttouna diversa concezione del tempo. Se l’opera è frutto di unprogetto, di un disegno che mano a mano che procede si sostanzia e sistruttura fino a giungere un compimento che dà corpo a uno o più significati previsti, nell’arte dell’improvvisazione si vive nell’istante e in quello che i greci chiamavano Kairos, il tempo dell’opportunità. È un cogliere l’attimo, un adattarsi tempestivo alle circostanze, una modalità che non accetta il ritardo e rifiuta l’esitazione. Un vivere la contingenza del momento con tutta la propria presenza, svincolati dal concatenamento di passato e futuro, dove il primo si risemantizza a ogni istante successivo e il secondo semplicemente non esiste. Kairos prende dunque il posto di Chronos, il tempo dell’opera per eccellenza. Siamo dunque in un altro mondo.

Vi è poi un secondo aspetto da tenere presente: l’improvvisazione è quell’arte che inventa le regole e le norme del suo farsi nell’istante in cui si compie. Non ha canoni a cui ci si possa aggrappare e nessun piano di battaglia può in alcun modo essere atteso. Nessuna forma preventivamente studiata vedrà mai la luce in un’improvvisazione perché suonerebbe falsa come le monete di cioccolata. Nemmeno può essere in qualche modo insegnata. Tutt’al più il maestro può condurci a un atteggiamento propedeutico, uno stato mentale e fisico fecondo che concili l’atto improvviso e imprevisto. Può dunque accompagnarci sulla soglia, ma entrare nel flusso creativo istantaneo è affare del performer, frutto di allenamento personale e di un’attenta coltivazione, risultato di uno specifico contegno differente per ciascuno.

Corollario conseguente: ogni performer vive l’atto di improvvisazione in maniera completamente diversa, sostanzia il momento con uno stile e sapore unico, e questo personalissimo approccio conduce a una totale mancanza di regole cui aggrapparsi, e quelle poche norme che ciascuno a suo modo adotta, posso tranquillamente venire disattese durante l’esecuzione. L’improvvisazione è atto anarchico per eccellenza in cui, per dirla alla Thoreau, il governo che governa meglio è quello che governa meno. L’atto di improvvisare contiene in sé dunque delle istanze politiche ed etiche precise.

Terzo elemento da considerare è che nell’improvvisazione non conta tanto il risultato quanto la qualità del processo esecutivo. L’esser presenti all’istante, il saper vivere il carpe diem che sostanzia questo specifico atto creativo, è l’unica misura che certifica la peculiarità e il pregio di un processo artistico improvvisato. Il risultato inteso come opera coerente esteticamente valida, composizione chiusa nel senso difinita, può non sostanziarsi. L’incompletezza, il fallimento, la caduta persino lo schianto sono delle possibilità accettabili e possibili. Fanno parte della natura stessa dell’improvvisazione. Ci si gioca se stessi completamente, e si può perdere. Nel cadere però si acquista esperienza, un bagaglio da rimettere in gioco altentativo successivo.

Ultima questione da considerare è la non ripetibilità dell’atto performativo improvvisato. Tutto si svolge nel qui e ora. Si tratta di una generazione spontanea che vive in un baleno e poi scompare senza lasciar traccia se non nell’animo di chi c’era. Documentarla è quasi impossibile. Il video e la testimonianza, scritta o orale che sia, sono parziali. Il primo manca del sapore dell’istante della presenza, la seconda è sempre personalissima, frutto di un punto di vista, di un orientamento e di una conoscenza acquisita nel tempo. Lo stesso performer non sempre sa esattamente cosa ha fatto, e manca spesso delle parole per descrivere quanto provato nel flusso creativo istantaneo.

La coscienza del performer è infatti sempre scissa, come divisa tra l’essere teso come filo sull’abisso del momento fuggente e occhio che guarda se stesso. Abbandono e volontà a braccetto, una volontà però scevra di progetto, che nega l’io e le sue voglie, che pronta si adatta alla circostanza e lieta si contraddice per provare strade diverse. Una lotta continua tra il noto e l’inatteso, tra ciò che si sa e ciò che si scopre, tra l’abitudine e la casualità. Non è dunque creazione ex nihilo, ma composizione che si sostanzia con elementi frutto di un bagaglio tecnico che si integrano con naturalezza con ciò che si forma hic et nunc.

Detto questo va ribadito che l’arte dell’improvvisazione non è qualcosa di caotico, frutto di un lasciarsi andare alla deriva, ma un gioco sottile, un affare che non ammette dilettantismi, in cui i pochi elementi scelti alla base vengono sottoposti a variazione, metamorfosi, proteiforme trasformazione, giocosa contraddizione, e questi fattori o piccole norme di base si integrano e ricombinano con ciò che si trova per strada. È come un volo in cui si deve esser pronti a cogliere il vento e i suoi repentini cambi di direzione. Un sottrarsi per fare emergere, cavalcando l’onda accettando il rischio di venir sommersi. Non vi è dunque nessuna emersione dell’io e delle sue miserie, nessuna clinica, ma un togliersi di mezzo per essere tutt’uno con il tempo, lo spazio, l’oggetto, i compagni di viaggio. Non si pensa perché pensando non si fa. Si tratta piuttosto un fare pensante.

Con queste premesse diventa dunque difficile testimoniare quanto avvenuto in scena a Spam nelle serate di Tempi di reazione. L’esuberanza di Eugenio Sanna che si scontra con l’inventività di Andrea Cosentino o con la timida rigidità di Enrico Castellani, la profonda immersione di Paola Bianchi, oppure i dialoghi sottili tra John De Leo, Stefano Questorio e Giselda Ranieri. Non è quasi possibile, per lo meno chi scrive dichiara apertamente la sua incapacità di rendere a parole ciò che è apparso vivo e in un istante svanito. È possibile solo riportare le parole di un antico poeta giapponese nel Kokinshû:   volteggiando i fiori di ciliegio scompaiono e   non c’è uomo che non li rimpiangerà.

ph@Claudio di Paolo