Domenica 26 maggio è andata in scena in data unica al LAC di Lugano I Cenci, opera di teatro musicale di Giorgio Battistelli dall’omonimo testo di Antonin Artaud, con l’orchestra Ensemble900 diretta da Francesco Bossaglia e live electronics di Alberto Barberis e Nadir Vessena, con una mise en espace curata da Carmelo Rifici e la regia del suono di Fabrizio Rosso.
Il 1 maggio 1935 Antonin Artaud scriveva sulla rivista La Bête noir: «I Cenci non sono ancora il Teatro della Crudeltà, ma lo preparano». I Cenci sono dunque questo: un “non ancora…” che prefigura un percorso interrotto bruscamente dai travagli di un’anima suicidata dalla società.
Artaud si aspettava molto da questo suo testo che prefigurava un’innovazione radicale della messa in scena, una drammaturgia pensata in funzione della regia teatrale e scritta vedendo l’azione già viva sul palcoscenico. Il debutto fu il 6 maggio 1935 al Teatro Folies-Wagram dove rimase in cartellone per diciassette repliche. La regia era curata dallo stesso Artaud che interpretava la parte del conte Francesco Cenci. L’opera fu ben accolta dalla critica rilevando la riuscita delle scene del banchetto, dell’assassinio e della tortura e condanna di Beatrice. Scarsa però l’affluenza di pubblico, fattore che ne minò il successo. La delusione di Artaud fu profonda e fu forse uno dei fattori decisivi che diedero avvio a quella parabola dolorosissima che tutti conosciamo.
Il libretto, scritto dallo stesso Battistelli, rispetta quasi per intero il testo artaudiano e si presenta come una sua versione asciugata dal quale vengono quasi del tutto eliminati i personaggi minori (gli assassini muti, il figlio bambino Bernardo, Camillo) dei quali resta il solo Orsino (Michele Rezzonico), per puntare l’attenzione esclusivamente sull’opposizione tra il conte Cenci (Roberto Latini), Beatrice (Elena Rivoltini) e la madre Lucrezia (Ahahì Traversi). Tutto è dunque incentrato sulla famiglia come luogo di violenza e crudeltà. Sono infatti espunti dal testo tutti i riferimenti alle connivenze del potere politico papale nella vicenda, un potere predatorio che sfrutta gli eccessi del conte prima e le conseguenze del delitto poi per appropriarsi dei beni dei Cenci. Tutto invece è tragedia domestica, violenza famigliare, sopruso del maschio sulla femmina. E questo, in un’epoca di false retoriche sulla famiglia tradizionale e di brutalità e abusi sulla donna, è gesto politico forte.
I Cenci di Battistelli non è opera lirica ma teatro musicale, vero e proprio melologo dove appunto il melos, la melodia, si congiunge e dialoga con il logos, la parola. La musica anzi è personaggio vivo, che apre spazi non solo immaginativi ma di vera propria azione soprattutto con gli inserti di suoni concreti e spazializzati. I passi che sanciscono la presenza ossessiva e costante di Cenci e che avvolgono non solo la scena ma anche lo spettatore; il rumore ossessivo di mascelle masticanti presenza fisica di quel divorare la propria famiglia inneggiato dal Conte; le campane nel finale quasi mistico in controluce, che richiamano i campanoni dei duomo di Amiens che Artaud registrò per la prima, suono che doveva colpire i nervi dello spettatore e che nell’originale erano presenti nella scena del banchetto.
La musica è colma di cupezza e contrasti che non si risolvono mai e dove le masse sonore delle percussioni e degli ottoni gravi quasi scoppiano, deflagrano come colpi di martello sull’incudine. Un mare in tempesta che raramente si placa se non per scatenarsi con più forza. Un agglomerato sonoro nervoso, allucinato, avvolgente ed evocativo che non sempre trova un giusto impasto con la parola. La recitazione in qualche tratto appare infatti trattenuta, quasi imbrigliata, rispetto alle dinamiche violente della partitura. Difficile forse anche un giusto amalgama tra le possibilità espressive di un grande attore come Roberto Latini con quelle dei giovani e comunque bravi interpreti che lo affiancano.
La messa in scena di Carmelo Rifici è essenziale con i personaggi che appaiono in costume fine ottocentesco nel vasto buio del boccascena quasi ombre evocate. Pochi movimenti essenziali e geometrici, linee che tagliano e disegnano lo spazio. Il conte Cenci su una pedana mobile taglia e penetra la scena in verticale dal fondo al proscenio, le donne si aggirano lente, trattenute, imprigionate vettori di forza disegnati da una volontà estranea. In alto due schermi, uno su cui appaiono le didascalie, l’altro con dei video in cui si dà forma all’incubo di Beatrice, di trovarsi nuda in uno spazio oscuro con una bestia ansimante. Ecco dunque il labirinto di una casa vuota, dove la donna cerca invano una via di uscita insidiata da un essere bestiale con le vesti del conte. Il nero giaietto animalesco e selvaggio si contrappone al biancore del corpo nudo in un’immagine per soli toni di grigio da cui è bandito ogni colore.
Notevole il finale che segue al supplizio di Beatrice dove un muro di par in controluce gradualmente acceca lo spettatore e avvolge la danza di Marta Ciappina mentre le campane suonano a stormo scuotendo la platea. Una sorta di assunzione alla e nella luce che risolve una vita di dolore e lotta.
I Cenci sono un’opera forte che dimostra la possibilità di innovazione del teatro musicale, opportunità spesso poco sfruttata per molti motivi tra cui non ultimo quello economico. Solo gli enti lirici hanno le possibilità di poter operare in questo campo ma sulla scena nostrana prevale il repertorio. Si dovrebbe dare spazio maggiore alla ricerca in questo campo soprattutto oggi che si parla tanto di commistione di linguaggi. L’opera musicale è dalla sua nascita laboratorio per l’ibridazione delle arti, spesso in passato avanguardia delle sperimentazioni, pensiamo soprattutto a Cage, Kagel, al Prometeo di Luigi Nono, ad Einstein on the beach di Philip Glass con Bob Wilson o al Grand Macabre di Ligeti. Certo necessita di un grande sforzo produttivo e distributivo difficile oggi non solo nel nostro paese.