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Come gli uccelli de Il Mulino di Amleto

Il 10 ottobre 2023, anteprima del Festival delle Colline Torinesi, ha debuttato nella sua prima italiana Come gli uccelli, la nuova creazione de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi da un testo di Wajdi Mouawad. Prima di inoltrarsi nell’analisi di questo complesso lavoro teatrale è necessaria una piccola premessa. Quanto si esplora in questo pezzo non è frutto della visione dello spettacolo al suo debutto, ma dell’intensa frequentazione delle prove dai suoi inizi nella sede della compagnia a San Pietro in Vincoli a Torino fino alla generale tenuta al Teatro Astra il 7 ottobre. Chi scrive non ha dunque visto l’esito, ma il processo creativo che ha portato alla forma finale. È stato un enorme privilegio poter seguire da vicino i primi passi, i tentennamenti, i prudenti approcci a un testo complesso e difficile, passare attraverso le fasi di comprensione delle singole scene, ammirare le metodologie adottate per arrivare alla creazione, e infine osservare la crescita fino alla forma finale, da non considerarsi mai conclusa in un arte fluida come il teatro.

Vi parlerò quindi di questo viaggio a partire dal testo di Wajdi Mouawad, di cui dovrò dire senza rivelare, per non togliere il gusto della scoperta di un’opera costruita su un mistero che deve essere svelato solo agli occhi di chi guarda e non di chi legge.

Come gli uccelli è una dramma in quattro atti che si configura come un tragedia contemporanea dove al fato degli dei si sostituisce la correlazione quantistica. Come due particelle mantengono il loro legame anche a distanze siderali al di là del tempo e del principio di realtà, così i personaggi sono costretti a incontrarsi e vivere le loro storie per un vincolo conseguito fin dal Big Bang, e per quanto possano opporsi niente potrà impedire che si incontrino. Ma le forze della fisica collidono con quelle della storia e così il conflitto israelo-palestinese, in questi giorni tornato alla ribalta per la sua cruenta e irrisolvibile tragicità, spezza quei legami e riporta le particelle umane allo stato di solitudine.

Come gli uccelli presuppone e sviluppa due modelli. Il primo è Antigone (ma sullo sfondo vi è anche l’intera Orestea e il tema del perdono) nel rappresentare l’antagonismo tra una legge antica, come quella del sangue, e una nuova legge che Eitan e Wajida provano a scrivere. Il secondo è Romeo e Giulietta, nella narrazione delle vicende di Ethan, ebreo, e Wajida, araba statunitense, uniti dall’amore e divisi non da faide familiari ma da un muro, non solo fisico ma storico e sociale, che scinde due popoli in guerra per la stessa terra. Il loro rapporto è ostacolato molto prima del loro venire al mondo, fin dalla guerra del 1967, quella Guerra dei sei giorni cui quella di oggi tanto somiglia, fin dalla strage di Sabra e Shatila del 1982. Il testo si sviluppa come un film di Nolan, scorrendo avanti e indietro nel tempo, e muovendosi furiosamente nello spazio. É un testo complesso, non solo per lo sviluppo temporale e spaziale, ma nell’uso di diverse lingue (l’ebraico, l’arabo, il tedesco e l’italiano) e per la durata (nell’originale messa in scena di Mouawad si superarono le quattro ore).

Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto hanno accolto la sfida e la ricchezza di quest’opera e si sono immersi fin dal settembre dello scorso anno, in un processo di scavo per trarre una propria drammaturgia e una personalissima e originale opera teatrale che non è una messa in scena ma una riformulazione del materiale originario.

Nelle prove si sono indagati i presupposti, i sottotesti, le premesse non esplicitate per giungere a dar vita sulla scena a personaggi consistenti, profondi e continuamente lacerati nei propri sentimenti dagli eventi storici e dalle identità imposte dalla società.

Tale processo si è distillato con l’uso di diversi strumenti, dalle improvvisazioni, agli Etudes, ossia studi fisici sugli antecedenti e le motivazioni nascoste, alla discussione a tavolino. Ma il primo scopo era costruire un sentire comune al gruppo di attori, un rispondere agli stimoli come in una partita di tennis, tenendo viva la pallina che passa da un campo all’altro. E a questo si è giunti attraverso l’uso di una serie di esercizi e giochi volti a scardinare o bypassare il pensiero razionale per giungere a una risposta istintiva sostenuta dalla saggezza del corpo.

Facciamo un semplice esempio: la scena iniziale nella biblioteca a New York, che vede l’incontro straordinario, e apparentemente casuale, tra Eitan e Wajida grazie a un fatidico libro, è transitata attraverso varie fasi e stati d’animo: la letteralità fin nell’espressione diretta delle didascalie, la dilatazione inclusiva di un prima non detto dal testo ma necessario per la creazione di un contesto, infine asciugandosi fino a giungere all’osso, all’essenziale, scartando il superfluo, l’ovvio, il teatrale, fino a una fisicità che parla oltre le parole. Il materiale testuale è stato quindi gonfiato e poi scarnificato senza pietà, con la precisione del cacciatore che eviscera la preda con grande rispetto. Il pubblico non si è trovato di fronte a una messa in scena ma a una vera e propria opera autonoma in cui il teatro esprime il proprio linguaggio al di là e attraverso il testo letterario.

Tutti i materiali impiegati tendono a questa essenzialità, dove non vi è un elemento che sottolinei l’altro, ma tutti si rafforzano congiungendo in coro armonico segnali diversi. La scenografia si configura in pochi, semplici elementi: il muro enorme, di una matericità alla Anselm Kiefer, il letto d’ospedale, i tavoli della biblioteca, una poltrona, delle valigie. Questi oggetti parlano una propria lingua insieme agli attori, assumono diverse funzioni, diventano luoghi diversi. Il muro per esempio non solo divide, ma crea gli spazi, determina le luci, si fa schermo per le proiezioni, diventa un calendario.

Il suono sussurra i luoghi e i tempi, parla delle stragi e degli atti di guerra, racconta gli spazi degli incontri, diventa preghiera e scatena il dolore, il tutto senza parole al di là delle parole, rispondendo in contrappunto al gesto, alla scena, al racconto. Le proiezioni non sono solo lo strumento per palesare il sottotitolo, ma configurano fisicamente la distanza dei linguaggi e delle scritture, e creano spazi non fisici, aprono finestre su altri mondi.

Tale lavoro di trasfigurazione alchemica delle parole in atto fisico che implica più linguaggi agenti in sinfonico accordo, ha avuto bisogno di tempo, un elemento essenziale alla creazione a cui Lorenzi si sta dedicando da molti anni. A partire dai vari cantieri Ibsen, sottotitolati Art needs time, Marco Lorenzi e la sua compagnia hanno cercato di guadagnare tempo per il processo artistico. Un atto politico in opposizione a un sistema produttivo sempre più frenetico che spinge alla creazione in soli diciotto giorni di prove. Per gli uccelli è stato preparato tra quest’anno e l’anno passato con più di sessanta giorni di prove. Una conquista dovuta anche alla disponibilità e lungimiranza dei vari produttori e che ha dato i suoi frutti. Si spera che questo non sia un caso sporadico ma finalmente diventi la norma per sostenere gli artisti e la qualità del loro lavoro.

Concludo ringraziando Marco Lorenzi e tutta la compagnia de Il Mulino di Amleto per avermi accolto per molti giorni durante un processo così delicato. Accedere alla loro bottega in questi ultimi anni mi ha fatto comprendere molti aspetti del loro approccio, non voglio chiamarlo metodo perché in teatro ogni metodo smentisce se stesso nella pratica. È stato un privilegio assistere alla nascita di un’opera tanto complessa e profonda e attraversare con loro il Mar Rosso, un segnale forte di fiducia e stima che apre degli spazi profondi alla critica per andare oltre la recensione dell’opera e la visione della creazione finale. Una conversazione che si instaura fin da prima del processo per sospendersi un attimo prima del debutto, per continuare oltre, insieme, nel prosieguo di un dialogo franco volto alla crescita di entrambi al di là dei giudizi.

COME GLI UCCELLI durata 3h con intervallo di 15′

Visto durante le prove dai primi di settembre alla generale del 7 ottobre 2023
di Wajdi Mouawad / consulente storico Natalie Zemon Davis / traduzione Monica Capuani del testo originale “Tous des oiseaux” / adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi / regia Marco Lorenzi / con Aleksandar Cvjetković, Elio D’Alessandro, Said Esserairi, Lucrezia Forni, Irene Ivaldi, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Federico Palumeri, Rebecca Rossetti / assistente alla regia Lorenzo De Iacovo / dramaturg Monica Capuani / scenografia e costumi Gregorio Zurla / disegno luci Umberto Camponeschi / disegno sonoro Massimiliano Bressan / vocal coach e composizioni originali Elio D’Alessandro / esecuzione al pianoforte de La marcia del tempo e Valzer per chi non crede nella magia Gianluca Angelillo / video Full of Beans – Edoardo Palma & Emanuele Forte / consulente lingua ebraica Sarah Kaminski / consulente lingua tedesca Elisabeth Eberl / un progetto de Il Mulino di Amleto / produzione A.M.A. Factory, TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale e Teatro Nazionale di Genova / in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e Festival delle Colline Torinesi / con il sostegno di ART-WAVES e Fondazione Compagnia di San Paolo.

Jan Lauwers

JAN LAUWERS: LE LACRIME E TUTTO IL BENE DEL MONDO

All the good di Jan Lauwers con Needcompany è uno spettacolo-mondo. Si svolge dentro e fuori la rappresentazione, nel presente e nel passato, partorisce doppi concreti o evanescenti alla bisogna. All the good è un tutto-pieno. Potremmo paragonarlo a un buco bianco, un oggetto su cui l’astrofisica fatica a dimostrare l’esistenza pur presupponendola, un corpo celeste che, contrariamente al suo doppio più noto e oscuro, anziché attrarre materia, la rigetta e rimanda nell’universo in tutte le direzioni possibili.

All the good è una sfida. Non si può raccontare, né descrivere. Non nello spazio di un articolo per lo meno. Per analizzarlo ci vorrebbe una tesi di laurea e al solo scriverlo wordpress inizia ad allarmarsi guardandomi con le faccine rosse dell’illeggibilità.

Non resta che provare a giocare lo stesso gioco. Saltare di racconto in racconto. Provare a dire balbettando. Incominciamo dalla fine.

La deposizione di Rogier Van Der Weyden. Una pala d’altare in cui i personaggi occupano ogni spazio possibile sulla tavola di legno. Il Cristo al centro, la Madonna poco discosta. Entrambi cadenti verso il basso e coloro che devono sostenerli sembrano, non solo non averne la forza, ma sono persino messi in posizione tale da essere incapaci di portare aiuto. Quello che colpisce, oltre alla claustrofobia, è la caduta del divino e le lacrime su ogni volto, piccole gocce naturalisticamente perfette, presenti ed evidenti, cristalli scolpiti col dolore del mondo.

Jan Lauwers All the good La deposizione di Rogier Van der Weyden ph: @Andrea Macchia

Le lacrime ci portano a Mahmud, il soffiatore di vetro di Hebron. I suoi vasi tra il blu e il verde acquamarina riempiono la scena. Un’istallazione raccoglie come un enorme scolabottiglie decine di giare di vetro. Nella terra tormentata di Palestina le chiamano le lacrime di Allah. Ogni tanto qualcuno ne rompe una, e nasce un racconto d’arte e di dolore, come lo stupro e la tortura di Artemisia Gentileschi. L’intreccio di richiami tra l’arte e la vita è inestricabile. Si passa da uno all’altro continuamente. E a connettere i due elementi sempre due forze: quella implosiva del dolore, e quella esplosiva dell’amore e della passione.

Jan Lauwers appare per primo in scena. Prova a dirci cosa succederà. Ha scritto un libro (o voleva scriverlo? È molto difficile capire nell’immenso frullatore linguistico in cui fiammingo, inglese, francese, spagnolo, tedesco ed ebraico si scambiano le parti come per gioco e poi: chi lo guarda il sottotitolo mentre davanti a tuoi occhi succede di tutto?); questo libro nessuno lo pubblicherà quindi la storia viene portata in scena ed è una ( o forse mille?) vicenda/e che riguardano la sua famiglia.

Sul palco infatti c’è non solo Jan Lauwers insieme al suo doppio attorico e alchemico, ma la moglie, i due figli. E c’è Elik, il fidanzato della figlia. Ha un passato da soldato in Israele. Ha dovuto uccidere in Libano. E la domanda sottesa è se questa storia d’amore possa reggere al dolore. Forse è la domanda di tutto questo mondo rigoglioso e terribile che sta sorgendo davanti ai nostri occhi.

Jan Lauwers All the good Ph:@Andrea Macchia

Tornando indietro all’insalata linguistica: non è un vezzo espressivo o un’inutile croce da far portare al povero spettatore. É una mina contro l’identità, non personale, ma politica, quella su cui si esercita il potere, per questo sono centrali le storie del soldato Elik e di Mahmud, soffiatore di vetro di Hebron, quell’identità che spinge alla lotta.

In scena oltre alla famiglia Lauwers ci sono anche gli amici, i danzatori della compagnia, la ragazza che ha posato per una fotografa e ha conosciuto il dolore delle pornostar; il colombiano che ha avuto una relazione con la moglie di Jan Lauwers, Grace Ellen Barkey (siamo nella finzione o nella realtà? Ce lo si chiede per tutta la durata dello spettacolo), e i musicisti, anche loro raccontatori di storie (per inciso indossano maschere di animali). Ci sono tante persone e tanti oggetti sul palco da temere che non ci sia spazio sufficiente, esattamente come nella pala d’altare di Rogier Van Der Weyden.

Le storie si affastellano su quella principale. Alcune sono solo accennate e non raccontate veramente. Non c’è il tempo e nemmeno lo spazio. Sono e siamo tutti compressi sul palcoscenico. I linguaggi si mischiano: danza, proiezioni, racconto, canto, musica. Tutto concorre a questo vortice, al buco bianco nato per scagliare materia incandescente, solida, fluida, incorporea, semplici fotoni di luce pronti a cantare all’unisono anche ad anni luce di distanza. Un fiume in piena, venato di correnti di dolore, di morte, di strazi commessi dall’uomo sull’uomo. E si torna dunque a quel Cristo dipinto da Rogier Van Der Weyde, quel Cristo caduto per cui tutti versano lacrime, e si ha la sensazione che noi, artisti e pubblico, siamo alla fine incapaci, come i personaggi del quadro, di trattenere il Figlio dell’Uomo deposto dalla croce.

Jan Lauwers All The Good ph: @Andrea Macchia

Ci vuole forza a vedere tutto il buono del mondo. Un’energia capace di sfuggire all’orizzonte degli eventi di un buco nero rotante e supermassivo. Questa potenza e vitalità sembra essere la prerogativa degli artisti: ritrarre l’umanità, sollevare dalle ceneri della distruzione immagini che sappiano parlare non di un mondo possibile e diverso, ma di ciò che val la pena di esser vissuto e provato in questo.

All the good in questo gioco serissimo tra finzione e realtà, prova a cantare di ciò che è bene nonostante le lacrime e la perdita di solidarietà in atto nelle nostre società occidentali, ricche e malate. È uno sforzo immane strappare il bene al vortice distruttivo in cui il mondo sta cadendo, ma è questo ciò forse resta da fare, ciò che rende l’arte necessaria. Far brillare tutto il bene nonostante tutto. O forse, come diceva Calvino: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Visto durante il Festival delle Colline Torinesi al Teatro Astra il 5 novembre 2021

Agrupación Señor Serrano

MANIPOLAZIONI: LIVORE E THE MOUNTAIN

Il Festival delle Colline Torinesi procede con la sua 26ma edizione e se con Mundruczó e Miriam Selima Fieno si è toccato con profondità il tema del rapporto tra realtà e rappresentazione, con i due spettacoli seguenti Livore di Vico Quarto Mazzini e The Mountain di Agrupación Señor Serrano il tema dominante sembra essere quello della manipolazione delle nostre vite e delle informazioni.

In Livore il pretesto è la leggenda della rivalità tra Mozart e Salieri (sia da Puškin, sia da Shaffer nel famoso Amadeus di Miloš Forman) su cui ruota la storia dei tre personaggi in scena interpretati da Michele Altamura, Francesco D’Amore, Gabriele Paolocà. Il primo è un attore di talento ma costretto, per carattere e fortuna avversa, nel limbo dei palchi anonimi del teatro di ricerca; il secondo è un attore mediocre ma di successo; il terzo è il suo amante e produttore.

Francesco D’Amore in Livore

I tre sono avvinti da un serpente grigio di livore e gelosia nei confronti degli altri. Si invidia il successo, l’ammirazione, l’amicizia, le influenti conoscenze, l’amore. Ognuno manca di qualcosa creduto saldamente nelle mani dell’altro. Quando Amedeo, l’attore povero e talentuoso, piomba in casa dei due amanti, intenti a preparare una cena cui parteciperanno personaggi influenti pronti a far decollare la carriera di Antonio, si entra in una spirale in cui l’educazione non riesce a trattenere i sentimenti malevoli che scorrono non troppo sotterranei.

Tutto si svolge in un involucro narrativo costituito di molti cliché: il talento e la povertà stanno in chi fa un teatro di ricerca, il successo e la mediocrità in chi ha successo; quest’ultimo si ottiene solo con le “conoscenze influenti”; il triangolo di gelosie è tipico, persino le recriminazioni e le invidie sono comuni. Apparentemente sembra un difetto drammaturgico, ma dopo attenta riflessione appare chiara la trappola: noi tutti siamo esseri comuni e per nulla straordinari, tutti sottoposti a cliché nelle nostre piccole invidie. Ogni volta che apriamo un social ci appare splendida la vita e il successo degli altri, ne pensiamo male senza mai rallegrarci per loro. Vediamo solo l’erba di un verde magnifico e patinato del giardino del vicino. Pensiamo male per abitudine, per noia, perché scontenti delle nostre vite, perché la vita è altrove.

Livore di Vico Quarto Mazzini

Il livore ci contamina in ogni istante, ci rende rabbiosi, incapaci d’amore e compassione. La trappola si svela nella crudele scena finale dove Antonio si siede con noi, tra il pubblico, mentre Amedeo e il produttore preparano insieme un cocktail deridendolo. Questo venire tra il pubblico, questo inglobarci nella storia accomuna i nostri cattivi sentimenti verso gli altri generati però da una sottile manipolazione.

L’esposizione delle nostre vite o, meglio, di momenti scelti accuratamente nel flusso comune di quotidianità mediocri, ci mostra sempre felici, pieni di amici, nel successo, in vacanza, nella felicità. Chi guarda non può che invidiare, preso dai problemi di tutti i giorni, dalle miserie in cui tutti siamo immersi, nei momenti di solitudine e abbattimento, nella noia da social. Eppure è solo un’illusione. Nessuno di noi è sempre felice, nessuno di noi è costantemente baciato dal successo. Davanti ai nostri occhi si è posata una lente deformante, un modificatore del mondo pronto a produrre giornalmente il ripetersi di schemi comportamentali volti a ricevere consenso. L’infelicità non acchiappa like. Una volta Guccini disse a un concerto che non si scrivono canzoni su amori felici perché non interessano niente a nessuno, sono quelli tristi che intrigano. Questa è la trappola del livore e Vico Quarto Mazzini, attraverso un pensiero indiretto, rende evidente il peccato comune di un’intera società.

The Mountain Agrupación Señor Serrano

The Mountain di Agrupación Señor Serrano tratta il tema della manipolazione delle informazioni in maniera più diretta, mettendo insieme, come di ormai di prassi, elementi estremamente eterogenei ma capaci di disegnare un mosaico da cui risalta la questione sottesa. Cosa hanno a che fare La guerra dei mondi di Orson Wells, Vladimir Putin e la conquista dell’Everest da parte di Mallory?

L’essere fatti e persone creatrici di una realtà sfuggente e controversa in cui la verità sparisce dall’orizzonte lasciando sul campo solo il dubbio.

Mallory è stato visto per l’ultima volta a 240m dalla vetta dell’Everest: l’ha raggiunta? Il fatto di non avere documenti fa si che, anche avesse compiuto l’impresa, non sia possibile determinarne con certezza la verità dell’avvenimento? Il corpo ritrovato settancinque anni dopo non risolve il mistero: non si è trovata la macchina fotografica, unico elemento utile a risolvere la questione, ma non si è rinvenuta nemmeno la foto della moglie Ruth a cui Mallory aveva promesso di seppellirla nella neve in modo da essere entrambi sulla vetta della montagna più alta del mondo. Tutto rimane incerto.

La guerra dei mondi, spettacolo radiofonico di Orson Wells andato in onda il 30 ottobre 1938, fece credere agli americani di essere invasi dai marziani. Scene di panico in tutta la nazione, nonostante gli avvisi prima e dopo la trasmissione, costrinsero Wells a delle scuse pubbliche affermando di non aspettarsi per nulla di generare un tale putiferio. Eppure diciassette anni dopo lo stesso Wells dichiarò di essere stato assolutamente consapevole. Voleva testare il mezzo radiofonico e far capire agli ascoltatori che non tutto quello che dice la radio (e facebook, riferimento aggiunto con abile manipolazione) è vero. Ma a quale Orson Wells dobbiamo credere: al primo? Al secondo? A tutti e due?

Putin, il cui volto prende forma a partire da una contraffazione digitale del viso della performer Anna Pérez Moya, ci avvisa con candore essere la verità ormai dissolta. Vi sono solo molte versioni di un fatto di cui nessuna gode di maggior credito. Ci spiega anche come creare un sito di fake news: si crea un dominio e un sito. Lo si riempie di notizie vere e accreditate per far crescere l’attenzione e il consenso e poi, piano piano lo si inquina con informazioni false. Il sito ovviamente si chiama The mountain. Esiste o no? Non resta che controllare.

Nel nostro mondo non è facile comprendere cosa sia vero, quali fatti siano concreti, e quale sia la versione più credibile. La pandemia è stato un grande laboratorio sotto questo aspetto. Nessuno, nemmeno il più smagato, colto, riesce più a discernere il vero dal fasullo. Persino questo scritto che non ha altri intenti se non quello di far riflettere su due spettacoli teatrali, potrebbe essere fasullo e gli spettacoli inesistenti. Solo chi ha visto può sapere e comunque non essere d’accordo. Niente può stabilire se quanto dico io o i miei eventuali detrattori possa avere una qualche sostanza.

Siamo tutti manipolati dai media e dalle informazioni. Persino le nostre preferenze e le nostre emozioni sono guidate, provocate, istruite. Il caso Cambridge Analytica è stato il campanello d’allarme più evidente su come le nostre democrazie e il diritto di voto siano ormai preda dei metadati e di chi li sa far fruttare muovendo le masse.

È uno scenario desolante. The mountain di Agrupación Señor Serrano e, in maniera molto più morbida Livore di Vico Quarto Mazzini, ci mettono di fronte a quella che forse è la questione più importante di questo inizio secolo: siamo ancora padroni del nostro mondo e di noi stessi? Il libero arbitrio è ormai un’illusione (pensate al cartone animato Inside out)? E se non è più possibile parlare di verità su cosa basiamo le nostre convinzioni? Solo sul consenso? Ciò che la maggioranza crede è dunque vero?

Ormai non è più una questione di fantascienza politica. È la realtà che abitiamo e impone una reazione di un’intera civiltà. Ne va della sua salute e salvezza.

imitation of life

TEATRO, REALTÀ E POLITICA: KORNÉL MUNDRUCZÓ E MIRIAN SELIMA FIENO

A partire dall’Umanesimo e in seguito col Rinascimento, il teatro come forma d’arte ha intrattenuto un certo rapporto ambiguo con la realtà. Se per i Greci la questione era la verità intesa come Aletheia, ossia uno svelamento di ciò che è nascosto sotto le pieghe della realtà per un suo emergere evidente davanti agli occhi, per l’Occidente sorto dal cantiere sperimentale del Medioevo, la questione si spostava, e non solo in teatro, verso la rappresentazione del reale. Calderon de la Barca parla di Gran teatro del mondo, né accenna anche Shakespeare. Appare sempre più evidente con l’epoca barocca che il mezzo teatro vuole essere uno specchio del reale.

Con la fretta necessaria agli articoli brevi giungiamo d’un balzo al Novecento dove, dopo gli eccessi naturalistici e illusionistici dei Meinenger, si giunge alla ricerca di Stanislavskij, con cui si aggiunge uno scavo intimistico, attraverso l’azione fisica, verso un rispecchiamento del reale che si unisce alla verità del sentimento. L’avanzare del Novecento però porta a un nuovo e interessante atteggiamento: influire sul reale attraverso la rappresentazione. Ciò che avviene in scena è una modalità di intervento sulla realtà vissuta nel quotidiano. È azione politica, artistica, utopistica e immaginativa. Si vuole cambiare il mondo attraverso una visione dello stesso. Un rapporto attivo si viene a instaurare tra ciò che è e ciò che si rappresenta, dove quest’ultimo può, o dovrebbe essere, motore di cambiamento del primo.

Con l’avvento del Ventunesimo secolo, e soprattutto con l’avanzata della virtualità digitale, la questione si sposta in territori finora non mai battuti. La domanda diventa cosa è reale? Esiste una qualsivoglia possibile verità? È possibile definire una realtà oggettiva da tutti vissuta, o ci si deve accontentare di mostrare un punto di vista, un approcciò più o meno efficace con ciò che convenzionalmente chiamiamo mondo? Verità è manipolazione? Si fa fatica a capire cosa è reale e non solo cosa sia vero, ma se sia sensato parlare di verità.

Al Festival delle Colline Torinesi si è potuto assistere a due interessanti performance in cui la questione del rapporto con la realtà dei fatti viene affrontata con urgenze quanto mai impellenti e innovative. Parlo di Imitation of life di Kornél Mundruczó e Fuga dall’Egitto di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio.

Imitation of life fin dal titolo pone la controversa serie di quesiti in evidenza. Un titolo che è di per se stesso una mise en abyme: il teatro è imitazione della vita? La nostra personale esistenza è a sua volta imitazione delle vite delle generazioni precedenti, per noi fonti di cultura, abitudini e pregiudizi?

Lo spettacolo inizia con un filmato in cui a una donna anziana di etnia Rom viene comunicato lo sfratto. Appare subito chiaro l’interesse economico della società privata che agisce per mandato del comune per gentrificare il quartiere. Bisogna far sloggiare i Rom per riqualificare le proprietà immobiliari. Il video pare una testimonianza reale di qualcosa avvenuto veramente in Ungheria, ma il sipario si alza e vediamo lo scenario della ripresa video. La casa in questione non è una casa vera ma la scenografia entro cui agiscono gli attori. Non abitiamo nel documentario ma nella fiction.

La donna anziana si sente male e il liquidatore, suo malgrado è costretto a chiamare i soccorsi. La conversazione con il 118 ungherese è agghiacciante: i soccorsi non arriveranno in tempo utile per questione di priorità e quel particolare quartiere non lo è. L’uomo si sente in colpa, non sa se abbandonare la donna al suo destino o provare a fare qualcosa. Si decide a consigliarla, all’arrivo dell’ambulanza, di farsi portare in ospedale in modo così da bloccare lo sfratto. L’uomo esce.

Lo scenario cambia. Cade una pioggia vaporosa su cui viene proiettato un filmato: un incontro della donna col figlio in un albergo del centro dove lui esercita la professione di prostituto. Il ragazzo è scappato di casa a causa di un padre violento e soprattutto perché rifiutava le sue origini tzigane. Voleva non essere discriminato. Quello che vediamo è probabilmente un ricordo. Qualcosa di avvenuto prima e ora, forse, visione della donna in punto di morte.

Lo scenario cambia ancora. La casa comincia lentamente a ruotare di 360 gradi sull’asse verticale. Tutto all’interno crolla e si sfascia. È una scena molto lunga, suggestiva e violenta. Quando ritorna in assetto ecco tornare il liquidatore con una giovane donna. Nonostante la casa sia allo sfascio, l’uomo cerca di convincerla a firmare un contratto di locazione alle stesse condizioni della vecchia e per la stessa truffaldina società. La giovane, costretta dall’indigenza, ma è costretta a mentire perché la csa è per una persona e lei ha ha un figlio. Appena uscito il liquidatore, lo fa entrare di nascosto in casa.

La madre riceve dei messaggi da parte di un ex amante. Costui è insistente e nonostante appaia chiara la natura burrascosa e violenta del loro rapporto, lei accetta di incontrarlo lasciando solo a casa il figlio. È in questo momento che accade qualcosa di inaspettato. Scende ancora la pioggia su cui viene proiettata l’immagine del figlio dell’anziana signora in una stanza d’albergo con la sua amante. Litigano e nel mentre appare il bambino. Il ragazzo lo insegue e in questa rincorsa labirintica nei corridoi dell’albergo eccolo aprire una porta e piombare in casa. Subito la riconosce per quella della madre. Il bambino dice che è morta e ora sono loro ad abitarla.

Tutto sembra una prosecuzione del racconto. Arriverà la madre del bambino? Cosa le è successo? E che farà il ragazzo apparso per magia e ora con una katana in mano per tagliare una semplice mela? Il sipario improvvisamente cala e viene proiettato un testo in cui si racconta l’uccisione di un bambino con un colpo di spada da parte di un uomo di origine Rom. Questo ha creato scalpore nell’opinione pubblica ma solo fino quando si è scoperto che anche il bambino aveva le stesse origini. La storia è vera.

Imitation of life

Tutti i piani sono ora svelati: abbiamo un fatto di cronaca reale e una drammaturgia derivata. Gli attori interpretano dei ruoli mostrando allo spettatore una realtà sociale intrisa di pregiudizi quanto mai reali, soprattutto oggi dove, a governare l’Ungheria, vi è un partito di estrema destra e un regime al limite della dittatura. I personaggi però sono ingabbiati nelle parti che ha scelto per loro, non il drammaturgo, ma la vita reale stessa. Il lavoro dell’attore nella creazione dei personaggi è limitato proprio dalla realtà che si vuole rappresentare: il liquidatore è razzista e non sopporta i Rom, la donna anziana ne è orgogliosa nonostante gli innumerevoli affronti ricevuti durante tutta una vita, il figlio di lei rifiuta le sue origini perché discriminato. Le loro vite immaginarie non sono frutto di scelte artistiche ma di un’immersione in un ambiente e in una cultura che fa giocare loro una partita già giocata infinite volte, non nella fiction, ma nella realtà.

Si imita la vita nella realtà come nella rappresentazione. Se fosse solo questo saremmo in un territorio conosciuto, ma è solo una falsa impressione. Verità, immaginazione, illusione, oggettività si mischiano a tal punto da confonderci. Il filmato sembra vero, un documento reale di un fatto accaduto, ma scopriamo essere parte della rappresentazione e quando siamo ormai tranquilli di abitare solo una storia, certo con riferimenti a una realtà politica difficile, ingiusta e violenta, ma pur sempre parte di una fiction, ecco che irrompe nel finale nuovamente la realtà.

Imitation of life è uno specchio del mondo con molti piani di rifrazione. Difficile stabilire quale immagine sia quella esistente e quali semplici proiezioni della stessa. È come la scena del padiglione degli specchi ne Il mio nome è nessuno di Tonino Valerii: anche se si rompono, non si riesce a trovare Terence Hill.

Miriam Selima Fieno
Fuga dall’Egitto

Diverso il punto di vista di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio. Lo spettacolo trae origine dal libro Fuga dall’Egitto di Azzurra Meringolo Scarfoglio e vuole raccontare la diaspora di intellettuali, medici, artisti dall’Egitto post rivoluzionario in seguito all’avvento della giunta militare guidata da Abdel Fattah al-Sisi. Migliaia di persone sono scappate dal proprio paese dopo aver vissuto l’ebbrezza di essere riusciti a far cadere il regime di Hosni Mubarak e l’aver, in seguito, impedito la deriva integralista del successore Mohamed Morsi.

Come disse Dante: “noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto”. Al Sisi prende il potere insieme ai militari e dal 2014 si assiste nel paese a un’escalation di repressione, sparizioni, incarcerazioni ingiustificate. Testimonianza di ciò le tragiche storie che hanno colpito il nostro paese con la morte di Giulio Regeni e l’ingiusta e continua detenzione di Patrick Zaki.

Miriam Selima Fieno costruisce una performance in cui racconta la sua volontà di narrare quest’esodo. Lo spettacolo parte proprio da qui, dalla storia recente dell’Egitto e dalla collaborazione con la giornalista Azzurra Meringolo Scarfoglio. Miriam per prima cosa vorrebbe andare in Egitto ma la giornalista la sconsiglia caldamente proprio dopo quanto successo a Giulio Regeni. Il rischio della vita è concreto. Così Miriam muta obbiettivo, raccontare l’esodo insieme a chi l’ha vissuto. Contatta quindi degli esuli, ora rifugiati in vari paesi d’Europa, e costoro immediatamente accettano la collaborazione.

A questo punto nascono i dubbi, le domande e le incertezze. Questo rimuginare e domandarsi costituisce la spina dorsale dello spettacolo. Miriam Selima Fieno condivide le sue difficoltà e paure con il pubblico: cosa sto raccontando? E utile quanto sto facendo? È incisivo? E soprattutto: è giusta la strada che sto intraprendendo?

La narrazione prosegue: alcuni collaboratori si ritirano per paura: persino all’estero possono giungere le ripercussioni da parte del regime. Nel 2020 scoppia la pandemia che rende tutto ancora più difficile. Finalmente Miriam riesce ad incontrare i tre esiliati (nell’ordine Bahey El-din Hassan, Taher Mokhtar, Ahmed Said) con cui ha mantenuto il contatto e la materia si surriscalda. Si avverte negli occhi e nelle parole di questi tre uomini la delusione, la solitudine, la sconfitta, di chi ha creduto in una rivoluzione e ha perso. E la cui fuga ha costretto a lasciare indietro affetti, famiglia, figli, amici. Così dalle parole di questi uomini sorge una domanda scomoda per il pubblico e per la stessa artista: perché volete parlare e ascoltare dell’Egitto quando l’Italia e il suo governo sono tra i principali partner commerciali dell’Egitto vendendo al regime di Al Sisi strumenti di controllo telematico e armi? Perché non vi ribellate al vostro governo complice del degenerare di un regime militare?

Siamo tutti presi in causa. Siamo complici silenti e non basta commuoversi per i “poveri” rifugiati. Siamo abituati in Occidente a spettacoli o libri che ci parlano degli orrori nelle altre parti del mondo, ma tornati a casa o posato il libro, la nostra preoccupazione svanisce nell’autocompiacimento di non essere come gli altri, di essere progressisti, informati, colti, non affetti da pregiudizi, blandamente impegnati politicamente. Miriam si accorge di questo rischio e si chiede cosa fare. Emblematica e suggestiva la scena in cui discute con se stessa proiettata sugli schermi.

Miriam Selima Fieno
Fuga dall’Egitto

Miriam si accorge che alla narrazione mancano degli elementi. Il primo è incarnato in scena da Yasmine El Baramawy, autrice live delle musiche di scena. Yasmine racconta la rivoluzione delle donne. Mostra un video di uno stupro in piazza, durante le proteste. Le donne, in questo evento storico, sono le vittime silenziose e non difese da nessuno, e questo sia prima, nel momento della speranza, sia dopo con l’avvento del regime.

L’ultimo elemento, quello che conclude lo spettacolo, è la voce stessa del regime. Si proietta un’intervista pubblica di Al Sisi in cui alla domanda del giornalista se ci siano sparizioni e incarcerazioni ingiustificate, il dittatore nega. Eppure le fonti parlano di sessantamila persone desaparide, continua il giornalista. Al Sisi sorridente nega ancora. La storia è ora completa e lo spettacolo può terminare.

Fuga dall’Egitto intesse un’interessante rapporto con quello che chiamiamo realtà. Innanzitutto per quanto si cerchi di essere oggettivi e obiettivi il punto di vista di chi narra è sempre presente: quella raccontata da Miriamo non è la Storia ma la sua storia intessuta insieme a quelle dei quattro rifugiati.

Inoltre si pone la questione documentale. Nella nostra epoca questi sono sempre più fragili e manipolabili. Viviamo in un tempo in cui le fake news inquinano ogni possibilità di raggiungere la verità. E quindi come si può raccontare un fatto, un evento, una vita? Possiamo forse accontentarci di fornire solo una parziale visione sperando di convincere l’occhio che guarda della nostra onestà e imparzialità? E nel far questo possiamo sperare di cambiare le cose e costruire un mondo diverso? Oppure è solo uno sforzo vano, e il massimo raggiungibile è l’applauso del pubblico?

Queste sono domande non solo di Miriam ma anche di chi scrive ogni volta che scrive. Penso anche di chiunque cerchi secondo coscienza di dar conto di ciò che avviene intorno a lui o lei. Realtà e verità sono concetti sempre più relativizzati dal costante inquinamento delle informazioni e, paradossalmente proprio dall’abbondanza dei documenti. L’innumere annulla il segnale, lo azzera e tutto diventa confuso. La domanda finale diventa: il teatro può ancora pensare, come nello scorso secolo, di poter essere motore di cambiamento delle coscienze?

Miriam e Nicola con molta umiltà, ostentando tutti i difetti e i dubbi, con estrema onestà intellettuale condividono con noi un percorso su una questione che ci riguarda (ricordiamo Giulio Regeni e Patrick Zaki). Interrogarsi in merito è il minimo che possiamo fare come spettatori.

Il merito di Miriam e Nicola è di aver provato a mettere di fronte ai nostri occhi una realtà scomoda, evidente e nascosta allo stesso tempo. Lo hanno fatto con strumenti ancora debitori di altre ricerche (soprattutto Milo Rau e Agrupation Señor Serrano), ma sulla strada per costruire un loro modo di raccontare il mondo. La sincerità e onestà con cui hanno condiviso il loro percorso li ha ripagati e il pubblico li ha gratificati di una giusta standing ovation. Ora bisogna continuare il cammino e affrontare nuove sfide. Auguro loro di proseguire con questo impegno e con questo entusiasmo, senza mai smettere di porsi domande scomode e rimanendo fedeli alla sincerità che ha accompagnato questa loro Fuga dall’Egitto.

Inequilibrio

Il gioco e il ruolo della rappresentazione. Alcune visioni a Inequilibrio Festival

Durante la permanenza al Festival Inequilibrio di Castiglioncello, è sorta insistente una domanda, un rovello insistente, quasi un personaggio pirandelliano che reclamava attenzione, ossia se l’opera d’arte come oggetto piuttosto che come processo avesse ancora una credibilità. A questa ne seguiva una seconda e più urgente: quali ruoli e funzioni sono ancora possibili per il gioco della rappresentazione? Nel Doktor Faustus di Thomas Mann si può leggere un passo che richiama il quesito posto: «vien fatto di chiedersi se allo stato attuale della nostra coscienza, della nostra conoscenza, del nostro senso della verità, questo gioco sia ancora lecito, ancora spiritualmente possibile, ancora da prendersi sul serio, l’opera come tale, la forma autonoma in sé conchiusa abbia ancora qualche relazione legittima con la mancanza completa di sicurezza e armonia, con la problematicità delle nostre condizioni sociali, e se qualsiasi apparenza, anche la più bella e proprio la più bella, non sia oggi diventata una menzogna». Declinata teatralmente la questione diventa: la rappresentazione di una dinamica narrativa, di un racconto in cui in qualche modo bisogna credere abbandonandovisi è un fenomeno inadatto al contemporaneo? Non è forse più efficace, e quindi anche più necessario, il dispiegarsi, il rendere palese il gioco di finzione, il rendere visibile il meccanismo al fine di ottenere non un processo di immedesimazione ma piuttosto di conoscenza e critica del reale?

Il quesito è diventato vero tormento in seguito alla visione di Cirko Kafka di Roberto Abbiati e Claudio Morganti e della prima traccia di Pelléas e Mélisande della Compagnia Abbondanza Bertoni. In entrambi i casi veri e propri maestri del teatro e della danza hanno presentato dei lavori di grande levatura tecnica e bellezza visiva. Il primo si presenta come un giocoso, ma non per questo meno terribile, meccanismo di tortura. Un processo che Josef K. subisce nella piccola stanzetta di un sottotetto e non riesce mai a farsi tragico ma nemmeno pienamente comico. L’ingranaggio in cui cade Josef K, costituito da una finissima partitura di azioni e suoni, procede come un carillon inceppato, a scatti, per piccole farse ed episodi, sempre in bilico tra una trasognata levità e l’inquietante ineluttabilità dell’insensato procedimento. Pelléas e Mélisande, sulle note dell’omonima opera di Schönberg, presenta invece una danza dal sapore classico seppur contaminata con movimenti sgraziati e quasi parodistici che si sviluppa in ricamo dietro a una serie di proiezioni: tre melograni che spandono pian piano il loro succo inzuppando di rosso il bianco telo su cui son posati, le acque in movimento focoso o cullante a raccontare l’intensa vicenda emotiva e tragica del triangolo Pelléas, Mélisande e Golaud.

Entrambi i lavori, seppur uno finito e l’altro in fase di lavorazione, rimandano a una concezione dell’opera d’arte come risultato estetico di una ricerca sul linguaggio espressivo del corpo sia esso quello di un attore o di un danzatore, frutto di tecnica e ingegno, e destinata a essere ammirata con gli occhi e compresa con l’intelletto. Un’opera d’arte dunque come oggetto opaco, da decifrare, che rimanda a un mondo letterario a sua volta prodotto di cultura e di ricerca linguistica ed estetica, la cui funzione dovrebbe essere principalmente di presentarsi come oggetto dello spirito che allo spirito ritorna e lo modifica essenzialmente. Questo gioco prevede una certa dose di ingenuità che porti a credere in ciò che si vede, a immedesimarsi e compatire, nel senso proprio di sentire insieme. Questo è ancora possibile? Possiamo ancora abbandonarci a un atto di fede? O come diceva Carmelo Bene dovremmo piuttosto chiamare la Croce Verde? La rappresentazione può essere ancora intesa come mezzo per comunicare prodotti dello spirito frutto di ricerche linguistico/estetiche?

Qualcuno potrebbe pensare che il discorso sia ozioso. Altri ancora invece potrebbero dire che il dibattito filosofico ha già analizzato la questione e già da molti decenni (lo stesso passo di Thomas Mann risale al 1947), e che già Duchamp aveva posto le basi per concepire l’opera d’arte come frutto di conoscenza e prassi di una filosofia. Nonostante queste obbiezioni lecite e legittime, credo che il problema si stia ripresentando con una certa urgenza, come se il dibattito avvenuto durante il corso di tutto il Novecento non abbia risolto il problema: quali funzioni sono ancora possibili per l’opera d’arte? L’opera di rappresentazione come oggetto culturale ha ancora una ragion d’essere? È essa stessa necessaria alla nostra società?

Se per esempio prendiamo Atlante dell’attore solitario di Marcello Sambati, dove un grande interprete dotato di maestosa tecnica si presenta come corpo quasi addormentato, trasognato, ma anche in qualche modo torturato e attraversato da dolori e dissidi e che dà voce a tutto questo con sussurri, mormorii, afflati poetici e tragici, ecco di fronte a questo dispiegarsi di mezzi espressivi di alta scuola, si rimane pur tuttavia freddi, distaccati, privi di empatia, come se non ci si credesse a questo gioco, come se mancasse un terreno comune tra pubblico e opera viva. Si ha l’impressione che tutto sia un inganno. Non a caso il Novecento teatrale si aprì proprio con il famoso :”Non ci credo!” di Stanislavskij.

La rappresentazione può ancora giocare sul terreno di questa fiducia dell’occhio che guarda, in questa immersione in un mondo alieno, frutto di tecnica e abilità? Oppure oggi quell’occhio è stato tagliato e violato così tante volte che necessita di altre regole d’ingaggio? Voglio precisare che la questione che sto cercando di porre non mette in discussione la qualità dei lavori, anzi forse a maggior ragione si pone proprio a causa del loro esito di alto livello. Il problema sono le funzioni attribuite e attribuibili alla rappresentazione. La domanda prevede multiple se non infinite risposte che vanno ricercate.

Tra le opere viste a Inequilibrio e che aiutano a gettare uno sguardo sul problema vi sono One mysterious thing, said and cummings, What can be said about Pierre e Olympia, tre pezzi brevi di Vera Mantero, danzatrice e performer portoghese, che si presentano non come oggetti estetici ma come veri e propri atti di pensiero in movimento. Vera Mantero utilizza la rappresentazione come messa in questione della funzione dell’arte stessa. In One mysterious thing, said and cummings affronta la dicotomia tra cultura e natura o, se volessimo utilizzare un vocabolario desueto, tra cultura e civilizzazione, dove la prima può tranquillamente convivere con l’origine animalesca, crudele e ctonia, mentre la seconda tende ad ammantare i prodotti dello spirito di un vapore di positività didascalica ed educatrice. A partire dunque dal volto truccato e splendido nella sua bellezza ecco la luce illuminare gradualmente un corpo i cui piedi sono zoccoli fessi di fauno. In What can be said about Pierre ci si chiede come possa avvenire l’atto conoscitivo attraverso l’accostamento tra una lezione radiofonica su Spinoza di Gilles Deleuze e una danza che tende a esplorare tutte le possibilità espressive. Da ultimo, in Olympia, ispirata dal celebre quadro di Manet, si mette in discussione attraverso una lunga citazione da Asphyxiating Culture di Jean Dubuffet, il ruolo dell’arte come espressione del potere politico e che ricorda, non poco, l’avversione di Carmelo Bene nei confronti dello Stato quando si occupa di cultura e la asserve ai suoi fini snaturandone la carica eversiva.

Vera Mantero utilizza i linguaggi artistici non per esibire un pensiero, né per presentare un prodotto estetico, ma come piano di dissezione del materiale al fine di generare un processo che demolisca gli idoli del pensiero stesso. I lavori messi in scena sono degli anni ’90 ma presentano una modalità valida ancor oggi e delineano una possibile funzione del gioco della rappresentazione.

Medea per strada del Teatro dei Borgia, e di cui abbiamo già trattato durante il Festival delle Colline Torinesi, testimonia un altro possibile esito: la finzione si dimostra per quello che è, non finge di essere realtà. Tutti sanno che chi parla è un’attrice e non una vera prostituta, ma quella maschera che ci accompagna in viaggio sul furgone sgangherato fa parlare attraverso di sé tutta una realtà che tendiamo a rimuovere e che riappare davanti ai nostri occhi proprio grazie al meccanismo di finzione. Si recupera dunque la funzione greco tragica dove la rappresentazione permetteva di trattare un argomento incandescente altrimenti intoccabile e intangibile. Solo attraverso la maschera della finzione appariva aletheia, la verità che velando disvela. Questione questa che attraversa tanto teatro di Milo Rau soprattutto nel suo lavoro dal titolo The Repetition e il reenactment nel suo complesso. Quello che vediamo non è certo l’atto originale, ma nel rimetterlo in scena, nell’attuare i fatti ancora una volta si svela e analizza il processo che lo ha generato.

Questi pochi esempi tratti proprio dalle opere viste a Inequilibrio indica quanto sia vasto il campo di ricerca e attuale il problema e come siano diverse le possibili risposte al quesito. Stando di fronte all’opera d’arte tradizionalmente concepita si avverte ormai un senso di disagio che affligge anche i migliori esiti. Si avverte come la necessità per l’arte di essere qualcos’altro, e dell’esigenza di dotarsi di altri strumenti oltre alla bellezza e alla tecnica nell’affrontare e dissezionare il reale.

Per concludere un’altra citazione da Doktor Faustus di Thomas Mann: «l’apparenza e il gioco hanno già oggi la coscienza dell’arte contro di sé. L’arte non vuole più essere apparenza e gioco, ma intende diventare conoscenza». Forse è su questo campo che si gioca il ruolo della rappresentazione.

La plaza

Il gran teatro della morte: La plaza de El Conde de Torrefiel

La prima immagine è cimiteriale e agghiacciante: un immenso memoriale di fiori e di di lumini da morto. Così comincia La plaza, ultimo spettacolo de El Conde de Torrefiel, collettivo spagnolo guidato da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert visto al Festival delle Colline Torinesi dopo il debutto italiano alla Triennale di Milano.

Questa prima scena, così semplice nella sua evidenza, è simbolo e provocazione. Quanti memoriali costellano gli eventi di questo tormentato inizio di millennio? Potremmo pensare all’11 settembre 2001 quando l’Occidente ha iniziato il secolo con quanto visto nelle pubbliche commemorazioni di vittime defunte.

Negli spettacoli de El Conde de Torrefiel l’immagine si intreccia con un testo. I due elementi solitamente non hanno se non pallide corrispondenza. È lo spettatore attraverso lo sguardo a costruire sensi e significati. In La plaza l’inizio invece si allaccia strettamente con le immagini proiettate sul fondale. È la descrizione del progetto che stiamo osservando, una nota di regia in iperbole: l’istallazione è parte di uno spettacolo agito in simultanea in trecentosessantacinque città in tutto il mondo e della durata di un anno intero. Semplicemente stiamo ammirando sono gli ultimi istanti. Siamo parte di un pubblico intenti a guardare solo questa scena in cui non succede nulla. Come dice la scritta forse la cultura è diventata la rappresentazione del niente. Ma è una provocazione. In realtà non è così. Tutt’altro. Essa è abitata dalla più ingombrante di tutte le presenze: la morte, Rappresentata, evocata, commemorata. Ma la morte di chi?

Dopo questa lunga introduzione, dove assume il ruolo di interrogarci su cosa stiamo vedendo, sulle sensazioni provate, anzi potremmo dire che si arroga il diritto di affermare con assoluta sicurezza il tipo di pensieri e sensazioni stiamo sperimentando, cala il sipario. È ora di uscire dal teatro. La performance è finita e la voce ci accompagna metaforicamente fuori in strada in un immaginario ritorno a casa.

Il sipario si alza nuovamente. Siamo in una piazza immersa nel grigio. Potrebbe essere un qualche luogo in Medio Oriente, ma anche il quartiere in cui abitiamo. Volutamente vi è una certa ambiguità. Donne con l’hijab attraversano lo spazio, chiacchierano tra loro. Molte sembrano andare a fare la spesa. In primo piano un soldato imbraccia un fucile mitragliatore. I volti dei personaggi sono coperti da una spessa calza bianca che spersonalizza totalmente l’individuo. Si vedono solo a malapena il naso, l’incavo degli occhi e la linea della bocca. Il testo proiettato, questa volta svincolato dall’immagine che si svolge sotto i nostri occhi, continua a raccontarci del nostro ritorno a casa, dei pensieri provati incontrando degli arabi seduti a un tavolino mentre bevono un caffè e fumano sigarette; del fatto che quegli uomini ci fanno paura e sono i più odiati in Occidente. A pensarci bene potrebbero essere oggetto di violenza indiscriminata.

Le immagini scorrono così come i sopratitoli nel raccontare i nostri pensieri. La scena si trasforma, le luci calano e ci conducono in un altro tempo e in un diverso luogo. Tre ragazze ubriache attraversano la piazza. Una perde un foulard e si attarda. Le altre escono di scena. La donna rimasta barcolla, si siede a terra pesantemente, infine si stende prona e si addormenta. O sviene. Non si riesce a capire. Nel mentre alcune persone attraversano lo spazio, passeggiano, non curandosi della donna. Niente più che qualche sguardo indifferente, continuando le proprie conversazioni e attività. Solo due giovani prestano attenzione. Si avvicinano. Uno prende il cellulare e riprende mentre l’altro sfila le mutandine alla donna. Questa sembra risvegliarsi. I giovani le gettano l’indumento sfilato in faccia e se ne vanno. Il testo intanto ci racconta quanto amiamo tornare a casa passeggiando e ascoltando musica dal cellulare e come questa musica modifichi il paesaggio, Gli anonimi che guardano e passano, persino i due giovinastri che si approfittano della donna, potremmo essere noi.

Le scene si susseguono fino a quella finale. Una troupe televisiva sta riprendendo un lettino su cui un telo copre una salma. I tecnici e gli assistenti allestiscono la scena e la videocamera per la ripresa. Gli attori chiacchierano. Quando tutto è pronto, entra il ciak e iniziano le riprese. Una donna si avvicina alla lettiga. Un uomo la raggiunge. Sembrano contriti. La scena si interrompe. Va rigirata da un’altra angolazione. Altro ciak. La donna rientra, la camera con carrello a seguire. L’uomo la raggiunge. Dopo un attimo di raccoglimento sfilano il lenzuolo. Appare il cadavere di una donna giovane nella sua più completa nudità. Il cadavere è l’unico personaggio a volto scoperto, interamente visibile, come se solo la morte ci togliesse dall’anonimato. Oppure il nostro occhio riesce a percepire solo il volto della vittima. Il cadavere è sotto i nostri occhi con l’evidenza plastica delle salme da obitorio nelle fotografie di Andres Serrano. La morte nuovamente riempie la scena. Il corpo viene coperto. La scena è finita e noi nel frattempo siamo giunti a casa. Il testo ha raccontato di come ci siamo seduti davanti al computer, abbiamo visto un filmato porno e masturbati. Dopo l’orgasmo ci siamo accorti che la donna che ci ha eccitato è Linda Lovelace, scomparsa ormai da qualche anno. Abbiamo goduto di un’immagine di una defunta. È ora di andare a dormire. Il sipario può calare, l’esperienza è finita.

Kantor diceva che il vero teatro parla sempre della morte. In La Plaza de El Conde de Torrefiel la Nera Signora è onnipresente, pervade tutta la scena. Fine di una cultura che non sa raccontare la vita, morte della e nella realtà quotidiana, dei rapporti umani, dei sentimenti. Si è presa tutta la scena, spazio grigio e asettico come un obitorio.

El Conde de Torrefiel ha da sempre unito il racconto di una realtà distopica a delle immagini che posseggono in sé una sorta di olimpica serenità. Immagini capaci di accostarsi al testo e deflagrare in una pluralità di sensi e prospettive. In La plaza questo stilema viene in ulteriormente sviluppato innanzitutto nel rapporto con il pubblico: non più un semplice osservatore di esperienze altrui come in Guerrilla o ne La posibilidad que desaparece frente al paisaje, ma è direttamente preso in causa, messo in discussione e costretto a rapportarsi con le esperienze che gli vengono imputate. Inoltre la quiete che pervadeva le immagini negli spettacoli precedenti si colora di una feroce crudeltà per quanto asettica e chirurgica. Il collettivo spagnolo sembra brandire una lama, non d’acciaio ma costruita con il paradosso e l’eccesso, con cui disseziona il nostro occhio, solleva le cataratte che gravano sulla nostra capacità di vedere la realtà.

Quella messa in scena de El Conde è une interpellation, come la chiamerebbe Milo Rau, ossia una domanda posta con urgenza, quasi con brutalità alla comunità riunita in teatro. Ci viene chiesto di prendere coscienza di una realtà, dei suoi possibili sviluppi e ci viene ingiunto di assumere una posizione. È un atto artistico e politico. L’arte scenica torna a essere un luogo in cui si misura il proprio tempo e la società in cui si vive, un teatro nonostante si svolga nello spazio deputato, indirizza il suo sguardo fuori dall’edificio, nella piazza del mondo dove accadono le cose. È nel rapporto con il mondo che il Teatro assume significato. Altrimenti resta teatrino, vuoto intrattenimento, corpo morto separato dalla vita.

Visto il 20 giugno 2019 al Festival delle Colline di Torino

Ph: @Els_De_Nil

Agrupation Señor Serrano

Kingdom di Agrupation Señor Serrano: il capitalismo tra le banane e King Kong

Kingdom di Agrupation Señor Serrano, programmato al Festival delle Colline Torinesi, è uno spettacolo di estrema complessità drammaturgica meritevole di alcune riflessioni sull’arte della composizione scenica e sulle funzioni che può assumere il teatro nel contesto sociale.

Partiamo dall’argomento: Agrupation Señor Serrano mette in relazione le banane, prodotto sconosciuto all’Occidente fino al 1890, e King Kong, archetipo della brutalità e istintualità della natura selvaggia, incarnazione dell’energia bruta e distruttiva che deve essere controllata e dominata dalla civiltà e dalla ragione.

Banane e King Kong due icone che possono ben rappresentare la modernità in quanto emblemi della trasformazione dell’uomo da soggetto sociale a consumatore di beni. Esprimono anche l’anima più vera del capitalismo selvaggio, uno spirito seduttore capace di indurre desiderio per qualcosa di cui non abbiamo bisogno ma che improvvisamente ci manca, un genio della lampada pronto a soddisfare tutte le nostre voglie a costo di sfruttare il pianeta oltre le sue reali possibilità.

Il frutto dell’amore e lo spaventoso e incontrollabile scimmione trovano un terreno comune nell’industria dei sogni per eccellenza: il cinema. Questo a partire dal 1933, anno di comparsa sugli schermi del gorilla che si arrampica sull’Empire State Building, inaugurando una serie di costanti e più o meno fortunati remake (non ultimo quello di Peter Jackson del 2007). Il legame tra capitalismo malvagio e banane lo possiamo riscontrare anche in luoghi insospettati. Pensiamo infatti ai Minions, i servitori dei cattivi ma così amati da bambini e simpatici agli adulti: schiavi-operai in un’immensa catena di montaggio industriale e innamorati persi delle banane per ottenere le quali sono disposti a assurde e improbabili follie.

La questione del legame tra malvagità predatoria, banane e scimmie parte però da lontano: nei primi sette giorni di questo mondo, laggiù nel giardino dell’Eden dove Adamo ed Eva mordono il frutto proibito, e non era la mela come siamo stati abituati a pensare ma la banana. Questo l’asserisce l’antica tradizione ebraica e il Corano. La colpa dello scambio di frutti è di San Girolamo che per primo tradusse la Bibbia in latino. Una riprova? Quando Linneo decise di battezzare il frutto con nome scientifico chiamò questo frutto “Musa paradisiaca”.

È solo il preambolo alla vera vicenda, quella dell’avventuriero americano Minor Cooper Keith, fondatore della United Fruit Corporation, oggi Chiquita Brands International Inc., e di come sia riuscito a invadere il mercato con un prodotto di cui nessuno sentiva il bisogno; per farlo diventare in pochi anni uno dei maggiori e più richiesti beni di consumo. Curiosamente Minor Cooper Keith, creatore della prima multinazionale globale nasce nel 1848, anno di pubblicazione de Il Capitale di Marx, e muore nel 1929 inizio della crisi mondiale, come se la sua parabola di vita racchiudesse in sé proprio quel ciclo di espansione e crisi vero motore del capitalismo.

Agrupation Señor Serrano lega i due argomenti a un terzo che affiora più volte come vena d’acqua sotterranea ma costituisce la chiave di volta: l’illusione che tutto stia procedendo per il meglio intrecciata al pensiero costante dell’apocalisse imminente (elemento che già rilevava Ernesto De Martino nel suo incompiuto La fine del mondo). Questa l’immagine più potente di Kingdom: fiducia smodata nella potenza dell’uomo indissolubilmente intrecciata alla sensazione che tutto possa inabissarsi in una notte e in un giorno come fu per l’Atlantide di Platone.

Il viaggio nel mondo delle banane e del capitalismo selvaggio si conclude con una sorta di haka danzata dagli interpreti insieme a una decina di uomini palestrati e dai muscoli massicci. Il machismo e il maschilismo sembrano elementi costitutivi capitalismo insieme all’idea di un uomo predatore che prende e non chiede, padrone di un creato a sua disposizione. La presenza femminile è totalmente assente dalla scena, se non evocata come preda sessuale (ricordiamo ancora una volta King Kong e il suo rapporto con la ragazza rapita, ma anche alle molteplici e immancabili allusioni sessuali nel marketing della banana).

Descrivere questo spettacolo dal punto di vista delle tecniche utilizzate è a dir poco un’impresa. Tutta la complessa narrazione di Kingdom si avvale di quello che si potrebbe descrivere come un vero montaggio delle attrazioni costituito da linguaggi musicali, riprese video, azioni sceniche, danze, proiezioni, immagini di repertorio, oggetti e modellini. Ogni tecnica utilizzata si intreccia, incastra e sovrappone alle altre in un vero bombardamento ritmico che travolge lo spettatore. Il segnale è quasi mai lineare e sempre complesso così da formare una sinfonia a partire dalle singole voci strumentali. Una modalità di racconto quindi non lineare che non procede per semplice accostamento progressivo, ma una galassia di motivi che si sovrappongono e che lo spettatore deve ricostruire. Si prevede dunque una visione attiva, che rimonti i pezzi di un puzzle da migliaia di pezzi. Non uno spettatore che subisce passivo una narrazione ma che la ricostruisca e ne tragga da sé le proprie deduzioni e riflessioni. La parola in questo processo non è che uno degli elementi e nemmeno il più importante, La drammaturgia non è un testo preesistente, ma un complesso edificio che si forma sulla e per la scena grazie alla pluralità dei linguaggi impiegati.

Gli interpreti di questo genere di spettacolo non sono propriamente attori né performer. Sono qualcosa che abita nel mezzo e in grado di risiedere in entrambe le dimensioni a seconda di quanto la scena in quel momento richiede.

Kingdom di Agrupation Señor Serrano, per concludere, non solo è uno straordinario esempio delle possibilità espressive del teatro ma anche di una sua possibile funzione nel contesto sociale. Il teatro come luogo di svelamento dei miti costitutivi della nostra società, un terreno su cui la comunità può mettere in discussione i propri canoni, riflettere sulle contraddizioni insite nel proprio stile di vita. Attraverso la rappresentazione il pubblico può per un istante squarciare il velo degli infingimenti che costituiscono la maschera della civiltà. La frase che ritorna come leitmotiv durante tutto lo spettacolo: “stiamo bene” ricorda la storiella che fa da incipit a L’odio di Mathieu Kassovitz: «un tizio cade da un palazzo di cinquanta piani e man mano che cade si ripete: “fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”. Il problema però non è la caduta. È l’atterraggio». Agrupation Señor Serrano con Kingdom ci ricorda proprio questo: stiamo bene, l’umanità sembra migliorare da ogni punto di vista, ma il prezzo che potremmo pagare è altissimo. Renderci consapevoli che il cielo può caderci in testa in ogni istante era per Artaud, lo ricordiamo, il vero senso di fare teatro.

Visto il 13 giugno al Festival delle Colline Torinesi

Deflorian/Tagliarini

Scavi di Deflorian/Tagliarini: il sublime gioco della composizione

Il 6 e 7 giugno alla Fondazione Merz durante il Festival delle Colline Torinesi è andato in scena Scavi del duo Deflorian/Tagliarini, performance che indica fin dal titolo una modalità di ricerca: i due attori/autori, affiancati in quest’occasione da Francesco Alberici, come archeologi riportano alla luce anfratti nascosti, sepolti, non noti del processo creativo di Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni.

Attraverso quest’opera di scavo paziente e certosino si svilupperà Quasi niente, anch’esso presente nel programma del Festival delle Colline Torinesi (in scena l’8 e il 9 giugno al Teatro Astra), opera diversa e autonoma ma cresciuta attraverso l’attraversamento di un medesimo materiale di base (per la recensione dello spettacolo visto al Teatro dell’arte della Triennale di Milano rimando a questo link http://www.enricopastore.com/2019/02/27/quasi-niente-deflorian-tagliarini/ ).

Gli Scavi di Deflorian/Tagliarini non avvengono con ruspe e badili, ma con strumenti di precisione, delicatamente, in maniera da non graffiare o incidere ciò che appare sotto i detriti. Questo lavorio intenso e dolce è prima di tutto immersione nel materiale, un profondarsi all’interno discretamente, senza imporre le proprie idee e la propria persona, accostandosi, rimanendo in ascolto pronti a percepire ogni vibrazione risonante con ciò che emerge. Un esempio: la mania di pettinarsi dopo ogni scena di Monica Vitti che contrasta con le immagini del film dove è sempre sensualmente spettinata. Il disagio che traspare dai capelli, tutto in quella frase del film: “Mi fanno male i capelli” apre un percorso di risonanze: l’incontro tra Monica Vitti e la poetessa Amelia Rosselli, il brutto rapporto di Daria con i propri capelli e così via, quasi in gioco delle perle di vetro, dove le immagini, gli episodi, i sentimenti si concatenano a partire dal lavoro di scavo nel materiale.

L’azione di scavo è quindi strumento atto a riportare alla luce dei nuclei di senso pulsanti, come vivi muscoli cardiaci, che irrorano le personali esperienze degli attori le quali a loro volta smuovono quelle dello spettatore in un delicato effetto farfalla. Una valanga dolce che non precipita violenta e schianta, ma come polla d’acqua montana tenue e leggera scorre e irrora la terra che attraversa.

Tale delicatezza è frutto innanzitutto di un’abile composizione che dosa i toni e le sfumature e come in un quadro del Tiepolo, dove tutto è in luce anche l’oscurità e gli elementi emergono con forza gentile ma non meno potente. Il materiale di scavo si incastra con il ricordo, con il dolore, con la nostalgia e si riversa sul pubblico che a sua volta si rapporta intessendo le proprie emozioni con quelle narrate, facendo emergere un arazzo diverso per ciascuno. Ecco dunque il perché di quelle sedie sparse per lo spazio, ognuna orientata verso un punto diverso, labirinto visivo ed emozionale che si trasforma in caleidoscopio che a ogni tocco rifrange una diversa immagine. Gli attori attraversano e circondano il luogo scenico, i loro racconti sono vettori che catalizzano gli sguardi creando nuove diverse prospettive a ogni inserto narrativo.

Tramite questo processo il materiale, che potrebbe apparire a uno sguardo superficiale come frutto di una scelta intellettuale, si universalizza, diventa oggetto di incontro tra la platea e la scena, un condividere esperienze, pensieri e sensazioni, smossi proprio da un’immagine o un aneddoto legati al celebre film di Antonioni. Il tema che emerge con potenza è la fragilità, la friabilità della vita che a ogni istante può andare in frantumi o, per usare le parole di Antonin Artaud, che :”il cielo può sempre cadere sulla nostra testa”. In questo risiede la grande efficacia della delicatezza impiegata nello scavo, una sensibilità gentile necessaria allo svelamento, allo sguardo crudele sulla vita. Ci si arriva per gradi, senza violenza per esercitare un atto comunque feroce: quello di guardare senza paura le forze che insidiano la vita, che lavorano per dissolverla. In questo Deflorian/Tagliarini sono diventati dei maestri di composizione del linguaggio teatrale, quello fatto di gesti, parole e movimenti nel tempo e nello spazio, una lingua che parla della via e della morte ed è sempre più raro trovare oggi sulle scene a dispetto della sovrabbondanza di opere prodotte e rappresentate.

medea per strada

Medea per strada: Euripide rivive nelle vie della prostituzione

Al Festival delle Colline Torinesi è in programma fino al 22 giugno Medea per strada del Teatro dei Borgia, regia di Gianpiero Borgia, drammaturgia di Fabrizio Sinisi e l’interpretazione di Elena Cotugno. Lo spettacolo, se così si può definire, non va in scena in un teatro ma in un vecchio pulmino per le strade di Torino diretto verso le sue periferie più lontane.

Il furgone aspetta i sette partecipanti davanti al teatro Astra. È vecchio, ammaccato e arrugginito, all’interno arredato con qualche lucina da addobbo natalizio. Poco dopo la partenza si ferma ad uno stop dove una donna picchia sulla portiera per salire. L’autista senza una parola la fa salire. È molto bella, seppur truccata pesantemente e vestita in maniera un po’ equivoca, e ha un forte accento dell’Est Europa. Chiacchiera del più e del meno, racconta della sua vita in Romania al tempo di Ceausescu, di suo padre e dei suoi fratelli, del viaggio fatto per venire in Italia proprio su un furgone simile a quello.

Il racconto lentamente si intensifica, si inspessisce colorandosi di nero man mano che ci si allontana dalle vie ampie e belle del centro verso quelle anonime e squallide della periferia. La donna, sempre più Medea seppur mai nomini il suo nome, è ingannata nei suoi sogni da un uomo che la sfrutta: il protettore-Giasone, un seduttore che vilmente ingannandola le offre un surrogato d’amore, le concede una casa e diventa anche il padre dei suoi figli. Un illusione di famiglia, un’immagine larva per rendere accettabile la miseria e una vita di sfruttamento. Medea è straniera in un paese che non conosce, senza famiglia e senza amici, sola e costretta a battere le strade. Mentre racconta si prepara per il suo “lavoro”, nell’angusto spazio del furgone si toglie a ripetizione delle mutandine, atto di umiliazione senza fine.

Attraverso il racconto questa donna dai lunghi capelli neri diventa il volto delle migliaia di altre come lei che condividono il suo destino. Dietro i suoi occhi blu, innumerevoli altri occhi guardano i sette spettatori.

Mostra i disegni che ritraggono i suoi figli preannunciando la tragedia. Il furgone intanto si è fermato in Corso Vercelli dove altre ragazze, troppe, ogni giorno vanno a “lavorare”. Medea scende mentre i passeggeri restano seduti imbarazzati.

Risale e si riparte il racconto prosegue, Giasone l’ha lasciata per un’altra donna più rispettabile. Non vuole più saperne dei figli e decide di vendicarsi ma la tragedia non si abbatte solo sulla donna a causa della quale viene lasciata, ma anche su i suoi bambini:”Che altro potevo fare?” chiede disperata, togliendosi il trucco e la parrucca, rivelando così il suo vero volto. Fa segno di voler scendere di nuovo all’angolo di una strada. La vediamo allontanarsi in fretta, lasciando i suoi compagni di viaggio in un silenzio imbarazzato, con l’autista muto che guida verso il teatro da dove tutto è cominciato.

Teatro, lo ricordiamo, deriva dal greco Teatron e significa: “il luogo da cui si guarda”. Un luogo, non un’arte. Un punto di osservazione non necessariamente legato a un edificio. Può essere ovunque. Ma cosa si guarda? Si potrebbe rispondere: la vita e la morte e quindi in senso ampio l’uomo nel mondo. L’etimo e le sue implicazioni sono tutt’altro che vuote curiosità ma la natura stessa di questa Medea per strada. Si è chiamati, come pubblico, a osservare un punto di vista su un mondo che tendiamo a ignorare. Come recita il salmista “hanno occhi e non vedono”.

Quello che appare evidente, rivelata dalla luce del mito antico, è Aletheia, il termine in uso per i Greci stante ad indicare la verità non-nascosta, non dimenticata. Aletheia che velandosi si disvela. Ed ecco il gioco della rappresentazione, la donna a bordo del vecchio pulmino è Elena Cotugno, un’attrice che incarna una figura e allo stesso tempo è narrazione. È finzione che rivela la realtà presente sotto i nostri occhi ma non riusciamo o vogliamo vedere.

Medea per strada potrebbe essere denominato “teatro civile”, ma sarebbe ridurlo in una categoria. È teatro nel senso pieno del termine, luogo da cui si guarda e ci svela una verità sul mondo. Per settanta minuti, attraverso la rappresentazione, osiamo guardare un universo di abuso e schiavitù in grado di fruttare milioni di euro, un racket responsabile di illudere molte donne in cerca di una vita migliore. Le incatena a un incubo di perversione e asservimento al desiderio maschile che è difficile spezzare.

In Medea per strada appare evidente anche una funzione fondamentale della rappresentazione: la presa di coscienza del male del mondo, delle crisi che lo attraversano. Una modalità tramite il quale la comunità di coloro che osservano può pensare e immaginare delle soluzioni per sanare le ferite.

Sul quel furgone in viaggio per le strade delle nostre città non rivive solo la tragedia di Medea, la donna straniera, colei le cui arti fanno diversa ed estranea, ma si palesa anche il senso più vero del fare teatro: aprire gli occhi, imparare a guardare senza distogliere lo sguardo.

Visto al Festival di Torino il 4 giugno 2019

ph: @Andrea Macchia

Pippo Delbono

Chiara Guidi e Pippo Delbono aprono la 24ma edizione del Festival delle Colline Torinesi

Il 2 giugno, Festa della Repubblica, si è aperta la 24ma edizione del Festival delle Colline Torinesi. A inaugurare il programma Chiara Guidi e Claudia Castellucci con Il regno profondo. Perché sei qui? e La gioia di Pippo Delbono.

Chiara Guidi e Claudia Castellucci giungono sulla scena come due anziane signore, a braccetto, Con lentezza decisa salgono sul podio al centro della scena. Sono illuminate dall’alto da una luce a pioggia che cade da una lampada nera a forma di trapezio. Il podio è vuoto eccezion fatta per due aste per microfoni. Le donne sembrano due beghine con un austero vestito nero a righe, le gonne lunghe e severe, le calze nere anch’esse e le scarpe pesanti.

Le donne, chiamate “luogotenenti” perché presidiano un luogo in cui sono arroccate, cominciano a salmodiare un testo fitto di domande. In apparenza questioni religiose o, per lo meno, esistenziali. Si rivolgono direttamente a un interlocutore che potrebbe essere benissimo il pubblico come Dio stesso. Le domande vengono sparate a mitraglia, senza aspettarsi una qualsiasi risposta. C’è dello scetticismo persino nel porle. La cantilena intanto prosegue serrata come una sorta di salmo responsoriale che in verità non fornisce risposta alcuna. È un girare a vuoto su questioni a cui non si crede veramente e su cui vanamente ci si interroga.

Improvvisamente un intermezzo. Le “luogotenenti” si accasciano al suolo e nel buio parole vengono proiettate sul fondo, parole pletoriche che non hanno veramente un’urgenza, sembrano quasi casuali e intervallate da pubblicità assurde di attività artigianali nella provincia di Forlì.

E quindi il ciclo ricomincia, le donne ricominciano le domande, questa volta poste una all’altra in una sorta di dialogo fatto di domande a cui nessuna delle due fornisce risposta e poi ancora un intermezzo. Tre cicli in tutto. E poi le donne escono così come sono venute. Due anziane a presidiare una fortezza costituita da niente, a interrogarsi su vuote questioni senza giungere a un risultato alcuno. :”Casca il mondo. Casca la terra. E sotto non c’è niente” canticchiano le megere. Il tutto sembra un’agghiacciante istantanea di molta cultura odierna, che presidia posizioni inutili, senza porsi dei problemi urgenti e reali, mantenendo modalità obsolete e polverose mentre il mondo è andato avanti e, per dirla con un motto di una famosa serie, l’inverno sta arrivando.

Ottima la regia vocale di Chiara Guidi, una vera e propria direzione d’orchestra di parole che si fanno musica e richiamano il recitar rosari e il cantar salmi nelle veglie funebri. Un dire quasi automatico, abitudinario, svincolato dal fornire significato a quanto si dice, ma che conserva una certa musicalità annoiata come di ronzio. I silenzi e gli intervalli sono anch’essi sapientemente dosati come in un linguaggio musicale, così come il gesto e il movimento che danno l’idea di un rito ma di color funereo.

Se Perché sei qui?, spettacolo che costituisce la terza parte di una trilogia prodotta dalla Societas intitolata Il regno profondo, è opera che agghiaccia di comicità fredda e tagliente, La gioia di Pippo Delbono, primo suo spettacolo senza Bobò, è invece un percorso caldo e commosso verso quell’attimo che sospende la pena, un istante di suprema grazia fragile come lo sbocciare di un fiore, accolto dal pubblico torinese con un lunghissimo applauso e una standing ovation.

Cos’è la gioia? Questa la domanda a cui si può rispondere solo in maniera personale e senza la supponenza di aver sicura e pronta una risposta. Pippo Delbono ci racconta il suo viaggio, compiuto con gli attori della sua compagnia, un cammino lungo costellato di ricordi, di perdite, di ombre e dolori, di faticose risalite da pozzi bui, di incontri illuminanti e radiosi, di profonde disperazioni vinte grazie all’amore. La gioia ricorda in ogni istante come il cielo possa caderci in testa in ogni momento, come ogni vita sia fragile e debole di fronte alle forze che congiurano contro di essa.

Il viaggio di Pippo Delbono diventa per questo universale perché ognuno di noi vede in quelle morti, in quei dolori il proprio calvario, si riconosce e, privo di difese e scetticismi intellettuali, si commuove.

Una zolla d’erba è la prima immagine. Nelson Lariccia appare con un innaffiatoio e la irrora. E poi il buio. Ed ecco che sorge un primo fiore, e poi un altro, infine un giardino. Il tema è tutto in questo primo quadro: lo sbocciar dei fiori dalle lacrime.

Il cammino è tortuoso, bisogna attraversare inferni per giungere a un attimo di paradiso, il seme deve morire e con sforzo spaccare la terra per elevarsi al cielo. Ed ecco scendere dall’alto sbarre di ferro a formare una gabbia intorno a Pippo Delbono, e figure oscure, vampiresche e demoniche invadono la scena percossa da una martellante luce strobo.

Il viaggio è quello di uno sciamano il cui corpo e anima devono essere fatti a pezzi per essere ricomposti da capo. Uno scendere all’Ade verso le ombre dei morti per incontrarli una volta ancora. I ricordi affollano la scena, gli incontri con Bobò,la cui vocina da uccellino risuona nuovamente sulla scena, con Gianluca Ballaré, con Nelson nelle strade di Napoli, con Pepe Robledo che da ormai trentacinque anni condivide il viaggio teatrale con Pippo. E i frammenti degli spettacoli: le barchette di carta diItaca, oggi tristemente più attuali e presenti che mai, i clown di Guerra, la panchina su cui Pippo e Bobò erano Vladimiro ed Estragone in Barboni. In questo rimembrare tutto personale, in questo turbinare di figure che si affollano intorno a Pippo Delbono c’è una spasmodica e tutta umana ricerca della gioia, un condividere il dolore per superarlo, un con-patire che permette di rompere quelle sbarre di disperazione per far sorgere uno straordinario giardino fiorito (opera del floral designer Thierry Boutemy) che nasce appunto dalle foglie morte, immagine finale che si riallaccia, in circolo chiuso e compiuto, con quella dell’inizio.

Vent’anni fa giovane studente di teatro a Venezia ebbi la fortuna e l’onore di essere assistente di Pippo Delbono nella produzione di Her Bijit, spettacolo itinerante nell’Arsenale durante la Biennale di Venezia del 1999. In quell’occasione un giorno, in uno dei rari momenti di pausa, chiesi a Pippo, da studente ansioso di strappare dei segreti al maestro, cosa animasse il suo teatro. Mi rispose, dopo un lungo istante di silenzio, che era il suo modo per esorcizzare il dolore e la paura della morte condividendoli con gli attori e con il pubblico. Quelle parole mi sono tornate alla mente mentre assistevo a La gioia e penso, allora come oggi, che questa è la forza del teatro di Pippo Delbono: la capacità di creare una comunità di persone, in scena e in platea, che condividono una pena e tramite la scena la superano. Anche laddove le immagini possono apparire ingenue, semplici fino alla banalità, esse assumono sempre una delicata sostanza poetica capace di irrompere nei cuori più induriti e aprire loro una via di fuga al dolore.

La gioia forse in fondo è questo: un lungo e difficile percorso di superamento dello strazio e del tormento per godere, magari per un solo istante colmo di commozione, della fragilità e bellezza della vita. E in fondo, come diceva Artaud, il teatro è appunto uno strumento che ci ricorda di come tutto congiuri contro la vita, quel delicato fiore che si erge contro la tempesta e destinato a perder la sua battaglia per essere portato via dal vento.

Chiara Guidi e Pippo Delbono aprono dunque la ventiquattresima edizione del Festival delle Colline Torinesi con due opere diverse per intenti e temperature emotive ma altrettanto potenti. Un debutto di festival di grande intensità con i lavori di due maestri del teatro italiano capaci di toccare, scuotere e commuovere il pubblico.

Ph: @Andrea Macchia