All the good di Jan Lauwers con Needcompany è uno spettacolo-mondo. Si svolge dentro e fuori la rappresentazione, nel presente e nel passato, partorisce doppi concreti o evanescenti alla bisogna. All the good è un tutto-pieno. Potremmo paragonarlo a un buco bianco, un oggetto su cui l’astrofisica fatica a dimostrare l’esistenza pur presupponendola, un corpo celeste che, contrariamente al suo doppio più noto e oscuro, anziché attrarre materia, la rigetta e rimanda nell’universo in tutte le direzioni possibili.
All the good è una sfida. Non si può raccontare, né descrivere. Non nello spazio di un articolo per lo meno. Per analizzarlo ci vorrebbe una tesi di laurea e al solo scriverlo wordpress inizia ad allarmarsi guardandomi con le faccine rosse dell’illeggibilità.
Non resta che provare a giocare lo stesso gioco. Saltare di racconto in racconto. Provare a dire balbettando. Incominciamo dalla fine.
La deposizione di Rogier Van Der Weyden. Una pala d’altare in cui i personaggi occupano ogni spazio possibile sulla tavola di legno. Il Cristo al centro, la Madonna poco discosta. Entrambi cadenti verso il basso e coloro che devono sostenerli sembrano, non solo non averne la forza, ma sono persino messi in posizione tale da essere incapaci di portare aiuto. Quello che colpisce, oltre alla claustrofobia, è la caduta del divino e le lacrime su ogni volto, piccole gocce naturalisticamente perfette, presenti ed evidenti, cristalli scolpiti col dolore del mondo.
Jan Lauwers All the good La deposizione di Rogier Van der Weyden ph: @Andrea Macchia
Le lacrime ci portano a Mahmud, il soffiatore di vetro di Hebron. I suoi vasi tra il blu e il verde acquamarina riempiono la scena. Un’istallazione raccoglie come un enorme scolabottiglie decine di giare di vetro. Nella terra tormentata di Palestina le chiamano le lacrime di Allah. Ogni tanto qualcuno ne rompe una, e nasce un racconto d’arte e di dolore, come lo stupro e la tortura di Artemisia Gentileschi. L’intreccio di richiami tra l’arte e la vita è inestricabile. Si passa da uno all’altro continuamente. E a connettere i due elementi sempre due forze: quella implosiva del dolore, e quella esplosiva dell’amore e della passione.
Jan Lauwers appare per primo in scena. Prova a dirci cosa succederà. Ha scritto un libro (o voleva scriverlo? È molto difficile capire nell’immenso frullatore linguistico in cui fiammingo, inglese, francese, spagnolo, tedesco ed ebraico si scambiano le parti come per gioco e poi: chi lo guarda il sottotitolo mentre davanti a tuoi occhi succede di tutto?); questo libro nessuno lo pubblicherà quindi la storia viene portata in scena ed è una ( o forse mille?) vicenda/e che riguardano la sua famiglia.
Sul palco infatti c’è non solo Jan Lauwers insieme al suo doppio attorico e alchemico, ma la moglie, i due figli. E c’è Elik, il fidanzato della figlia. Ha un passato da soldato in Israele. Ha dovuto uccidere in Libano. E la domanda sottesa è se questa storia d’amore possa reggere al dolore. Forse è la domanda di tutto questo mondo rigoglioso e terribile che sta sorgendo davanti ai nostri occhi.
Jan Lauwers All the good Ph:@Andrea Macchia
Tornando indietro all’insalata linguistica: non è un vezzo espressivo o un’inutile croce da far portare al povero spettatore. É una mina contro l’identità, non personale, ma politica, quella su cui si esercita il potere, per questo sono centrali le storie del soldato Elik e di Mahmud, soffiatore di vetro di Hebron, quell’identità che spinge alla lotta.
In scena oltre alla famiglia Lauwers ci sono anche gli amici, i danzatori della compagnia, la ragazza che ha posato per una fotografa e ha conosciuto il dolore delle pornostar; il colombiano che ha avuto una relazione con la moglie di Jan Lauwers, Grace Ellen Barkey (siamo nella finzione o nella realtà? Ce lo si chiede per tutta la durata dello spettacolo), e i musicisti, anche loro raccontatori di storie (per inciso indossano maschere di animali). Ci sono tante persone e tanti oggetti sul palco da temere che non ci sia spazio sufficiente, esattamente come nella pala d’altare di Rogier Van Der Weyden.
Le storie si affastellano su quella principale. Alcune sono solo accennate e non raccontate veramente. Non c’è il tempo e nemmeno lo spazio. Sono e siamo tutti compressi sul palcoscenico. I linguaggi si mischiano: danza, proiezioni, racconto, canto, musica. Tutto concorre a questo vortice, al buco bianco nato per scagliare materia incandescente, solida, fluida, incorporea, semplici fotoni di luce pronti a cantare all’unisono anche ad anni luce di distanza. Un fiume in piena, venato di correnti di dolore, di morte, di strazi commessi dall’uomo sull’uomo. E si torna dunque a quel Cristo dipinto da Rogier Van Der Weyde, quel Cristo caduto per cui tutti versano lacrime, e si ha la sensazione che noi, artisti e pubblico, siamo alla fine incapaci, come i personaggi del quadro, di trattenere il Figlio dell’Uomo deposto dalla croce.
Jan Lauwers All The Good ph: @Andrea Macchia
Ci vuole forza a vedere tutto il buono del mondo. Un’energia capace di sfuggire all’orizzonte degli eventi di un buco nero rotante e supermassivo. Questa potenza e vitalità sembra essere la prerogativa degli artisti: ritrarre l’umanità, sollevare dalle ceneri della distruzione immagini che sappiano parlare non di un mondo possibile e diverso, ma di ciò che val la pena di esser vissuto e provato in questo.
All the good in questo gioco serissimo tra finzione e realtà, prova a cantare di ciò che è bene nonostante le lacrime e la perdita di solidarietà in atto nelle nostre società occidentali, ricche e malate. È uno sforzo immane strappare il bene al vortice distruttivo in cui il mondo sta cadendo, ma è questo ciò forse resta da fare, ciò che rende l’arte necessaria. Far brillare tutto il bene nonostante tutto. O forse, come diceva Calvino: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Visto durante il Festival delle Colline Torinesi al Teatro Astra il 5 novembre 2021
Il Festival delle Colline Torinesi procede con la sua 26ma edizione e se con Mundruczó e Miriam Selima Fieno si è toccato con profondità il tema del rapporto tra realtà e rappresentazione, con i due spettacoli seguenti Livore di Vico Quarto Mazzini e The Mountain di Agrupación Señor Serrano il tema dominante sembra essere quello della manipolazione delle nostre vite e delle informazioni.
In Livore il pretesto è la leggenda della rivalità tra Mozart e Salieri (sia da Puškin, sia da Shaffer nel famoso Amadeus di Miloš Forman) su cui ruota la storia dei tre personaggi in scena interpretati da Michele Altamura, Francesco D’Amore, Gabriele Paolocà. Il primo è un attore di talento ma costretto, per carattere e fortuna avversa, nel limbo dei palchi anonimi del teatro di ricerca; il secondo è un attore mediocre ma di successo; il terzo è il suo amante e produttore.
Francesco D’Amore in Livore
I tre sono avvinti da un serpente grigio di livore e gelosia nei confronti degli altri. Si invidia il successo, l’ammirazione, l’amicizia, le influenti conoscenze, l’amore. Ognuno manca di qualcosa creduto saldamente nelle mani dell’altro. Quando Amedeo, l’attore povero e talentuoso, piomba in casa dei due amanti, intenti a preparare una cena cui parteciperanno personaggi influenti pronti a far decollare la carriera di Antonio, si entra in una spirale in cui l’educazione non riesce a trattenere i sentimenti malevoli che scorrono non troppo sotterranei.
Tutto si svolge in un involucro narrativo costituito di molti cliché: il talento e la povertà stanno in chi fa un teatro di ricerca, il successo e la mediocrità in chi ha successo; quest’ultimo si ottiene solo con le “conoscenze influenti”; il triangolo di gelosie è tipico, persino le recriminazioni e le invidie sono comuni. Apparentemente sembra un difetto drammaturgico, ma dopo attenta riflessione appare chiara la trappola: noi tutti siamo esseri comuni e per nulla straordinari, tutti sottoposti a cliché nelle nostre piccole invidie. Ogni volta che apriamo un social ci appare splendida la vita e il successo degli altri, ne pensiamo male senza mai rallegrarci per loro. Vediamo solo l’erba di un verde magnifico e patinato del giardino del vicino. Pensiamo male per abitudine, per noia, perché scontenti delle nostre vite, perché la vita è altrove.
Livore di Vico Quarto Mazzini
Il livore ci contamina in ogni istante, ci rende rabbiosi, incapaci d’amore e compassione. La trappola si svela nella crudele scena finale dove Antonio si siede con noi, tra il pubblico, mentre Amedeo e il produttore preparano insieme un cocktail deridendolo. Questo venire tra il pubblico, questo inglobarci nella storia accomuna i nostri cattivi sentimenti verso gli altri generati però da una sottile manipolazione.
L’esposizione delle nostre vite o, meglio, di momenti scelti accuratamente nel flusso comune di quotidianità mediocri, ci mostra sempre felici, pieni di amici, nel successo, in vacanza, nella felicità. Chi guarda non può che invidiare, preso dai problemi di tutti i giorni, dalle miserie in cui tutti siamo immersi, nei momenti di solitudine e abbattimento, nella noia da social. Eppure è solo un’illusione. Nessuno di noi è sempre felice, nessuno di noi è costantemente baciato dal successo. Davanti ai nostri occhi si è posata una lente deformante, un modificatore del mondo pronto a produrre giornalmente il ripetersi di schemi comportamentali volti a ricevere consenso. L’infelicità non acchiappa like. Una volta Guccini disse a un concerto che non si scrivono canzoni su amori felici perché non interessano niente a nessuno, sono quelli tristi che intrigano. Questa è la trappola del livore e Vico Quarto Mazzini, attraverso un pensiero indiretto, rende evidente il peccato comune di un’intera società.
The MountainAgrupación Señor Serrano
The Mountain di Agrupación Señor Serrano tratta il tema della manipolazione delle informazioni in maniera più diretta, mettendo insieme, come di ormai di prassi, elementi estremamente eterogenei ma capaci di disegnare un mosaico da cui risalta la questione sottesa. Cosa hanno a che fare La guerra dei mondi di Orson Wells, Vladimir Putin e la conquista dell’Everest da parte di Mallory?
L’essere fatti e persone creatrici di una realtà sfuggente e controversa in cui la verità sparisce dall’orizzonte lasciando sul campo solo il dubbio.
Mallory è stato visto per l’ultima volta a 240m dalla vetta dell’Everest: l’ha raggiunta? Il fatto di non avere documenti fa si che, anche avesse compiuto l’impresa, non sia possibile determinarne con certezza la verità dell’avvenimento? Il corpo ritrovato settancinque anni dopo non risolve il mistero: non si è trovata la macchina fotografica, unico elemento utile a risolvere la questione, ma non si è rinvenuta nemmeno la foto della moglie Ruth a cui Mallory aveva promesso di seppellirla nella neve in modo da essere entrambi sulla vetta della montagna più alta del mondo. Tutto rimane incerto.
La guerra dei mondi, spettacolo radiofonico di Orson Wells andato in onda il 30 ottobre 1938, fece credere agli americani di essere invasi dai marziani. Scene di panico in tutta la nazione, nonostante gli avvisi prima e dopo la trasmissione, costrinsero Wells a delle scuse pubbliche affermando di non aspettarsi per nulla di generare un tale putiferio. Eppure diciassette anni dopo lo stesso Wells dichiarò di essere stato assolutamente consapevole. Voleva testare il mezzo radiofonico e far capire agli ascoltatori che non tutto quello che dice la radio (e facebook, riferimento aggiunto con abile manipolazione) è vero. Ma a quale Orson Wells dobbiamo credere: al primo? Al secondo? A tutti e due?
Putin, il cui volto prende forma a partire da una contraffazione digitale del viso della performer Anna Pérez Moya, ci avvisa con candore essere la verità ormai dissolta. Vi sono solo molte versioni di un fatto di cui nessuna gode di maggior credito. Ci spiega anche come creare un sito di fake news: si crea un dominio e un sito. Lo si riempie di notizie vere e accreditate per far crescere l’attenzione e il consenso e poi, piano piano lo si inquina con informazioni false. Il sito ovviamente si chiama The mountain. Esiste o no? Non resta che controllare.
Nel nostro mondo non è facile comprendere cosa sia vero, quali fatti siano concreti, e quale sia la versione più credibile. La pandemia è stato un grande laboratorio sotto questo aspetto. Nessuno, nemmeno il più smagato, colto, riesce più a discernere il vero dal fasullo. Persino questo scritto che non ha altri intenti se non quello di far riflettere su due spettacoli teatrali, potrebbe essere fasullo e gli spettacoli inesistenti. Solo chi ha visto può sapere e comunque non essere d’accordo. Niente può stabilire se quanto dico io o i miei eventuali detrattori possa avere una qualche sostanza.
Siamo tutti manipolati dai media e dalle informazioni. Persino le nostre preferenze e le nostre emozioni sono guidate, provocate, istruite. Il caso Cambridge Analytica è stato il campanello d’allarme più evidente su come le nostre democrazie e il diritto di voto siano ormai preda dei metadati e di chi li sa far fruttare muovendo le masse.
È uno scenario desolante. The mountain di Agrupación Señor Serrano e, in maniera molto più morbida Livore di Vico Quarto Mazzini, ci mettono di fronte a quella che forse è la questione più importante di questo inizio secolo: siamo ancora padroni del nostro mondo e di noi stessi? Il libero arbitrio è ormai un’illusione (pensate al cartone animato Inside out)? E se non è più possibile parlare di verità su cosa basiamo le nostre convinzioni? Solo sul consenso? Ciò che la maggioranza crede è dunque vero?
Ormai non è più una questione di fantascienza politica. È la realtà che abitiamo e impone una reazione di un’intera civiltà. Ne va della sua salute e salvezza.
A partire dall’Umanesimo e in seguito col Rinascimento, il teatro come forma d’arte ha intrattenuto un certo rapporto ambiguo con la realtà. Se per i Greci la questione era la verità intesa come Aletheia, ossia uno svelamento di ciò che è nascosto sotto le pieghe della realtà per un suo emergere evidente davanti agli occhi, per l’Occidente sorto dal cantiere sperimentale del Medioevo, la questione si spostava, e non solo in teatro, verso la rappresentazione del reale. Calderon de la Barca parla di Gran teatro del mondo, né accenna anche Shakespeare. Appare sempre più evidente con l’epoca barocca che il mezzo teatro vuole essere uno specchio del reale.
Con la fretta necessaria agli articoli brevi giungiamo d’un balzo al Novecento dove, dopo gli eccessi naturalistici e illusionistici dei Meinenger, si giunge alla ricerca di Stanislavskij, con cui si aggiunge uno scavo intimistico, attraverso l’azione fisica, verso un rispecchiamento del reale che si unisce alla verità del sentimento. L’avanzare del Novecento però porta a un nuovo e interessante atteggiamento: influire sul reale attraverso la rappresentazione. Ciò che avviene in scena è una modalità di intervento sulla realtà vissuta nel quotidiano. È azione politica, artistica, utopistica e immaginativa. Si vuole cambiare il mondo attraverso una visione dello stesso. Un rapporto attivo si viene a instaurare tra ciò che è e ciò che si rappresenta, dove quest’ultimo può, o dovrebbe essere, motore di cambiamento del primo.
Con l’avvento del Ventunesimo secolo, e soprattutto con l’avanzata della virtualità digitale, la questione si sposta in territori finora non mai battuti. La domanda diventa cosa è reale? Esiste una qualsivoglia possibile verità? È possibile definire una realtà oggettiva da tutti vissuta, o ci si deve accontentare di mostrare un punto di vista, un approcciò più o meno efficace con ciò che convenzionalmente chiamiamo mondo? Verità è manipolazione? Si fa fatica a capire cosa è reale e non solo cosa sia vero, ma se sia sensato parlare di verità.
Al Festival delle Colline Torinesi si è potuto assistere a due interessanti performance in cui la questione del rapporto con la realtà dei fatti viene affrontata con urgenze quanto mai impellenti e innovative. Parlo di Imitation of life di Kornél Mundruczó e Fuga dall’Egitto di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio.
Imitation of life fin dal titolo pone la controversa serie di quesiti in evidenza. Un titolo che è di per se stesso una mise en abyme: il teatro è imitazione della vita? La nostra personale esistenza è a sua volta imitazione delle vite delle generazioni precedenti, per noi fonti di cultura, abitudini e pregiudizi?
Lo spettacolo inizia con un filmato in cui a una donna anziana di etnia Rom viene comunicato lo sfratto. Appare subito chiaro l’interesse economico della società privata che agisce per mandato del comune per gentrificare il quartiere. Bisogna far sloggiare i Rom per riqualificare le proprietà immobiliari. Il video pare una testimonianza reale di qualcosa avvenuto veramente in Ungheria, ma il sipario si alza e vediamo lo scenario della ripresa video. La casa in questione non è una casa vera ma la scenografia entro cui agiscono gli attori. Non abitiamo nel documentario ma nella fiction.
La donna anziana si sente male e il liquidatore, suo malgrado è costretto a chiamare i soccorsi. La conversazione con il 118 ungherese è agghiacciante: i soccorsi non arriveranno in tempo utile per questione di priorità e quel particolare quartiere non lo è. L’uomo si sente in colpa, non sa se abbandonare la donna al suo destino o provare a fare qualcosa. Si decide a consigliarla, all’arrivo dell’ambulanza, di farsi portare in ospedale in modo così da bloccare lo sfratto. L’uomo esce.
Lo scenario cambia. Cade una pioggia vaporosa su cui viene proiettato un filmato: un incontro della donna col figlio in un albergo del centro dove lui esercita la professione di prostituto. Il ragazzo è scappato di casa a causa di un padre violento e soprattutto perché rifiutava le sue origini tzigane. Voleva non essere discriminato. Quello che vediamo è probabilmente un ricordo. Qualcosa di avvenuto prima e ora, forse, visione della donna in punto di morte.
Lo scenario cambia ancora. La casa comincia lentamente a ruotare di 360 gradi sull’asse verticale. Tutto all’interno crolla e si sfascia. È una scena molto lunga, suggestiva e violenta. Quando ritorna in assetto ecco tornare il liquidatore con una giovane donna. Nonostante la casa sia allo sfascio, l’uomo cerca di convincerla a firmare un contratto di locazione alle stesse condizioni della vecchia e per la stessa truffaldina società. La giovane, costretta dall’indigenza, ma è costretta a mentire perché la csa è per una persona e lei ha ha un figlio. Appena uscito il liquidatore, lo fa entrare di nascosto in casa.
La madre riceve dei messaggi da parte di un ex amante. Costui è insistente e nonostante appaia chiara la natura burrascosa e violenta del loro rapporto, lei accetta di incontrarlo lasciando solo a casa il figlio. È in questo momento che accade qualcosa di inaspettato. Scende ancora la pioggia su cui viene proiettata l’immagine del figlio dell’anziana signora in una stanza d’albergo con la sua amante. Litigano e nel mentre appare il bambino. Il ragazzo lo insegue e in questa rincorsa labirintica nei corridoi dell’albergo eccolo aprire una porta e piombare in casa. Subito la riconosce per quella della madre. Il bambino dice che è morta e ora sono loro ad abitarla.
Tutto sembra una prosecuzione del racconto. Arriverà la madre del bambino? Cosa le è successo? E che farà il ragazzo apparso per magia e ora con una katana in mano per tagliare una semplice mela? Il sipario improvvisamente cala e viene proiettato un testo in cui si racconta l’uccisione di un bambino con un colpo di spada da parte di un uomo di origine Rom. Questo ha creato scalpore nell’opinione pubblica ma solo fino quando si è scoperto che anche il bambino aveva le stesse origini. La storia è vera.
Imitation of life
Tutti i piani sono ora svelati: abbiamo un fatto di cronaca reale e una drammaturgia derivata. Gli attori interpretano dei ruoli mostrando allo spettatore una realtà sociale intrisa di pregiudizi quanto mai reali, soprattutto oggi dove, a governare l’Ungheria, vi è un partito di estrema destra e un regime al limite della dittatura. I personaggi però sono ingabbiati nelle parti che ha scelto per loro, non il drammaturgo, ma la vita reale stessa. Il lavoro dell’attore nella creazione dei personaggi è limitato proprio dalla realtà che si vuole rappresentare: il liquidatore è razzista e non sopporta i Rom, la donna anziana ne è orgogliosa nonostante gli innumerevoli affronti ricevuti durante tutta una vita, il figlio di lei rifiuta le sue origini perché discriminato. Le loro vite immaginarie non sono frutto di scelte artistiche ma di un’immersione in un ambiente e in una cultura che fa giocare loro una partita già giocata infinite volte, non nella fiction, ma nella realtà.
Si imita la vita nella realtà come nella rappresentazione. Se fosse solo questo saremmo in un territorio conosciuto, ma è solo una falsa impressione. Verità, immaginazione, illusione, oggettività si mischiano a tal punto da confonderci. Il filmato sembra vero, un documento reale di un fatto accaduto, ma scopriamo essere parte della rappresentazione e quando siamo ormai tranquilli di abitare solo una storia, certo con riferimenti a una realtà politica difficile, ingiusta e violenta, ma pur sempre parte di una fiction, ecco che irrompe nel finale nuovamente la realtà.
Imitation of life è uno specchio del mondo con molti piani di rifrazione. Difficile stabilire quale immagine sia quella esistente e quali semplici proiezioni della stessa. È come la scena del padiglione degli specchi ne Il mio nome è nessuno di Tonino Valerii: anche se si rompono, non si riesce a trovare Terence Hill.
Fuga dall’Egitto
Diverso il punto di vista di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio. Lo spettacolo trae origine dal libro Fuga dall’Egitto di Azzurra Meringolo Scarfoglio e vuole raccontare la diaspora di intellettuali, medici, artisti dall’Egitto post rivoluzionario in seguito all’avvento della giunta militare guidata da Abdel Fattah al-Sisi. Migliaia di persone sono scappate dal proprio paese dopo aver vissuto l’ebbrezza di essere riusciti a far cadere il regime di Hosni Mubarak e l’aver, in seguito, impedito la deriva integralista del successore Mohamed Morsi.
Come disse Dante: “noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto”. Al Sisi prende il potere insieme ai militari e dal 2014 si assiste nel paese a un’escalation di repressione, sparizioni, incarcerazioni ingiustificate. Testimonianza di ciò le tragiche storie che hanno colpito il nostro paese con la morte di Giulio Regeni e l’ingiusta e continua detenzione di Patrick Zaki.
Miriam Selima Fieno costruisce una performance in cui racconta la sua volontà di narrare quest’esodo. Lo spettacolo parte proprio da qui, dalla storia recente dell’Egitto e dalla collaborazione con la giornalista Azzurra Meringolo Scarfoglio. Miriam per prima cosa vorrebbe andare in Egitto ma la giornalista la sconsiglia caldamente proprio dopo quanto successo a Giulio Regeni. Il rischio della vita è concreto. Così Miriam muta obbiettivo, raccontare l’esodo insieme a chi l’ha vissuto. Contatta quindi degli esuli, ora rifugiati in vari paesi d’Europa, e costoro immediatamente accettano la collaborazione.
A questo punto nascono i dubbi, le domande e le incertezze. Questo rimuginare e domandarsi costituisce la spina dorsale dello spettacolo. Miriam Selima Fieno condivide le sue difficoltà e paure con il pubblico: cosa sto raccontando? E utile quanto sto facendo? È incisivo? E soprattutto: è giusta la strada che sto intraprendendo?
La narrazione prosegue: alcuni collaboratori si ritirano per paura: persino all’estero possono giungere le ripercussioni da parte del regime. Nel 2020 scoppia la pandemia che rende tutto ancora più difficile. Finalmente Miriam riesce ad incontrare i tre esiliati (nell’ordine Bahey El-din Hassan, Taher Mokhtar, Ahmed Said) con cui ha mantenuto il contatto e la materia si surriscalda. Si avverte negli occhi e nelle parole di questi tre uomini la delusione, la solitudine, la sconfitta, di chi ha creduto in una rivoluzione e ha perso. E la cui fuga ha costretto a lasciare indietro affetti, famiglia, figli, amici. Così dalle parole di questi uomini sorge una domanda scomoda per il pubblico e per la stessa artista: perché volete parlare e ascoltare dell’Egitto quando l’Italia e il suo governo sono tra i principali partner commerciali dell’Egitto vendendo al regime di Al Sisi strumenti di controllo telematico e armi? Perché non vi ribellate al vostro governo complice del degenerare di un regime militare?
Siamo tutti presi in causa. Siamo complici silenti e non basta commuoversi per i “poveri” rifugiati. Siamo abituati in Occidente a spettacoli o libri che ci parlano degli orrori nelle altre parti del mondo, ma tornati a casa o posato il libro, la nostra preoccupazione svanisce nell’autocompiacimento di non essere come gli altri, di essere progressisti, informati, colti, non affetti da pregiudizi, blandamente impegnati politicamente. Miriam si accorge di questo rischio e si chiede cosa fare. Emblematica e suggestiva la scena in cui discute con se stessa proiettata sugli schermi.
Fuga dall’Egitto
Miriam si accorge che alla narrazione mancano degli elementi. Il primo è incarnato in scena da Yasmine El Baramawy, autrice live delle musiche di scena. Yasmine racconta la rivoluzione delle donne. Mostra un video di uno stupro in piazza, durante le proteste. Le donne, in questo evento storico, sono le vittime silenziose e non difese da nessuno, e questo sia prima, nel momento della speranza, sia dopo con l’avvento del regime.
L’ultimo elemento, quello che conclude lo spettacolo, è la voce stessa del regime. Si proietta un’intervista pubblica di Al Sisi in cui alla domanda del giornalista se ci siano sparizioni e incarcerazioni ingiustificate, il dittatore nega. Eppure le fonti parlano di sessantamila persone desaparide, continua il giornalista. Al Sisi sorridente nega ancora. La storia è ora completa e lo spettacolo può terminare.
Fuga dall’Egitto intesse un’interessante rapporto con quello che chiamiamo realtà. Innanzitutto per quanto si cerchi di essere oggettivi e obiettivi il punto di vista di chi narra è sempre presente: quella raccontata da Miriamo non è la Storia ma la sua storia intessuta insieme a quelle dei quattro rifugiati.
Inoltre si pone la questione documentale. Nella nostra epoca questi sono sempre più fragili e manipolabili. Viviamo in un tempo in cui le fake news inquinano ogni possibilità di raggiungere la verità. E quindi come si può raccontare un fatto, un evento, una vita? Possiamo forse accontentarci di fornire solo una parziale visione sperando di convincere l’occhio che guarda della nostra onestà e imparzialità? E nel far questo possiamo sperare di cambiare le cose e costruire un mondo diverso? Oppure è solo uno sforzo vano, e il massimo raggiungibile è l’applauso del pubblico?
Queste sono domande non solo di Miriam ma anche di chi scrive ogni volta che scrive. Penso anche di chiunque cerchi secondo coscienza di dar conto di ciò che avviene intorno a lui o lei. Realtà e verità sono concetti sempre più relativizzati dal costante inquinamento delle informazioni e, paradossalmente proprio dall’abbondanza dei documenti. L’innumere annulla il segnale, lo azzera e tutto diventa confuso. La domanda finale diventa: il teatro può ancora pensare, come nello scorso secolo, di poter essere motore di cambiamento delle coscienze?
Miriam e Nicola con molta umiltà, ostentando tutti i difetti e i dubbi, con estrema onestà intellettuale condividono con noi un percorso su una questione che ci riguarda (ricordiamo Giulio Regeni e Patrick Zaki). Interrogarsi in merito è il minimo che possiamo fare come spettatori.
Il merito di Miriam e Nicola è di aver provato a mettere di fronte ai nostri occhi una realtà scomoda, evidente e nascosta allo stesso tempo. Lo hanno fatto con strumenti ancora debitori di altre ricerche (soprattutto Milo Rau e Agrupation Señor Serrano), ma sulla strada per costruire un loro modo di raccontare il mondo. La sincerità e onestà con cui hanno condiviso il loro percorso li ha ripagati e il pubblico li ha gratificati di una giusta standing ovation. Ora bisogna continuare il cammino e affrontare nuove sfide. Auguro loro di proseguire con questo impegno e con questo entusiasmo, senza mai smettere di porsi domande scomode e rimanendo fedeli alla sincerità che ha accompagnato questa loro Fuga dall’Egitto.
Durante
la permanenza al Festival Inequilibrio
di Castiglioncello,
è sorta insistente una domanda, un rovello insistente, quasi un
personaggio pirandelliano che reclamava attenzione, ossia se l’opera
d’arte come oggetto piuttosto che come processo avesse ancora una
credibilità. A questa ne seguiva una seconda e più urgente: quali
ruoli e funzioni sono ancora possibili per il gioco della
rappresentazione? Nel Doktor
Faustus
di Thomas Mann
si può leggere un passo che richiama il quesito posto: «vien
fatto di chiedersi se allo stato attuale della nostra coscienza,
della nostra conoscenza, del nostro senso della verità, questo gioco
sia ancora lecito, ancora spiritualmente possibile, ancora da
prendersi sul serio, l’opera come tale, la forma autonoma in sé
conchiusa abbia ancora qualche relazione legittima con la mancanza
completa di sicurezza e armonia, con la problematicità delle nostre
condizioni sociali, e se qualsiasi apparenza, anche la più bella e
proprio la più bella, non sia oggi diventata una menzogna».
Declinata teatralmente la questione diventa: la rappresentazione di
una dinamica narrativa, di un racconto in cui in qualche modo bisogna
credere abbandonandovisi è un fenomeno inadatto al contemporaneo?
Non è forse più efficace, e quindi anche più necessario, il
dispiegarsi, il rendere palese il gioco di finzione, il rendere
visibile il meccanismo al fine di ottenere non un processo di
immedesimazione ma piuttosto di conoscenza e critica del reale?
Il
quesito è diventato vero tormento in seguito alla visione di Cirko
Kafka
di Roberto Abbiati
e Claudio Morganti e
della prima traccia di Pelléas e
Mélisande
della Compagnia Abbondanza Bertoni.
In entrambi i casi veri e propri maestri del teatro e della danza
hanno presentato dei lavori di grande levatura tecnica e bellezza
visiva. Il primo si presenta come un giocoso, ma non per questo meno
terribile, meccanismo di tortura. Un processo che Josef K. subisce
nella piccola stanzetta di un sottotetto e non riesce mai a farsi
tragico ma nemmeno pienamente comico. L’ingranaggio in cui cade Josef
K, costituito da una finissima partitura di azioni e suoni, procede
come un carillon inceppato, a scatti, per piccole farse ed episodi,
sempre in bilico tra una trasognata levità e l’inquietante
ineluttabilità dell’insensato procedimento. Pelléas
e Mélisande,
sulle note dell’omonima opera di Schönberg,
presenta invece una danza dal sapore classico seppur contaminata con
movimenti sgraziati e quasi parodistici che si sviluppa in ricamo
dietro a una serie di proiezioni: tre melograni che spandono pian
piano il loro succo inzuppando di rosso il bianco telo su cui son
posati, le acque in movimento focoso o cullante a raccontare
l’intensa vicenda emotiva e tragica del triangolo Pelléas, Mélisande
e Golaud.
Entrambi
i lavori, seppur uno finito e l’altro in fase di lavorazione,
rimandano a una concezione dell’opera d’arte come risultato estetico
di una ricerca sul linguaggio espressivo del corpo sia esso quello di
un attore o di un danzatore, frutto di tecnica e ingegno, e destinata
a essere ammirata con gli occhi e compresa con l’intelletto. Un’opera
d’arte dunque come oggetto opaco, da decifrare, che rimanda a un
mondo letterario a sua volta prodotto di cultura e di ricerca
linguistica ed estetica, la cui funzione dovrebbe essere
principalmente di presentarsi come oggetto dello spirito che allo
spirito ritorna e lo modifica essenzialmente. Questo gioco prevede
una certa dose di ingenuità che porti a credere in ciò che si vede,
a immedesimarsi e compatire, nel senso proprio di sentire insieme.
Questo è ancora possibile? Possiamo ancora abbandonarci a un atto di
fede? O come diceva Carmelo Bene dovremmo piuttosto chiamare la Croce
Verde? La rappresentazione può essere ancora intesa come mezzo per
comunicare prodotti dello spirito frutto di ricerche
linguistico/estetiche?
Qualcuno
potrebbe pensare che il discorso sia ozioso. Altri ancora invece
potrebbero dire che il dibattito filosofico ha già analizzato la
questione e già da molti decenni (lo stesso passo di Thomas
Mann risale
al 1947), e che già Duchamp aveva posto le basi per concepire
l’opera d’arte come frutto di conoscenza e prassi di una filosofia.
Nonostante queste obbiezioni lecite e legittime, credo che il
problema si stia ripresentando con una certa urgenza, come se il
dibattito avvenuto durante il corso di tutto il Novecento non abbia
risolto il problema: quali funzioni sono ancora possibili per l’opera
d’arte? L’opera di rappresentazione come oggetto culturale ha ancora
una ragion d’essere? È essa stessa necessaria alla nostra società?
Se
per esempio prendiamo Atlante
dell’attore solitario
di Marcello Sambati,
dove un grande interprete dotato di maestosa tecnica si presenta come
corpo quasi addormentato, trasognato, ma anche in qualche modo
torturato e attraversato da dolori e dissidi e che dà voce a tutto
questo con sussurri, mormorii, afflati poetici e tragici, ecco di
fronte a questo dispiegarsi di mezzi espressivi di alta scuola, si
rimane pur tuttavia freddi, distaccati, privi di empatia, come se non
ci si credesse a questo gioco, come se mancasse un terreno comune tra
pubblico e opera viva. Si ha l’impressione che tutto sia un inganno.
Non a caso il Novecento teatrale si aprì proprio con il famoso :”Non
ci credo!” di Stanislavskij.
La
rappresentazione può ancora giocare sul terreno di questa fiducia
dell’occhio che guarda, in questa immersione in un mondo alieno,
frutto di tecnica e abilità? Oppure oggi quell’occhio è stato
tagliato e violato così tante volte che necessita di altre regole
d’ingaggio? Voglio precisare che la questione che sto cercando di
porre non mette in discussione la qualità dei lavori, anzi forse a
maggior ragione si pone proprio a causa del loro esito di alto
livello. Il problema sono le funzioni attribuite e attribuibili alla
rappresentazione. La domanda prevede multiple se non infinite
risposte che vanno ricercate.
Tra
le opere viste a Inequilibrio
e che aiutano a gettare uno sguardo sul problema vi sono One
mysterious thing, said and cummings, What can be said about Pierre e
Olympia,
tre pezzi brevi di Vera Mantero,
danzatrice e performer portoghese, che si presentano non come oggetti
estetici ma come veri e propri atti di pensiero in movimento. Vera
Mantero
utilizza la rappresentazione come messa in questione della funzione
dell’arte stessa. In One mysterious
thing, said and cummings
affronta la dicotomia tra cultura e natura o, se volessimo utilizzare
un vocabolario desueto, tra cultura e civilizzazione, dove la prima
può tranquillamente convivere con l’origine animalesca, crudele e
ctonia, mentre la seconda tende ad ammantare i prodotti dello spirito
di un vapore di positività didascalica ed educatrice. A partire
dunque dal volto truccato e splendido nella sua bellezza ecco la luce
illuminare gradualmente un corpo i cui piedi sono zoccoli fessi di
fauno. In What can be said about
Pierre
ci si chiede come possa avvenire l’atto conoscitivo attraverso
l’accostamento tra una lezione radiofonica su Spinoza di Gilles
Deleuze e
una danza che tende a esplorare tutte le possibilità espressive. Da
ultimo, in Olympia,
ispirata dal celebre quadro di Manet,
si mette in discussione attraverso una lunga citazione da
Asphyxiating Culture
di Jean Dubuffet,
il ruolo dell’arte come espressione del potere politico e che
ricorda, non poco, l’avversione di Carmelo Bene nei confronti dello
Stato quando si occupa di cultura e la asserve ai suoi fini
snaturandone la carica eversiva.
Vera
Mantero
utilizza i linguaggi artistici non per esibire un pensiero, né per
presentare un prodotto estetico, ma come piano di dissezione del
materiale al fine di generare un processo che demolisca gli idoli del
pensiero stesso. I lavori messi in scena sono degli anni ’90 ma
presentano una modalità valida ancor oggi e delineano una possibile
funzione del gioco della rappresentazione.
Medea
per strada
del Teatro dei Borgia,
e di cui abbiamo già trattato durante il Festival
delle Colline Torinesi,
testimonia un altro possibile esito: la finzione si dimostra per
quello che è, non finge di essere realtà. Tutti sanno che chi parla
è un’attrice e non una vera prostituta, ma quella maschera che ci
accompagna in viaggio sul furgone sgangherato fa parlare attraverso
di sé tutta una realtà che tendiamo a rimuovere e che riappare
davanti ai nostri occhi proprio grazie al meccanismo di finzione. Si
recupera dunque la funzione greco tragica dove la rappresentazione
permetteva di trattare un argomento incandescente altrimenti
intoccabile e intangibile. Solo attraverso la maschera della finzione
appariva aletheia,
la verità che velando disvela. Questione questa che attraversa tanto
teatro di Milo Rau
soprattutto nel suo lavoro dal titolo The
Repetition
e il reenactment
nel suo complesso. Quello che vediamo non è certo l’atto originale,
ma nel rimetterlo in scena, nell’attuare i fatti ancora una volta si
svela e analizza il processo che lo ha generato.
Questi
pochi esempi tratti proprio dalle opere viste a Inequilibrio
indica quanto sia vasto il campo di ricerca e attuale il problema e
come siano diverse le possibili risposte al quesito. Stando di fronte
all’opera d’arte tradizionalmente concepita si avverte ormai un senso
di disagio che affligge anche i migliori esiti. Si avverte come la
necessità per l’arte di essere qualcos’altro, e dell’esigenza di
dotarsi di altri strumenti oltre alla bellezza e alla tecnica
nell’affrontare e dissezionare il reale.
Per
concludere un’altra citazione da Doktor
Faustus di
Thomas Mann:
«l’apparenza
e il gioco hanno già oggi la coscienza dell’arte contro di sé.
L’arte non vuole più essere apparenza e gioco, ma intende diventare
conoscenza». Forse è su questo campo che si gioca il ruolo della
rappresentazione.
La prima
immagine è cimiteriale e agghiacciante: un immenso memoriale di
fiori e di di lumini da morto. Così comincia La
plaza, ultimo spettacolo de El
Conde de Torrefiel, collettivo spagnolo
guidato da Tanya Beyeler
e Pablo Gisbert visto
al Festival delle Colline Torinesi dopo
il debutto italiano alla Triennale di
Milano.
Questa prima
scena, così semplice nella sua evidenza, è simbolo e provocazione.
Quanti memoriali costellano gli eventi di questo tormentato inizio di
millennio? Potremmo pensare all’11 settembre 2001 quando l’Occidente
ha iniziato il secolo con quanto visto nelle pubbliche
commemorazioni di vittime defunte.
Negli spettacoli de El Conde de Torrefiel l’immagine si intreccia con un testo. I due elementi solitamente non hanno se non pallide corrispondenza. È lo spettatore attraverso lo sguardo a costruire sensi e significati. In La plaza l’inizio invece si allaccia strettamente con le immagini proiettate sul fondale. È la descrizione del progetto che stiamo osservando, una nota di regia in iperbole: l’istallazione è parte di uno spettacolo agito in simultanea in trecentosessantacinque città in tutto il mondo e della durata di un anno intero. Semplicemente stiamo ammirando sono gli ultimi istanti. Siamo parte di un pubblico intenti a guardare solo questa scena in cui non succede nulla. Come dice la scritta forse la cultura è diventata la rappresentazione del niente. Ma è una provocazione. In realtà non è così. Tutt’altro. Essa è abitata dalla più ingombrante di tutte le presenze: la morte, Rappresentata, evocata, commemorata. Ma la morte di chi?
Dopo questa
lunga introduzione, dove assume il ruolo di interrogarci su cosa
stiamo vedendo, sulle sensazioni provate, anzi potremmo dire che si
arroga il diritto di affermare con assoluta sicurezza il tipo di
pensieri e sensazioni stiamo sperimentando, cala il sipario. È ora
di uscire dal teatro. La performance è finita e la voce ci
accompagna metaforicamente fuori in strada in un immaginario ritorno
a casa.
Il sipario
si alza nuovamente. Siamo in una piazza immersa nel grigio. Potrebbe
essere un qualche luogo in Medio Oriente, ma anche il quartiere in
cui abitiamo. Volutamente vi è una certa ambiguità. Donne con
l’hijab attraversano
lo spazio, chiacchierano tra loro. Molte sembrano andare a fare la
spesa. In primo piano un soldato imbraccia un fucile mitragliatore. I
volti dei personaggi sono coperti da una spessa calza bianca che
spersonalizza totalmente l’individuo. Si vedono solo a malapena il
naso, l’incavo degli occhi e la linea della bocca. Il testo
proiettato, questa volta svincolato dall’immagine che si svolge sotto
i nostri occhi, continua a raccontarci del nostro ritorno a casa, dei
pensieri provati incontrando degli arabi seduti a un tavolino mentre
bevono un caffè e fumano sigarette; del fatto che quegli uomini ci
fanno paura e sono i più odiati in Occidente. A pensarci bene
potrebbero essere oggetto di violenza indiscriminata.
Le immagini
scorrono così come i sopratitoli nel raccontare i nostri pensieri.
La scena si trasforma, le luci calano e ci conducono in un altro
tempo e in un diverso luogo. Tre ragazze ubriache attraversano la
piazza. Una perde un foulard e si attarda. Le altre escono di scena.
La donna rimasta barcolla, si siede a terra pesantemente, infine si
stende prona e si addormenta. O sviene. Non si riesce a capire. Nel
mentre alcune persone attraversano lo spazio, passeggiano, non
curandosi della donna. Niente più che qualche sguardo indifferente,
continuando le proprie conversazioni e attività. Solo due giovani
prestano attenzione. Si avvicinano. Uno prende il cellulare e
riprende mentre l’altro sfila le mutandine alla donna. Questa sembra
risvegliarsi. I giovani le gettano l’indumento sfilato in faccia e se
ne vanno. Il testo intanto ci racconta quanto amiamo tornare a casa
passeggiando e ascoltando musica dal cellulare e come questa musica
modifichi il paesaggio, Gli anonimi che guardano e passano, persino i
due giovinastri che si approfittano della donna, potremmo essere noi.
Le scene si
susseguono fino a quella finale. Una troupe televisiva sta
riprendendo un lettino su cui un telo copre una salma. I tecnici e
gli assistenti allestiscono la scena e la videocamera per la ripresa.
Gli attori chiacchierano. Quando tutto è pronto, entra il ciak e
iniziano le riprese. Una donna si avvicina alla lettiga. Un uomo la
raggiunge. Sembrano contriti. La scena si interrompe. Va rigirata da
un’altra angolazione. Altro ciak. La donna rientra, la camera con
carrello a seguire. L’uomo la raggiunge. Dopo un attimo di
raccoglimento sfilano il lenzuolo. Appare il cadavere di una donna
giovane nella sua più completa nudità. Il cadavere è l’unico
personaggio a volto scoperto, interamente visibile, come se solo la
morte ci togliesse dall’anonimato. Oppure il nostro occhio riesce a
percepire solo il volto della vittima. Il cadavere è sotto i nostri
occhi con l’evidenza plastica delle salme da obitorio nelle
fotografie di Andres Serrano.
La morte nuovamente riempie la scena. Il corpo viene coperto. La
scena è finita e noi nel frattempo siamo giunti a casa. Il testo ha
raccontato di come ci siamo seduti davanti al computer, abbiamo visto
un filmato porno e masturbati. Dopo l’orgasmo ci siamo accorti che la
donna che ci ha eccitato è Linda Lovelace,
scomparsa ormai da qualche anno. Abbiamo goduto di un’immagine di una
defunta. È ora di andare a dormire. Il sipario può calare,
l’esperienza è finita.
Kantor
diceva che il vero teatro parla sempre della morte. In La
Plaza de El Conde
de Torrefiel la Nera Signora è onnipresente,
pervade tutta la scena. Fine di una cultura che non sa raccontare la
vita, morte della e nella realtà quotidiana, dei rapporti umani, dei
sentimenti. Si è presa tutta la scena, spazio grigio e asettico come
un obitorio.
El Conde de Torrefiel ha da sempre unito il racconto di una realtà distopica a delle immagini che posseggono in sé una sorta di olimpica serenità. Immagini capaci di accostarsi al testo e deflagrare in una pluralità di sensi e prospettive. In La plaza questo stilema viene in ulteriormente sviluppato innanzitutto nel rapporto con il pubblico: non più un semplice osservatore di esperienze altrui come in Guerrilla o ne La posibilidad que desaparece frente al paisaje, ma è direttamente preso in causa, messo in discussione e costretto a rapportarsi con le esperienze che gli vengono imputate. Inoltre la quiete che pervadeva le immagini negli spettacoli precedenti si colora di una feroce crudeltà per quanto asettica e chirurgica. Il collettivo spagnolo sembra brandire una lama, non d’acciaio ma costruita con il paradosso e l’eccesso, con cui disseziona il nostro occhio, solleva le cataratte che gravano sulla nostra capacità di vedere la realtà.
Quella messa in scena de El Conde è une interpellation, come la chiamerebbe Milo Rau, ossia una domanda posta con urgenza, quasi con brutalità alla comunità riunita in teatro. Ci viene chiesto di prendere coscienza di una realtà, dei suoi possibili sviluppi e ci viene ingiunto di assumere una posizione. È un atto artistico e politico. L’arte scenica torna a essere un luogo in cui si misura il proprio tempo e la società in cui si vive, un teatro nonostante si svolga nello spazio deputato, indirizza il suo sguardo fuori dall’edificio, nella piazza del mondo dove accadono le cose. È nel rapporto con il mondo che il Teatro assume significato. Altrimenti resta teatrino, vuoto intrattenimento, corpo morto separato dalla vita.
Visto il 20 giugno 2019 al Festival delle Colline di Torino
Kingdom
di Agrupation Señor
Serrano, programmato al Festival
delle Colline Torinesi, è uno spettacolo di
estrema complessità drammaturgica meritevole di alcune riflessioni
sull’arte della composizione scenica e sulle funzioni che può
assumere il teatro nel contesto sociale.
Partiamo
dall’argomento: Agrupation Señor
Serrano mette in relazione le
banane, prodotto sconosciuto all’Occidente
fino al 1890, e King Kong,
archetipo della brutalità e istintualità della natura selvaggia,
incarnazione dell’energia bruta e distruttiva che deve essere
controllata e dominata dalla civiltà e dalla ragione.
Banane e
King Kong
due icone che possono ben rappresentare la modernità in quanto
emblemi della trasformazione dell’uomo da soggetto sociale a
consumatore di beni. Esprimono anche l’anima più vera del
capitalismo selvaggio, uno spirito seduttore capace di indurre
desiderio per qualcosa di cui non abbiamo bisogno ma che
improvvisamente ci manca, un genio della lampada pronto a soddisfare
tutte le nostre voglie a costo di sfruttare il pianeta oltre le sue
reali possibilità.
Il frutto
dell’amore e lo spaventoso e incontrollabile scimmione trovano un
terreno comune nell’industria dei sogni per eccellenza: il cinema.
Questo a partire dal 1933, anno di comparsa sugli schermi del gorilla
che si arrampica sull’Empire State Building, inaugurando una serie di
costanti e più o meno fortunati remake (non ultimo quello di Peter
Jackson del 2007). Il legame tra capitalismo malvagio e banane lo
possiamo riscontrare anche in luoghi insospettati. Pensiamo infatti
ai Minions, i servitori dei cattivi ma così amati da bambini e
simpatici agli adulti: schiavi-operai in un’immensa catena di
montaggio industriale e innamorati persi delle banane per ottenere le
quali sono disposti a assurde e improbabili follie.
La questione
del legame tra malvagità predatoria, banane e scimmie parte però da
lontano: nei primi sette giorni di questo mondo, laggiù nel giardino
dell’Eden dove Adamo ed Eva mordono il frutto proibito, e non era la
mela come siamo stati abituati a pensare ma la banana. Questo
l’asserisce l’antica tradizione ebraica e il Corano. La colpa dello
scambio di frutti è di San Girolamo che per primo tradusse la Bibbia
in latino. Una riprova? Quando Linneo decise di battezzare il frutto
con nome scientifico chiamò questo frutto “Musa
paradisiaca”.
È
solo il preambolo alla vera vicenda, quella dell’avventuriero
americano Minor Cooper Keith,
fondatore della United Fruit Corporation,
oggi Chiquita Brands International Inc.,
e di come sia riuscito a invadere il mercato con un prodotto di cui
nessuno sentiva il bisogno; per farlo diventare in pochi anni uno dei
maggiori e più richiesti beni di consumo. Curiosamente Minor
Cooper Keith, creatore della prima
multinazionale globale nasce nel 1848, anno di pubblicazione de Il
Capitale di Marx,
e muore nel 1929 inizio della crisi mondiale, come se la sua parabola
di vita racchiudesse in sé proprio quel ciclo di espansione e crisi
vero motore del capitalismo.
Agrupation
Señor
Serrano lega i due argomenti a un terzo che
affiora più volte come vena d’acqua sotterranea ma costituisce la
chiave di volta: l’illusione che tutto stia procedendo per il meglio
intrecciata al pensiero costante dell’apocalisse imminente (elemento
che già rilevava Ernesto De Martino
nel suo incompiuto La fine del mondo).
Questa l’immagine più potente di Kingdom:
fiducia smodata nella potenza dell’uomo indissolubilmente intrecciata
alla sensazione che tutto possa inabissarsi in una notte e in un
giorno come fu per l’Atlantide di Platone.
Il viaggio
nel mondo delle banane e del capitalismo selvaggio si conclude con
una sorta di haka
danzata dagli interpreti insieme a una decina di uomini palestrati e
dai muscoli massicci. Il machismo e il maschilismo sembrano elementi
costitutivi capitalismo insieme all’idea di un uomo predatore che
prende e non chiede, padrone di un creato a sua disposizione. La
presenza femminile è totalmente assente dalla scena, se non evocata
come preda sessuale (ricordiamo ancora una volta King
Kong e il suo rapporto con la ragazza rapita,
ma anche alle molteplici e immancabili allusioni sessuali nel
marketing della banana).
Descrivere
questo spettacolo dal punto di vista delle tecniche utilizzate è a
dir poco un’impresa. Tutta la complessa narrazione di Kingdom
si avvale di quello che si potrebbe
descrivere come un vero montaggio delle attrazioni costituito da
linguaggi musicali, riprese video, azioni sceniche, danze,
proiezioni, immagini di repertorio, oggetti e modellini. Ogni tecnica
utilizzata si intreccia, incastra e sovrappone alle altre in un vero
bombardamento ritmico che travolge lo spettatore. Il segnale è quasi
mai lineare e sempre complesso così da formare una sinfonia a
partire dalle singole voci strumentali. Una modalità di racconto
quindi non lineare che non procede per semplice accostamento
progressivo, ma una galassia di motivi che si sovrappongono e che lo
spettatore deve ricostruire. Si prevede dunque una visione attiva,
che rimonti i pezzi di un puzzle da migliaia di pezzi. Non uno
spettatore che subisce passivo una narrazione ma che la ricostruisca
e ne tragga da sé le proprie deduzioni e riflessioni. La parola in
questo processo non è che uno degli elementi e nemmeno il più
importante, La drammaturgia non è un testo preesistente, ma un
complesso edificio che si forma sulla e per la scena grazie alla
pluralità dei linguaggi impiegati.
Gli
interpreti di questo genere di spettacolo non sono propriamente
attori né performer. Sono qualcosa che abita nel mezzo e in grado
di risiedere in entrambe le dimensioni a seconda di quanto la scena
in quel momento richiede.
Kingdom
di Agrupation Señor
Serrano, per concludere, non solo è uno
straordinario esempio delle possibilità espressive del teatro ma
anche di una sua possibile funzione nel contesto sociale. Il teatro
come luogo di svelamento dei miti costitutivi della nostra società,
un terreno su cui la comunità può mettere in discussione i propri
canoni, riflettere sulle contraddizioni insite nel proprio stile di
vita. Attraverso la rappresentazione il pubblico può per un istante
squarciare il velo degli infingimenti che costituiscono la maschera
della civiltà. La frase che ritorna come leitmotiv
durante tutto lo spettacolo: “stiamo bene” ricorda la storiella
che fa da incipit a L’odio
di Mathieu Kassovitz:
«un
tizio cade da un palazzo di cinquanta piani e man mano che cade si
ripete: “fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”. Il
problema però non è la caduta. È l’atterraggio».
Agrupation Señor
Serrano con Kingdom
ci ricorda proprio questo: stiamo bene, l’umanità sembra migliorare
da ogni punto di vista, ma il prezzo che potremmo pagare è
altissimo. Renderci consapevoli che il cielo può caderci in testa in
ogni istante era per Artaud,
lo ricordiamo, il vero senso di fare teatro.
Visto il 13
giugno al Festival delle Colline Torinesi
Il 6 e 7 giugno alla Fondazione Merz durante il Festival delle Colline Torinesi è andato in scena Scavi del duo Deflorian/Tagliarini, performance che indica fin dal titolo una modalità di ricerca: i due attori/autori, affiancati in quest’occasione da Francesco Alberici, come archeologi riportano alla luce anfratti nascosti, sepolti, non noti del processo creativo di Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni.
Attraverso
quest’opera di scavo paziente e certosino si svilupperà Quasi
niente, anch’esso presente nel programma
del Festival delle Colline Torinesi
(in scena l’8 e il 9 giugno al Teatro Astra),
opera diversa e autonoma ma cresciuta attraverso l’attraversamento di
un medesimo materiale di base (per la recensione dello spettacolo
visto al Teatro dell’arte della Triennale di
Milano rimando a questo link
http://www.enricopastore.com/2019/02/27/quasi-niente-deflorian-tagliarini/
).
Gli Scavi
di Deflorian/Tagliarini non
avvengono con ruspe e badili, ma con strumenti di precisione,
delicatamente, in maniera da non graffiare o incidere ciò che appare
sotto i detriti. Questo lavorio intenso e dolce è prima di tutto
immersione nel materiale, un profondarsi all’interno discretamente,
senza imporre le proprie idee e la propria persona, accostandosi,
rimanendo in ascolto pronti a percepire ogni vibrazione risonante con
ciò che emerge. Un esempio: la mania di pettinarsi dopo ogni scena
di Monica Vitti che contrasta con le immagini del film dove è
sempre sensualmente spettinata. Il disagio che traspare dai capelli,
tutto in quella frase del film: “Mi fanno male i capelli” apre un
percorso di risonanze: l’incontro tra Monica Vitti e la
poetessa Amelia Rosselli, il brutto rapporto di Daria con i
propri capelli e così via, quasi in gioco delle perle di vetro, dove
le immagini, gli episodi, i sentimenti si concatenano a partire dal
lavoro di scavo nel materiale.
L’azione di
scavo è quindi strumento atto a riportare alla luce dei nuclei di
senso pulsanti, come vivi muscoli cardiaci, che irrorano le personali
esperienze degli attori le quali a loro volta smuovono quelle dello
spettatore in un delicato effetto farfalla. Una valanga dolce che non
precipita violenta e schianta, ma come polla d’acqua montana tenue e
leggera scorre e irrora la terra che attraversa.
Tale
delicatezza è frutto innanzitutto di un’abile composizione che dosa
i toni e le sfumature e come in un quadro del Tiepolo, dove tutto è
in luce anche l’oscurità e gli elementi emergono con forza gentile
ma non meno potente. Il materiale di scavo si incastra con il
ricordo, con il dolore, con la nostalgia e si riversa sul pubblico
che a sua volta si rapporta intessendo le proprie emozioni con quelle
narrate, facendo emergere un arazzo diverso per ciascuno. Ecco dunque
il perché di quelle sedie sparse per lo spazio, ognuna orientata
verso un punto diverso, labirinto visivo ed emozionale che si
trasforma in caleidoscopio che a ogni tocco rifrange una diversa
immagine. Gli attori attraversano e circondano il luogo scenico, i
loro racconti sono vettori che catalizzano gli sguardi creando nuove
diverse prospettive a ogni inserto narrativo.
Tramite questo processo il materiale, che potrebbe apparire a uno sguardo superficiale come frutto di una scelta intellettuale, si universalizza, diventa oggetto di incontro tra la platea e la scena, un condividere esperienze, pensieri e sensazioni, smossi proprio da un’immagine o un aneddoto legati al celebre film di Antonioni. Il tema che emerge con potenza è la fragilità, la friabilità della vita che a ogni istante può andare in frantumi o, per usare le parole di Antonin Artaud, che :”il cielo può sempre cadere sulla nostra testa”. In questo risiede la grande efficacia della delicatezza impiegata nello scavo, una sensibilità gentile necessaria allo svelamento, allo sguardo crudele sulla vita. Ci si arriva per gradi, senza violenza per esercitare un atto comunque feroce: quello di guardare senza paura le forze che insidiano la vita, che lavorano per dissolverla. In questo Deflorian/Tagliarini sono diventati dei maestri di composizione del linguaggio teatrale, quello fatto di gesti, parole e movimenti nel tempo e nello spazio, una lingua che parla della via e della morte ed è sempre più raro trovare oggi sulle scene a dispetto della sovrabbondanza di opere prodotte e rappresentate.
Al Festival
delle Colline Torinesi è in programma fino
al 22 giugno Medea per strada
del Teatro dei Borgia,
regia di Gianpiero Borgia, drammaturgia
di Fabrizio Sinisi e
l’interpretazione di Elena Cotugno.
Lo spettacolo, se così si può definire, non va in scena in un
teatro ma in un vecchio pulmino per le strade di Torino diretto verso
le sue periferie più lontane.
Il furgone
aspetta i sette partecipanti davanti al
teatro Astra.
È vecchio, ammaccato e arrugginito, all’interno arredato con qualche
lucina da addobbo natalizio. Poco dopo la partenza si ferma ad uno
stop dove una donna picchia sulla portiera per salire. L’autista
senza una parola la fa salire. È molto bella, seppur truccata
pesantemente e vestita in maniera un po’ equivoca, e ha un forte
accento dell’Est Europa. Chiacchiera del più e del meno, racconta
della sua vita in Romania al tempo di Ceausescu, di suo padre e dei
suoi fratelli, del viaggio fatto per venire in Italia proprio su un
furgone simile a quello.
Il racconto
lentamente si intensifica, si inspessisce colorandosi di nero man
mano che ci si allontana dalle vie ampie e belle del centro verso
quelle anonime e squallide della periferia. La donna, sempre più
Medea seppur mai nomini il suo nome, è ingannata nei suoi sogni da
un uomo che la sfrutta: il protettore-Giasone, un seduttore che
vilmente ingannandola le offre un surrogato d’amore, le concede una
casa e diventa anche il padre dei suoi figli. Un illusione di
famiglia, un’immagine larva per rendere accettabile la miseria e una
vita di sfruttamento. Medea è straniera in un paese che non conosce,
senza famiglia e senza amici, sola e costretta a battere le strade.
Mentre racconta si prepara per il suo “lavoro”, nell’angusto
spazio del furgone si toglie a ripetizione delle mutandine, atto di
umiliazione senza fine.
Attraverso
il racconto questa donna dai lunghi capelli neri diventa il volto
delle migliaia di altre come lei che condividono il suo destino.
Dietro i suoi occhi blu, innumerevoli altri occhi guardano i sette
spettatori.
Mostra i
disegni che ritraggono i suoi figli preannunciando la tragedia. Il
furgone intanto si è fermato in Corso Vercelli dove altre ragazze,
troppe, ogni giorno vanno a “lavorare”. Medea scende mentre i
passeggeri restano seduti imbarazzati.
Risale e si
riparte il racconto prosegue, Giasone l’ha lasciata per un’altra
donna più rispettabile. Non vuole più saperne dei figli e decide di
vendicarsi ma la tragedia non si abbatte solo sulla donna a causa
della quale viene lasciata, ma anche su i suoi bambini:”Che altro
potevo fare?” chiede disperata, togliendosi il trucco e la
parrucca, rivelando così il suo vero volto. Fa segno di voler
scendere di nuovo all’angolo di una strada. La vediamo allontanarsi
in fretta, lasciando i suoi compagni di viaggio in un silenzio
imbarazzato, con l’autista muto che guida verso il teatro da dove
tutto è cominciato.
Teatro, lo
ricordiamo, deriva dal greco Teatron
e significa: “il luogo da cui si guarda”. Un luogo, non un’arte.
Un punto di osservazione non necessariamente legato a un edificio.
Può essere ovunque. Ma cosa si guarda? Si potrebbe rispondere: la
vita e la morte e quindi in senso ampio l’uomo nel mondo. L’etimo e
le sue implicazioni sono tutt’altro che vuote curiosità ma la natura
stessa di questa Medea per strada.
Si è chiamati, come pubblico, a osservare un punto di vista su un
mondo che tendiamo a ignorare. Come recita il salmista “hanno occhi
e non vedono”.
Quello che
appare evidente, rivelata dalla luce del mito antico, è Aletheia,
il termine in uso per i Greci stante ad indicare la verità
non-nascosta, non dimenticata. Aletheia
che velandosi si disvela. Ed ecco il gioco della rappresentazione, la
donna a bordo del vecchio pulmino è Elena
Cotugno, un’attrice che incarna una figura
e allo stesso tempo è narrazione. È
finzione che rivela la realtà presente sotto i
nostri occhi ma non riusciamo o vogliamo vedere.
Medea
per strada potrebbe essere denominato
“teatro civile”, ma sarebbe ridurlo in una categoria. È
teatro nel senso pieno del termine, luogo da cui
si guarda e ci svela una verità sul mondo. Per settanta minuti,
attraverso la rappresentazione, osiamo guardare un universo di abuso
e schiavitù in grado di fruttare milioni di euro, un racket
responsabile di illudere molte donne in cerca di una vita migliore.
Le incatena a un incubo di perversione e asservimento al desiderio
maschile che è difficile spezzare.
In Medea
per strada appare evidente anche una
funzione fondamentale della rappresentazione: la presa di coscienza
del male del mondo, delle crisi che lo attraversano. Una modalità
tramite il quale la comunità di coloro che osservano può pensare e
immaginare delle soluzioni per sanare le ferite.
Sul quel
furgone in viaggio per le strade delle nostre città non rivive solo
la tragedia di Medea, la donna straniera, colei le cui arti fanno
diversa ed estranea, ma si palesa anche il senso più vero del fare
teatro: aprire gli occhi, imparare a guardare senza distogliere lo
sguardo.
Il 2 giugno,
Festa della Repubblica, si è aperta la 24ma
edizione del Festival delle Colline Torinesi.
A inaugurare il programma Chiara Guidi
e Claudia Castellucci
con Il regno profondo. Perché sei qui?
e La gioia
di Pippo
Delbono.
Chiara
Guidi e Claudia Castellucci giungono sulla scena come due
anziane signore, a braccetto, Con lentezza decisa salgono sul podio
al centro della scena. Sono illuminate dall’alto da una luce a
pioggia che cade da una lampada nera a forma di trapezio. Il podio è
vuoto eccezion fatta per due aste per microfoni. Le donne sembrano
due beghine con un austero vestito nero a righe, le gonne lunghe e
severe, le calze nere anch’esse e le scarpe pesanti.
Le donne,
chiamate “luogotenenti” perché presidiano un luogo in cui sono
arroccate, cominciano a salmodiare un testo fitto di domande. In
apparenza questioni religiose o, per lo meno, esistenziali. Si
rivolgono direttamente a un interlocutore che potrebbe essere
benissimo il pubblico come Dio stesso. Le domande vengono sparate a
mitraglia, senza aspettarsi una qualsiasi risposta. C’è dello
scetticismo persino nel porle. La cantilena intanto prosegue serrata
come una sorta di salmo responsoriale che in verità non fornisce
risposta alcuna. È un girare a vuoto su questioni a cui non si crede
veramente e su cui vanamente ci si interroga.
Improvvisamente
un intermezzo. Le “luogotenenti” si accasciano al suolo e nel
buio parole vengono proiettate sul fondo, parole pletoriche che non
hanno veramente un’urgenza, sembrano quasi casuali e intervallate da
pubblicità assurde di attività artigianali nella provincia di
Forlì.
E quindi il
ciclo ricomincia, le donne ricominciano le domande, questa volta
poste una all’altra in una sorta di dialogo fatto di domande a cui
nessuna delle due fornisce risposta e poi ancora un intermezzo. Tre
cicli in tutto. E poi le donne escono così come sono venute. Due
anziane a presidiare una fortezza costituita da niente, a
interrogarsi su vuote questioni senza giungere a un risultato alcuno.
:”Casca il mondo. Casca la terra. E sotto non c’è niente”
canticchiano le megere. Il tutto sembra un’agghiacciante istantanea
di molta cultura odierna, che presidia posizioni inutili, senza porsi
dei problemi urgenti e reali, mantenendo modalità obsolete e
polverose mentre il mondo è andato avanti e, per dirla con un motto
di una famosa serie, l’inverno sta arrivando.
Ottima la
regia vocale di Chiara Guidi,
una vera e propria direzione d’orchestra di parole che si fanno
musica e richiamano il recitar rosari e il cantar salmi nelle veglie
funebri. Un dire quasi automatico, abitudinario, svincolato dal
fornire significato a quanto si dice, ma che conserva una certa
musicalità annoiata come di ronzio. I silenzi e gli intervalli sono
anch’essi sapientemente dosati come in un linguaggio musicale, così
come il gesto e il movimento che danno l’idea di un rito ma di color
funereo.
Se Perché
sei qui?, spettacolo che costituisce la
terza parte di una trilogia prodotta dalla Societas
intitolata Il regno profondo,
è opera che agghiaccia di comicità fredda e tagliente, La
gioia di Pippo
Delbono,
primo suo spettacolo senza Bobò,
è invece un percorso caldo e commosso verso quell’attimo che
sospende la pena, un istante di suprema grazia fragile come lo
sbocciare di un fiore, accolto dal pubblico torinese con un
lunghissimo applauso e una standing
ovation.
Cos’è la
gioia? Questa la domanda a cui si può rispondere solo in maniera
personale e senza la supponenza di aver sicura e pronta una risposta.
Pippo Delbono ci
racconta il suo viaggio, compiuto con gli attori della sua compagnia,
un cammino lungo costellato di ricordi, di perdite, di ombre e
dolori, di faticose risalite da pozzi bui, di incontri illuminanti e
radiosi, di profonde disperazioni vinte grazie all’amore.
La gioia ricorda in ogni istante come il
cielo possa caderci in testa in ogni momento, come ogni vita sia
fragile e debole di fronte alle forze che congiurano contro di essa.
Il viaggio
di Pippo Delbono
diventa per questo universale perché ognuno di noi vede in quelle
morti, in quei dolori il proprio calvario, si riconosce e, privo di
difese e scetticismi intellettuali, si commuove.
Una zolla
d’erba è la prima immagine. Nelson Lariccia
appare con un innaffiatoio e la irrora. E poi il buio. Ed ecco che
sorge un primo fiore, e poi un altro, infine un giardino. Il tema è
tutto in questo primo quadro: lo sbocciar dei fiori dalle lacrime.
Il cammino è
tortuoso, bisogna attraversare inferni per giungere a un attimo di
paradiso, il seme deve morire e con sforzo spaccare la terra per
elevarsi al cielo. Ed ecco scendere dall’alto sbarre di ferro a
formare una gabbia intorno a Pippo Delbono,
e figure oscure, vampiresche e demoniche invadono la scena percossa
da una martellante luce strobo.
Il viaggio è
quello di uno sciamano il cui corpo e anima devono essere fatti a
pezzi per essere ricomposti da capo. Uno scendere all’Ade verso le
ombre dei morti per incontrarli una volta ancora. I ricordi affollano
la scena, gli incontri con Bobò,la cui vocina da uccellino risuona nuovamente
sulla scena, con Gianluca Ballaré,
con Nelson nelle
strade di Napoli, con Pepe Robledo
che da ormai trentacinque anni condivide il viaggio teatrale con
Pippo. E i frammenti degli spettacoli: le barchette di carta diItaca,
oggi tristemente più attuali e presenti che mai,
i clown di Guerra,
la panchina su cui Pippo e Bobò erano Vladimiro ed Estragone in
Barboni. In
questo rimembrare tutto personale, in questo turbinare di figure che
si affollano intorno a Pippo Delbono
c’è una spasmodica e tutta umana ricerca della gioia, un condividere
il dolore per superarlo, un con-patire che permette di rompere quelle
sbarre di disperazione per far sorgere uno straordinario giardino
fiorito (opera del floral designerThierry Boutemy) che
nasce appunto dalle foglie morte, immagine finale che si riallaccia,
in circolo chiuso e compiuto, con quella dell’inizio.
Vent’anni fa
giovane studente di teatro a Venezia ebbi la fortuna e l’onore di
essere assistente di Pippo Delbono
nella produzione di Her Bijit,
spettacolo itinerante nell’Arsenale durante la Biennale
di Venezia del 1999. In quell’occasione un
giorno, in uno dei rari momenti di pausa, chiesi a Pippo, da studente
ansioso di strappare dei segreti al maestro, cosa animasse il suo
teatro. Mi rispose, dopo un lungo istante di silenzio, che era il suo
modo per esorcizzare il dolore e la paura della morte condividendoli
con gli attori e con il pubblico. Quelle parole mi sono tornate alla
mente mentre assistevo a La gioia
e penso, allora come oggi, che questa è la forza del teatro di Pippo
Delbono: la capacità di creare una comunità
di persone, in scena e in platea, che condividono una pena e tramite
la scena la superano. Anche laddove le immagini possono apparire
ingenue, semplici fino alla banalità, esse assumono sempre una
delicata sostanza poetica capace di irrompere nei cuori più induriti
e aprire loro una via di fuga al dolore.
La
gioia forse in fondo è questo: un lungo
e difficile percorso di superamento dello strazio e del tormento per
godere, magari per un solo istante colmo di commozione, della
fragilità e bellezza della vita. E in fondo, come diceva Artaud, il
teatro è appunto uno strumento che ci ricorda di come tutto congiuri
contro la vita, quel delicato fiore che si erge contro la tempesta e
destinato a perder la sua battaglia per essere portato via dal vento.
Chiara Guidi e Pippo Delbono aprono dunque la ventiquattresima edizione del Festival delle Colline Torinesi con due opere diverse per intenti e temperature emotive ma altrettanto potenti. Un debutto di festival di grande intensità con i lavori di due maestri del teatro italiano capaci di toccare, scuotere e commuovere il pubblico.
Dopo
aver visto Aminta di Antonio Latella al Teatro
dell’Arte della Triennale di Milano ed essere rimasto affascinato
dall’uso sonoro e musicale della parola del Tasso, ho sentito la
necessità di conoscere e approfondire le fasi di lavorazione. Ho
incontrato in questa intervista Matilde Vigna, cheinsieme
a Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta e Giuliana Bianca Vigogna
compone il cast di Aminta.
Matilde Vigna, è stata vincitrice del premio Ubu 2016 come migliore attrice under 35 insieme all’intero cast di Santa Estasi, sempre per la regiadi Latella. Recentemente è stata protagonista di Causa di beatificazione per la regia di Michele di Mauro, presente nel cartellone dello scorso Festival delle Colline Torinesi, e di Spettri per la regia di Leonardo Lidi alla Biennale Teatro 2018.
A
partire da quale elemento avete iniziato ad affrontare il lavoro su
Aminta?
Direi
che ci siamo approcciati ad
Aminta
guidati da due direttrici: il lavoro sul verso e la ricerca di Amore.
Abbiamo affrontato Tasso
partendo dal verso, esplorando non soltanto la sua metrica e
musicalità ma anche la verticalità dello stesso, la sua capacità
di portarci in profondità. Allo stesso tempo ci siamo chiesti cosa
sia amore – Amore? è infatti la domanda iniziale dello spettacolo.
Cosa sia per noi oggi, cosa fosse per lo stesso Torquato
Tasso,
come questa parola (così difficile da dire, attorialmente parlando)
ed il suo significato possano essere declinati in un’infinità di
modi. Questa domanda è la freccia iniziale che scagliamo in mezzo al
pubblico. Il verso è la corda tesa e vibrante che permette –
assieme al lavoro musicale di Franco
Visioli
– questa scoccata.
Attraverso
quali fasi il testo scritto, quello che Carmelo Bene chiamava il
morto-orale, si è trasformato in parola viva?
Il
lavoro di Antonio
Latella
con noi attori è stato principalmente incentrato sulla concretezza
del verso parlato. Inoltre il lavoro con Linda
Dalisi
sul testo, a livello di comprensione, etimologie, radici storiche e
curiosità, è stato fondamentale per la nostra comprensione ed
appropriazione del testo stesso. Le dinamiche tra gli attori che
dialogano (I personaggi infatti nella presentazione della prima
edizione di Aminta
vengono chiamati INTERLOCUTORI) rendono il verso vivo, concreto,
radicato, è un lavoro in “verticale”. Latella
ha insistito molto sulla verticalità. Il verso si fa carne, ci
attraversa, ma ogni verso è una freccia scoccata dritta verso il
pubblico. Anche il suono curato da Franco
Visioli va
nella direzione della verticalità e non secondario è stato per noi
l’ostacolo/arma rappresentato dai microfoni, governati sempre da
Visioli.
Non fermarci al suono della nostra voce, alla musica del verso. Il
microfono ci “ruba l’anima”, ma la direzione è sempre verso
l’Altro e non può fermarsi alla capsula del microfono.
Puoi
raccontarmi qual è stato il processo di messa in scena? quali sono
state le differenti fasi di lavorazione?
Il
primo incontro è avvenuto nell’ottobre 2017. Abbiamo incontrato il
regista e la sua
squadra
e il resto del cast, ed è stato entusiasmante. In questa fase
abbiamo lavorato con Linda
Dalisi,
sul testo, sulla storia del Tasso e sul periodo storico, sulle varie
versioni di Aminta
e sull’iconografia e le esperienze musicali collegate. Anche noi
attori avevamo dei compiti da preparare e questo è stato
fondamentale per immergerci da subito totalmente nell’opera e in
noi stessi, per contaminarci a vicenda e anche per farci conoscere
dal resto della compagnia. In questa sede abbiamo lavorato con
Francesco
Manetti
sulla polka: com’è evidente nello spettacolo la scelta è stata
radicalmente diversa ma credo che il lavoro sul ritmo ci sia rimasto
dentro e ci abbia permesso di dire poi i versi nell’immobilità
senza perdere mordente. A marzo 2018 c’è stata un’altra fase di
lavoro a Esanatoglia, nelle Marche. Noi attori dovevamo arrivare con
la memoria del primo atto e alcuni dei pezzi musicali. Abbiamo
iniziato ad incarnare i versi, a provare soluzioni sceniche. In
questa fase noi attori “nuovi” al lavoro con la compagnia
Stabilemobile
abbiamo potuto toccare con mano la qualità di una compagine di
artisti e professionisti di altissimo livello. Antonio
Latella
guida una squadra encomiabile e noi giovani ci siamo sentiti parte di
un processo creativo plurilaterale – e in queste condizioni
memorizzare pagine di versi diventa un piacere e un onore. A ottobre
2018 il processo si è concluso a Macerata, dove Aminta
ha debuttato l’8 novembre al Teatro
Lauro Rossi.
In questo frangente il secondo tempo si è concretizzato, abbiamo
aggiunto un ulteriore pezzo musicale (Vitamin
C),
il lavoro su noi attori, su luci, suoni, scena e costumi si è
definito.
In
che modo sono emersi i materiali musicali e quale rapporto instaurano
con il testo?
Le
scelte musicali sono opera di
Latella e Visioli.
Il Lamento
dell Ninfa
di Claudio
Monteverdi
(coevo del Tasso) si colloca nel primo atto dove predominano
immobilità, costumi neri (ad eccezione di Tirsi), e restituzione del
testo originale. Nel secondo tempo, dopo il monologo del Satiro –
ossia qui la trasformazione di Aminta nel Satiro ad opera di Silvia –
tutto cambia. La poesia si perde pur rimanendo, Amore ha scoccato la
sua freccia, c’è una liberazione, un urlo. Sopraggiunge il rock.
Quindi PJ
Harvey
con
Rid of Me
all’inizio e Vitamin
C
dei CAN
alla fine. Oltre alla musicalità penso che anche le allusioni più o
meno esplicite contenute nei testi di queste canzoni abbiano
suggerito a Antonio
Latella
la loro collocazione.
Antonio
Latella nell’intervista che mi rilasciò a luglio 2017 alla Biennale
Teatro, mi disse chesecondo lui era finita l’era del regista-capitano
della nave. Stava emergendo piuttosto una nuova figura, più simile a
un direttore d’orchestra o a un compositore. Dal punto di vista di un
attore come vedi questa trasformazione del ruolo del regista? Si
avverte questo cambio di rotta?
Decisamente.
Antonio
Latella
guida una squadra di artisti che lavorano in autonomia, che
propongono, c’è un confronto continuo. L’immagine del direttore
d’orchestra è calzante. Per noi attori soprattutto Antonio
Latella
è guida maieutica, non impositrice: seguiamo chiaramente le sue
indicazioni, ma è evidente come lui parta da noi, e non imponga
nulla. Lo spettacolo si crea lavorando con noi attori con i nostri
corpi e le nostre intelligenze e lui è maestro in questo. Forse è
semplicistico dire che tutto si riduce al cast, ma penso che abbia
saputo abilmente selezionare gli attori che potessero tradurre la sua
idea di Aminta
nel 2018.
Quale
ruolo assume l’interprete in questa nuova creazione di Antonio
Latella?
L’interprete
è fondamentale. O, per tornare alla dicitura primaria di Tasso,
l’interlocutore. Abbiamo il compito di riportare la meraviglia di
questi versi facendoci attraversare, con un movimento necessariamente
verticale. La musica ci supporta, i microfoni ci amplificano, il faro
su rotaia circolare compie il suo moto di rivoluzione attorno a noi
ma alla fine – complice anche la quasi totale immobilità – tutto
si riduce a noi e alle parole del Tasso. Ed è nostra responsabilità
ogni sera lasciare che questo accada, perché senza la nostra totale
adesione la difficoltà della lingua rischia di superarne il valore,
e questo non può accadere. É infatti un lavoro politico, di
riscoperta senza edulcorazioni della ricchezza della nostra lingua
madre, in un tempo di impoverimento e imbarbarimento linguistico e –
se mi è permesso – non solo.
Qual
è stata la tua principale difficoltà, come attrice, nell’affrontare
Aminta, e come sei riuscita a superarla?
Personalmente, lasciare che Silvia fosse. Prima del debutto ero molto spaventata: temevo di non essere all’altezza, che nel mio sentirmi “troppo poco” caricassi eccessivamente o non fossi all’altezza del disegno registico, così elegante, forte e rigoroso. E devo ringraziare Antonio Latella che ha capito il mio momento di disagio e mi ha dato fiducia. Allo stesso modo il supporto di Franco Visioli sulla parte musicale per me è stato fondamentale e mi ha fatto esplorare nuove fantastiche possibilità.
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