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Acqua di colonia

ACQUA DI COLONIA INTERVISTA A ELVIRA FROSINI E DANIELE TIMPANO

Enrico Pastore: Come è sorta in voi l’esigenza di occuparvi della sventurata avventura coloniale italiana?

Elvira Frosini: È iniziata un paio di anni fa perché è un argomento tanto sconosciuto. La parola giusta è rimosso. Ci occupiamo spesso di storia ma sempre in funzione del presente, di come la storia ha determinato quello che stiamo vivendo, e ci siamo resi conto di come questo argomento fosse sconosciuto. Anche noi stessi ne sapevamo poco. E abbiamo capito che era un argomento che in qualche modo era stato volutamente messo da parte e non portato alla luce di una coscienza nazionale. Ci siamo subito messi a studiarlo e dal primo momento lo abbiamo messo in relazione con il presente, con queste migrazioni, che non sono direttamente e meccanicamente un prodotto del colonialismo, ma sono comunque strettamente ad esso legate. Abbiamo quindi riscontrato che la posizione scomoda in cui ci troviamo tutti quanti nell’affrontare l’altro che arriva, è in che posizione mettersi e cosa pensare, soprattutto in Italia, e questo deriva dal fatto che non abbiamo quasi coscienza di cosa è avvenuto prima di noi. Della nostra storia e della loro storia. Fondamentale è stato anche l’incontro con Igiaba Scego e la lettura del suo Libro Roma negata che ci ha aperto gli occhi sull’argomento. Il libro contiene anche numerosi documenti fotografici di Rino Bianchi su Roma e su tutte le tracce nell’urbanistica romana che riguardano l’epoca coloniale sia di epoca fascista, quella più conosciuta, sia di quella dell’epoca precedente. Ci siamo resi conto quindi che noi tutti viviamo immersi in questi segni ma non li vediamo perché non li conosciamo. Siamo partiti quindi dall’assunto: nessuno conosce niente. Si studia pochissimo e male a scuola, non ci si interroga veramente sulle conseguenze, insomma è un argomento, ripeto, rimosso. Così abbiamo incominciato a leggere, a studiare per un paio d’anni. Studio non solo storico, ma comprensivo del panorama culturale.

EP: Acqua di colonia infatti è uno spettacolo che utilizza una enorme quantità di materiali provenienti da ambiti culturali diversi: dall’avanspettacolo, al fumetto, alla ricerca storica, una commistione di cultura alta e bassa. Come avete proceduto alla selezione e al montaggio di questo materiale?

EF: Questa è una bella domanda. Noi abbiamo accumulato, come hai già detto, una quantità enorme di materiale di tutti i tipi, dalla barzelletta al libro di storia, dalla pubblicità al romanzo, al fumetto, alla canzone. Poi ci siamo resi conto che il materiale era sterminato e che era necessaria una decantazione e, in seguito, una selezione dei materiali. Tu hai visto abbiamo usato canzoni come Sanzionami questo, Adua liberata, Topolino in Abissinia, ma ce n’erano molte altre. Abbiamo selezionato quelle che più rispondevano al nostro discorso, che rendevano la direzione verso cui stavamo andando. Dobbiamo dire che lo spettacolo ha due intenzioni principali: la prima è fare una sorta di riassunto storico, che abbiamo voluto tenere, perché abbiamo constatato che nessuno ne sa niente, una parte quindi leggermente didattica benché fatta in una certa maniera; dall’altra c’era l’intenzione di sfatare la vulgata comune che il colonialismo è stato solo fascista, e invece ha attraversato tutta la nostra storia dall’unità d’Italia. Il colonialismo italiano non è stato solo Mussolini e l’Etiopia ma qualcosa che ci è appartenuto da subito. Volevamo quindi rendere chiaro da subito questo punto. Tripoli, bel sol d’amore del 1911 è importante, l’abbiamo messa per questo motivo. Marchiamo una differenza di percezione oggi tra questa canzone e Faccetta nera, quest’ultima innominabile perché fascista, Tripoli no. Tripoli la possono cantare e suonare tutti, anche la banda dei Bersaglieri, come canzone patriottica quando invece è una canzone colonialista d’aggressione. Il rimosso dentro il rimosso. I materiali quindi sono venuti a galla piano piano, abbiamo ridotto, tagliato, condensato. Abbiamo tenuto quei materiali che si avvicinavano al discorso che volevamo fare, da Topolino in Abissinia al discorso di Montanelli fino a Pasolini, avvicinandoci gradualmente all’oggi. Perché nel nostro spettacolo c’è sì il colonialismo passato ma anche la domanda: oggi cosa siamo? Perché quel pensiero eurocentrico, occidentale centrico di superiorità, di paternalismo è insito in noi ancora oggi in maniera più o meno inconsapevole.

EP: In che modo è avvenuta la costruzione scenica di Acqua di colonia?

EF: le immagini nascevano durante la scrittura. Come hai visto la prima parte è più un evocare, un’evocazione, se vuoi, anche postdrammatica, – faremo questo, non sappiamo niente e così via -, e non a caso questa prima parte è chiamata zibaldino africano, in cui appunto evochiamo cose che c’entrano e magari anche cose che apparentemente non c’entrano come la torta africana dall’artista svedese di origine africana Makode Aj Linde. In questa prima parte è come se noi facessimo un disegno, uno schizzo a matita, e poi nella seconda parte lo coloriamo, lo rendiamo vivo, lo incarniamo. Mettiamo in scena alcune delle cose che abbiamo evocato nella prima. La messa in scena della seconda è avvenuta durante la scrittura, poi è chiaro che nelle prove si ritocca, si taglia, si cambia. Anche il testo stesso perché quando lo incarni nascono altre esigenze non pensate durante la scrittura. Ci sono anche molte scene che abbiamo tagliato, tipo quella della stele di Axum che parlava diventando personaggio. Avremmo potuto fare anche Audrey Hepburn e Bob Marley che evochiamo solo nella prima parte. La seconda parte quindi è un’incarnazione, una realizzazione nel vero senso della parola, della prima parte. La facciamo accadere e scivoliamo dentro questi piccoli personaggi. Queste evocazioni diventano noi e noi diventiamo loro. In questo senso abbiamo voluto fare intendere che tutti, noi compresi, noi per primi, siamo dentro il problema. Acqua di colonia non è uno spettacolo che ha una tesi da dimostrare. Spero che emerga che c’è tutta una complessità che non è facilmente districabile, che anche nel politically correct c’è una buona dose di paternalismo. Non è quindi tutto bianco e nero, semplice semplice. Noi stessi per primi siamo in questa complessità.

EP: In Acqua di colonia ho apprezzato tantissimo la vostra abilità di mettere il pubblico di fronte ai propri pregiudizi, per esempio quando li invitate a cantare Faccetta nera, che tutti conoscono almeno per le prime due rime, ma che nessuno osa cantare; o quando mettete a raffronto il numero Angeli negri di Tognazzi/Angus con la replica Pasolini/Davoli. É senz’altro una modalità scomoda e difficile, ma anche utilissima perché toglie i veli alle nostre bugie consolatorie. Come siete giunti a mettere in atto questa modalità?

EF: In realtà questa modalità fa proprio parte del nostro percorso e del nostro linguaggio. Anche negli spettacoli precedenti utilizziamo questo metodo che fa parte del nostro modo di scrivere e pensare il teatro. Un modo in cui sia l’attore che lo scrittore non sono depositari di una verità da rivelare allo spettatore, semmai sono in una posizione pari allo spettatore incarnando tutta una serie di contraddizioni. Anche negli spettacoli precedenti come Aldo Morto e Zombitudine ci sono sempre queste piccole deflagrazioni di posizioni sia metodologiche che attoriche. Ci mettiamo in posizioni talmente diverse che non è chiaro se siamo noi che parliamo o il personaggio, e questo obbliga lo spettatore a porsi la domanda: ma io cosa penso? Pasolini per esempio che appare in Acqua di colonia. Pasolini è un grande intellettuale del nostro tempo, un intellettuale che è stato sottoposto a un processo di santificazione, quasi di mercificazione, ecco anche in lui, anche nel nostro pensiero migliore è presente la contraddizione. Le radici di queste posizioni paternalistiche sono presenti anche nei migliori intellettuali, quindi stiamoci attenti, guardiamole bene, le usiamo anche noi quando parliamo o quando pensiamo. Se non ci rendiamo conto di questo è una cosa, ma se cominciamo a vederla allora magari si apre uno spiraglio verso qualcosa di diverso.

EP: Qual è secondo voi la funzione dell’evento scenico nel nostro contesto culturale e sociale? Dove e in che modo acquista importanza incontrare il pubblico?

EF: Questa è una domanda da un milione di dollari. Una domanda difficilissima. Noi ce la poniamo tutti i giorni e non è che abbiamo una risposta. Abbiamo la nostra risposta. Secondo noi la funzione non è tanto quella di sovvertire o cambiare il reale, anche perché oggi il teatro è talmente una nicchia che non riguarda masse di spettatori tali da poter operare un cambiamento nella società. Parliamo di piccole folle. Però questo incontro dal vivo con le persone è, secondo noi, una delle poche cose rimaste che accade realmente. Per noi il teatro è mettersi nella stessa condizione dello spettatore, che per noi è sempre presente. Non lavoriamo senza l’idea di uno spettatore che ti sta ascoltando. Il teatro è fare accadere delle cose che ci riguardano. Se c’è ancora una funzione è proprio questa: far accadere delle cose, ma cose che ci riguardano. Qualcosa che ci parla, che dialoga, che ci fa venire in mente un desiderio o un dubbio. Sono d’accordo con te: la domanda sulla funzione bisogna tornare a porsela, soprattutto in questo momento di depauperamento della cultura. Oggi sentendo la notizia di Armando Punzo che abbandona il Festival di Volterra ho pensato: verso cosa stiamo andando? Fra qualche anno che panorama avremo intorno a noi?

Daniele Timpano: volevo aggiungere una cosa. In questa Italia dove la fruizione culturale e dell’informazione appare sempre più o calata dall’alto, o delegata all’individuo che in maniera sempre più frammentaria, individuale, secondo la propria curiosità, ricostruisce delle informazioni, ecco in mezzo a queste due polarità, mi pare che il teatro sia uno dei pochissimi posti dove rimane in vita quello che un tempo si chiamava diritto di associazione. Parlo proprio delle prime costituzioni e carte dei diritti di fine Settecento. Ecco il teatro secondo me è depositario di queste modalità.

Titans

TITANS di Euripides Laskaridis

Titans. Gli dei primordiali e selvaggi. Senza legge, senza regole. Eccessivi, abnormi, osceni, fuori scala, condannati al Tartaro dall’azione regolatrice di Zeus. Scellerati, brutali, delittuosi, estremamente ribelli, ma capaci di eccessi d’amore come quelli di Prometeo, i Titani sono i Vinti, sono gli dei senza culto, mitici e arcaici, ma nell’essere vicini all’Arké essi partecipano della natura originaria delle cose. Nei loro eccessi vi è qualcosa di profondamente contemporaneo, atomi e molecole primitive che si sviluppano nella nostra linea temporale. Questo furore creativo e distruttivo, gli scontri tettonici tra masse opposte, questa dirompente energia vitale che continuiamo a seppellire nel profondo del Tartaro, nel buio del boschetto delle nostre fantasie e perversioni, imprigionata dalla catene potenti delle leggi di Zeus.

In Titans di Euripides Laskaridis queste forze camminano latenti sulla scena, eppur presenti nella loro ingombrante deformità e mostruosità non priva di grazia. Corpi deformi e oscuri, sessualmente non definiti in continua oscillazione tipica delle nature ambigue, costruzione e distruzione, controllo e sfrenato eccesso. Non c’è niente di definito, non siamo nel manicheo separare bene e male, luce e ombra. È continua metamorfosi che oscilla tra estremi e partecipa di tutte le nature. Ogni tanto un aspetto diventa enormemente prepotente, si sfoga, fuoriesce come fuga di gas, per tornare ad essere riassorbito, dopo aver tirato la volata ad altro che prontamente eccede e sostituisce.

In Titans siamo nel caos magmatico di una terra non ancora formata, nessun paesaggio è stabile, nessuna forma di vita è sicura di una duratura evoluzione. Tutto cambia e permuta, ma in ogni variazione di questo straordinario caleidoscopio, appare un frammento di noi, della nostra vita, delle forze pulsanti che la attraversano e che tentiamo di relegare alle catene nel buio delle profondità.

Titans è anche un trionfo della scena e delle sue immense possibilità espressive. L’azione che si sviluppa nello spazio è portatrice di suono e di luce, come nelle sante icone di Grecia. La luce non si posa sull’azione, è quest’ultima a scaturire dal movimento, dall’operare di corpi e oggetti. Promana dall’evento che si genera abnorme, misterioso, non privo di grazia e passione. E così il suono, mai articolato in parola di senso compiuto, sempre balbettio, vocalizzo infantile, senza senso eppur partecipe di ogni senso. Ogni azione genera suono, che diventa voce in questa sinfonia dell’essere in movimento.

Non serve cercare di interpretare le azioni che si svolgono. Dar loro un senso sarebbe privarle di altri innumerevoli significati. Ognuno può nuotare nel mare di significazioni che esplodono dalla scena. Bisogna rifuggire dalla tentazione del simbolico che cerca a tutti i costi di essere svelato, rivelato. Non c’è identità, non c’è punto di vista, tutto si scuote, tutto diviene, tutto è possibile. Quella donna/uomo deforme, eppur sensuale, che sulla scena agisce,- insieme all’ombra oscura che lavora di soppiatto quasi invisibile eppur visibile -, porta luce e confusione, non ha identità alcuna, è molteplice, è legione.

Euripides Laskaridis è artista potente e sopraffino, dotato della rara, se non rarissima, abilità di esser padrone di ogni potenziale linguaggio scenico che sfrutta in ogni registro possibile. Sacro e profano, rituale e prosaico, divino e infero. Non conosce paura di affrontare il grottesco, il deforme, l’abnorme, l’osceno, donando a questi registri connotazioni di sublime grazia ed eleganze equivoche. Altissima la qualità del suo lavoro che sfugge a ogni inquadramento e a ogni qualificazione. Non è teatro, non è danza, non è performance, ma partecipa di ogni natura. È genere al di là dei generi e questo agire nel limine del definito e definibile, è azione politica di grande impatto. In questi giorni in cui noi tutti abbiamo come l’ossessione di essere qualcuno o qualcosa, di appartenere a questa o quella tribù sessuale, politica, lavorativa, sociale, questo non essere definibili, questo sfuggire all’identificazione, ci indica una strada verso una natura che pur ci apparteneva: una natura equivoca e polivalente, un essere plurimo e non diviso, un essere pieno e includente.

photograph-by-Julian-Mommert

Acqua di colonia

ACQUA DI COLONIA di Frosini e Timpano

Ogni nazione costruisce un’immagine di sé lontana dalla realtà, un’immagine in cui vengono rimossi con perizia tutti gli elementi ombrosi che possano sporcarla o appannarla. Un’immagine falsa e rassicurante che lava la coscienza e serve alla propaganda. Per l’Italia questa immagine è costituita della frase: italiani brava gente! In Acqua di colonia del duo Frosini e Timpano si smonta con graffiante e impietosa ironia questa falsa immagine: nelle colonie dell’Africa Orientale l’Italia ha commesso i suoi peggiori crimini di guerra. Il massacro di Sciar al Sciatt, lo sterminio e deportazione delle truppe del Muktar, l’uso dell’iprite e del fosgene in Etiopia, il massacro di Debra Libanas, i bombardamenti degli ospedali della croce Rossa. L’elenco sarebbe lungo e non ha senso riportarlo qui, basta un piccolo accenno però a far intendere quanto poco realistico sia il motto: Italiani brava gente.

Ce lo siamo costruiti poco a poco, soprattutto per distinguerci dai cattivi nazisti tedeschi nostri alleati. Noi non le abbiamo mica fatte le porcate, eravamo i buoni dalla parte sbagliata. Non è così. Appena riconquista la libertà dall’occupazione Austroungarica ci siamo lanciati nell’avventura coloniale. Il passaggio da oppressi a oppressori si consuma in appena 8 anni nel 1869 con l’acquisto dall’armatore Rubattino della baia di Assab e si conclude nel 1960 quando a Mogadiscio viene ammainata la bandiera italiana e la Somalia torna a essere unita. Quasi cento anni di occupazione coloniale eppure nessuno, o quasi, lo ricorda.

Acqua di colonia di Frosini e Timpano mette in luce anche il secondo aspetto insito nel motto: la rimozione del ricordo di essere stati colonialisti. In fondo non siamo mica la Francia o l’Inghilterra. Eppure lo siamo stati, abbiamo aggredito popoli che nulla avevano fatto contro di noi, li abbiamo occupati e sfruttati, abbiamo compiuto atti criminali che ci siamo sempre rifiutati di far giudicare, compiuto stupri, massacri, deportato popolazioni, gasato i nemici. Documento sconcertante è Topolino in abissinia (per chi volesse o non credesse ecco il link su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=n8xsJMJG1Ho ), dove il volontario Topolino sbarca in Abissinia con il gas nella borraccia e il mitragliatore sulle spalle, pronto a uccidere negri e inviarne la pelle ai suoi che stanno a casa.

La scuola non tratta se non di sfuggita la questione, dalla storia patria i fatti son rimossi, arriviamo addirittura a intitolare a Graziani, macellaio degli arabi, un mausoleo ad Affile nel 2012! Eppure le nostre vie, le nostre strade conservano la memoria: a Roma via dell’Ambaradan, piazza dei 500 (quelli uccisi dagli etiopi, perché le abbiamo anche prese in Etiopia), quartiere Africano a Roma, e qui a Torino piazza Massaua, piazza Bengasi. Ma chi sa dove si trovano questi posti? E siamo al terzo punto della questione: siamo ignoranti della nostra storia, e ignoranti della geografia della nostra storia. E questa ignoranza ci porta al quarto e ultimo punto: oggi, quando in parlamento si parla di Ius soli, quando si tratta di decidere se il figlio di un immigrato nato in Italia debba o meno essere considerato italiano, quando sulle nostre coste arrivano i barconi carichi di immigrati, ci ritroviamo a essere molto lontani dal concetto di: italiani brava gente. Siamo ignoranti e razzisti, e ci nascondiamo dietro a mille misere scuse: c’è la crisi, non ce n’è per noi italiani figurati per questi e così via.

Questi in sunto i punti toccati da Acqua di Colonia di Frosini e Timpano utilizzando ogni genere di materiali dalla cultura alta a quella bassa, dal fumetto (il già citato Topolino in Abissinia), alla rivista (il numero di varietà di Tognazzi/Angus Angeli negri che costituisce il tormentone dello spettacolo), Faccetta nera e l’Aida, Buti e Di Stefano. Si inizia ricordandoci che Adua o Massaua non sappiamo neanche dove siano, ma che ce frega poi? Si domanda. È roba vecchia, perché dovremmo sentirci in colpa? Perché siamo colpevoli noi adesso di quello che è stato fatto allora? Però in fondo affiora la verità: siamo colpevoli perché rimuoviamo, perché reiteriamo gli atteggiamenti.

E così il duo Frosini e Timpano si chiede come raccontarci gli italiani in Africa Orientale e si incomincia ad immaginare la scena: potremmo riempire il palco di animali di peluche, giraffe, rinoceronti, tutti morti e noi entriamo in scena con un bel controluce giallo e le maschere antigas con le orecchie di Topolino, prendiamo ‘sti peluche, li mettiamo nel sacco nero, e ce ne andiamo, il tutto mentre Di Stefano canta Addio, sogni di gloria. Questa sarà l’immagine che chiude lo spettacolo, ma per il momento continua la ridda di soluzioni immaginarie su come raccontare l’Africa degli italiani. E ci si accorge che sulla scena c’è anche una donna di colore, seduta su uno sgabellino, muta presenza a ricordare il rimosso.

E dopo tanto immaginare si incomincia utilizzando un sapiente montaggio delle attrazioni e si costruisce una narrazione che demolisce pezzo a pezzo la menzogna, le difese culturali, i miti intellettualistici: e per far questo compaiono in scena Ninetto Davoli e Pasolini, quasi a replicare il tormentone di Angeli Negri; e Stanlio e Ollio, Indro Montanelli che racconta della sua sposa somala di dodici anni. Spassosissimo il momento in cui frasi di triviale razzismo si scopre essere state pronunciare sia dal barista sotto casa, o dalla cugina, ma anche da Kant, Hegel e Benedetto Croce, perché il razzismo è condiviso, non risparmia nessuno.

Acqua di colonia di Frosini e Timpano è un portento ironico che con l’arma del dileggio stralcia il velo pietoso delle menzogne patrie su una delle pagine più nere della nostra storia. Ma l’ironia, come nel bellissimo Train de vie, arriva giusto a un passo dal traguardo. Il finale dei due Topolino con la maschera antigas in controluce giallo mentre Di Stefano canta Addio, sogni di gloria, è atroce e terribile, e ci ricorda che per quanto ci possiamo ridere sopra abbiamo commesso crimini orribili. Non siamo brava gente, ricordiamolo sempre.

Ifigenia in Cardiff

IFIGENIA IN CARDIFF regia di Walter Malosti

Ifigenia in Cardiff di Gary Owen ricostruisce il mito del sacrificio della figlia di Agamennone tra le strade uggiose della capitale gallese, e come la Ifigenia greca, immolata sugli altari affinché la flotta achea possa salpare alla volta di Troia, la figlia di Effie è sacrificata dal sistema. Povera, squattrinata, sguaiata, Effie passa da una sbronza all’altra senza ritegno. Incontra un soldato reduce dalla guerra in Afghanistan di cui rimane incinta. Scaricata e ingannata, decide di tenere la bambina, che muore nel venire alla luce perché mal curata. Effie prova a far valere i propri diritti, ma alla fine rinuncia, sacrificando la figlia. Un testo crudo, forse a volte un po’ troppo retorico, ma che denuncia un sistema che poco si occupa dei meno abbienti, e li sacrifica sugli altari dei costi.

Ma questo è il testo e il testo non è teatro. Lo diventa nel momento in cui si trasforma in immagine in movimento, si plasma sulla scena, si fa corpo vivo. E la trasformazione è assolutamente e senza appello di qualità scadente.

La regia è inesistente. Due soli movimenti a segnalare l’incedere del testo: segnare il numero dei quadri su una lavagna, dove la polvere di gesso finisce per trasformarsi in utero che racchiude un numero nove che diventa feto; il voltarsi, spalle al pubblico, dell’attrice a ogni cambio di scena, gesto peraltro eseguito con eccessiva fretta e imperizia. Null’altro. Un buio tra una scena e l’altra sarebbe stato più elegante. Discutibile la scelta di usare dialetti regionali italiani, peraltro mal eseguiti, in una storia ambientata a Cardiff. Se proprio non si resiste alla tentazione almeno ambientarla tutta in Italia, perché una Leanne che parla romano, o una nonna gallese che parla siciliano fanno venire latte alle ginocchia. Per non parlare dell’avventore milanese o l’infermiere che slitta tra siciliano e napoletano.

La recitazione di Roberta Caronia lascia poi alquanto a desiderare, costantemente gridata di gola, eccessivamente nervosa nella ricerca di interpretare una sballata ubriacona, senza riuscirci pienamente. Il tono è poi sempre il medesimo. Pochi i cambi di ritmo, in una monocorde modulazione dei toni acuti e strozzati.

Poco anche il controllo del corpo in continua oscillazione tra piede destro e piede sinistro come un metronomo per tutta la durata della piéce. L’energia del movimento che parte sempre dalle spalle senza raggiungere le estremità, senza coinvolgere il corpo tutto. Il corpo è segno, e un’immobilità può dire molto di più che simulare un finto vomito. Così come un gesto misurato e controllato, può valere decisamente più che mille inutili sbracciamenti.

Non vale la pena soffermarsi di più su un lavoro decisamente non riuscito, immerso fino al midollo nell’interpretazione e rappresentazione più ovvia, tanto che le due giovani mascherine che si trovavano nell’ombra a fianco della mia fila giocavano a indovinare cosa sarebbe seguito riuscendoci ogni volta. La migliore critica possibile erano le loro risate silenziose e trattenute a fronte di ogni eccessiva e smisurata interpretazione che appariva sulla scena. Sconcertante la mole di applausi per un lavoro di così poco valore.

50 grades of shame

50 GRADES OF SHAME di SHE SHE POP

Assistere oggi a qualcosa di completamente inatteso, sorprendente, che riempie la retina è sempre più difficile. Siamo così bombardati dalle immagini che sfuggire allo stereotipo risulta impresa ardua, c’è lo sconforto che coglie al sorgere della consapevolezza che tutto è già stato detto e fatto. Ma quando sorge inaspettata la sorpresa, l’apparire all’orizzonte di una terra incognita, si è come rapiti, traslati in questo altrove non mappato, nel bianco abbagliante di una carta geografica vergine di nomenclatura. Il nuovo territorio che appare in 50 grades of shame di She She Pop va esplorato a vista, procedendo con la cautela richiesta da ogni territorio alieno.

I corpi che si incontrano in questo nuovo territorio sono generazioni equivoche, mostruosità fantastiche eppur reali, una diversa e affascinante umanità. I corpi dei performer diventano, sui due schermi che campeggiano sulla scena, corpo unico, indissolubile coacervo di membra, mutevole novello Proteo in perenne trasformazione e mutazione. Corpi che partecipano di sessi diversi, incarnazioni di Ermafrodito, senza età e di tutte le età, mitici e reali. I corpi separati nella realtà partecipano divisi alla creazione dell’immagine che si ricompone sullo schermo. Tre, quattro, a volte cinque corpi fusi e riuniti in un unico corpo senza organi, improbabile, impossibile eppur reale. Una supermarionetta nata dalla fusione e collaborazione di singoli sparsi nello spazio e nel tempo, privati di un pezzo, ricomposti e ricombinati. Gli abitanti di questa terra incognita sono legione, sono uno e moltitudine. A loro nessuna permutazione è impossibile, innocenti privi di vergogna alcuna, mostrano le loro differenze e deformità, mutano testa e voce, moltiplicano gli arti, i sessi, diventano blemmi senza testa volto emergente dal petto, donne calamaro, deità indiane con mille braccia, volto di Brahma con facce da ogni lato, esseri senza gambe e due petti fusi in un bacio. Inverosimili accoppiamenti dove tutto è organo sessuale, tutto è bocca, orifizio, clitoridi e peni, in congiunzioni carnali che sfidano l’immaginazione più audace. Un’alleanza di corpi per un’esecuzione comunitaria e inscindibile, il singolo senza il gruppo sarebbe cosa impensabile. Lo spazio scenico si apre a una virtualità, si apre verso spazi non noti e impensabili. L’azione è sparsa per la scena e ricomposta come per magico teletrasporto sui due schermi, quello che appare non esiste ma è pur possibile.

Queste fusioni e permutazioni corporee rifulgono nella sontuosa Totentanz finale, la danza macabra di nordica memoria medioevale, in cui i corpi trionfanti danzano con gli scheletri e la morte in un invito alla vita che emoziona e scuote a cogliere l’attimo senza porsi il limite del pregiudizio.

Ma questi corpi hanno voce, sono corpo docente, che condivide la sua esperienza con il pubblico. Ma prima di tutto la domanda: Was ist verboten? cos’è proibito? E la domanda viene posta senza che ci sia risposta, solo la reiterazione della domanda in 13 lezioni. Tra Risveglio di primavera di Wedekind e 50 sfumature di grigio si pratica una nuova educazione sentimentale, si costruisce un novello Kamasutra. Vergini al sesso si chiede conoscenza, un’iniziazione al mistero della passione e della carne, a turno si sale in cattedra e mentre si fondono gli esseri in amplessi improbabili, in pose sconosciute, si realizza la fusione di cultura e esperienza, testo e vita privata, e così nuovamente si realizza il miracolo di rendere indistinguibile il modello di partenza nel mostro così ricomposto. Brechtianamente non c’è partecipazione emotiva, ma scientifica messa in discussione critica del mondo e delle opinioni. Tutto è posto in evidenza ma nella piena luce così amata da Tiepolo, ecco la perspicuità nascosta dall’abbagliante luminosità dell’evidenza: niente sappiamo, tutto è possibile, persino il proibito.

50 grades of shame è inoltre fusione di elementi culturali disparati di cultura alta e bassa in un perfetto superflat. Wedekind e E. L. James, la cantata di Bach BWV 82 Ich habe Genug (è quanto mi basta) con il pop, cantato a canone come fosse un salmo gregoriano, medievale e contemporaneo, esperienza personale e modello letterario. Tutto ancora una volta si fonde e ricombina per generare a sua volta nuove immagini e modelli.

Ma 50 grades of shame mi porta anche a un’altra riflessione. Un tale livello di perizia tecnica e formale, l’accesa innovazione innestata sulla tradizione, è impensabile nel nostro modello produttivo italiano. Una tale ricerca richiede tempo e protezione, sostegno e istituzione capace di garantire tutto questo. She She Pop sono un collettivo sorto dalla scena della postdrammaturgia che crea senza ruoli definiti, tutti sono autori, drammaturghi, esecutori. È una creazione a più teste e molte mani come i corpi fantastici che calcano la scena. Prima nasce il movimento sulla scena e poi la concatenazione di testo e esperienza personale. Una tale montaggio delle attrazioni necessita di tempo per rodarsi, per sfuggire all’ovvio e alla mediocrità. Nessuno oggi in Italia si può permettere questo dispendio di forze. E questo è assai triste. Un tale livello di qualità è raggiungibile solo con sforzi di ricerca, studio matto e disperatissimo, dedizione totale.

E se è vero che 50 grades of shame è un invito ad andare al di là della vergogna, a non aver timore di mostrare le nostre imperfezioni e le nostre deformità, è anche vero che il nostro corpo performativo dovrebbe altamente vergognarsi dello stato negletto e indecente in cui è naufragata la ricerca in questo paese. Nel giorno in cui il Teatro Valle è nuovamente occupato, il modello delle She She Pop dovrebbe essere di stimolo a cercare nuove soluzioni, a rimettersi nuovamente in moto, a ritornare a essere esploratori nelle terre incognite al di là della linea delle Colonne d’Ercole o delle terre dove abitano solo i leoni.

Ph: Doro Tuch

Personale politico penthotal

PERSONALE POLITICO PENTHOTAL

Personale politico penthotal è un viaggio, un omaggio e un confronto.

La parola viaggio ha molti significati: un viaggio nel tempo, in quella Bologna del ’77 dove si sognava in grande, dove l’impegno politico era vissuto con fervore e mille contraddizioni, dove non si aveva paura di impegnarsi e manifestare le proprie idee. Una Bologna agitata, turbolenta in anni burrascosi. Nel minuto di silenzio all’interno dello spettacolo compaiono alcuni dei fatti e dei lutti di quegli anni: dalla morte di Filippo Lorusso, alla strage di Bologna, e l’assassinio di Pecorelli e quello di Tobagi e i nomi son tanti che non tutti li ricordo. In Personale politico penthotal ci sono persino le voci di Radio Alice, l’emittente rivoluzionaria, radio libera che entrava nell’etere da un trasmettitore militare di un carro armato statunitense e che per prima diede la notizia della morte di Lorusso. Ma ci sono gli sbirri (evocati dal tormentone Volante 1/Volante 2 di Indietro tutta di Arbore e Frassica), ci sono i cortei, c’è la droga, c’è il sogno e il suo andare in pezzi.

Sono gli anni in cui appaiono Le straordinarie avventure di Penthotal di Andrea Pazienza, un vero e proprio affresco di un’epoca in cui l’ultima, famosa tavola riguarda proprio Lorusso. Un viaggio nei ricordi di chi quell’epoca l’ha vissuta, un viaggio dell’immaginazione per chi, più giovane, ne sente solo il racconto. Ma un viaggio è anche un trip, un volo stupefacente, chimico, sinaptico, allucinato e allucinatorio, dove io e sé si mischiano, e si sperimenta una sorta di coscienza collettiva. Un trip come molti usavano, per sfuggire a se stessi, per rivolta contro lo spirito piccolo borghese, per affermare un’emancipazione, per ricercare un’identità, buco nero della volontà, morbo e illusione, dipendenza e libertà. Oggi altre sono le dipendenze: dalle immagini, dai telefoni, dai social anche se le droghe son sempre lì, la pera tira ancora.

Personale politico penthotal è anche un omaggio ad Andrea Pazienza, il fumettista geniale, amico di Carmelo Bene, che faceva le copertine degli album di Lolli e dei PFM, ma anche di Amedeo Minghi, scomparso troppo giovane nel 1988. Un omaggio nel lessico e nelle immagini (il topolino crocifisso è un esempio). Pazienza popolare, sognante, malinconico, triste, graffiante, politico. Un universo di immagini e parole che trae la sua sostanza proprio da Le straordinarie avventure di Penthotal, un sogno vissuto dallo psichiatra, che mischia ricordi e fantasia.

Ma come si diceva, questo spettacolo è anche un confronto. Ieri e oggi, chi ha partecipato all’illusione della rivolta e della rivoluzione, e chi vive questi anni di disimpegno o, come viene detto nel testo, tra chi se l’è giocata e chi non ha nemmeno partecipato. E questo confronto avviene sul palco tra due linguaggi, quello teatrale di Marta Dalla Via e Omar Faedo de La Piccionaia, e quello Hiphop dei quattro giovani Mc (Dj Ms, Lethal V, Rebus e Zethone). Due linguaggi differenti, due toni differenti. Uno più scanzonato, divertente, persino malinconico, e uno più aggressivo, dirompente, graffiante. Entrambi poetici, in un dialogo costruttivo e ben riuscito. Poteva essere un accostamento forzato, di convenienza, e invece risulta, nell’assurdo di questo viaggio, funzionale ed estremamente espressivo.

Ma il confronto non è solo formale, è aperto allo spettatore. Un confronto tra tempi diversi, tra generazioni, tra pensieri e politiche. Non si tirano conclusioni, si lasciano molte domande in sospeso, ma sono lì, urgenti e pressanti e prima o poi dovremo provare a rispondere.

Personale politico penthotal è uno spettacolo riuscito, leggero e profondo insieme, come un fumetto, genere superflat per eccellenza, dove cultura alta e bassa si mischiano, come il rap che viene snocciolato sulla scena. Forse solo qualche passaggio farraginoso tra una scena e l’altra, ma è proprio un cercare il pelo nell’uovo.

Poetica l’immagine finale dove si rievoca Rose Thrower di Bansky, dove le rose vengono lanciate veramente dai rapper con il volto coperto dalle sciarpe come rivoluzionari a un corteo.

Enrico Castellani

INTERVISTA A ENRICO CASTELLANI – BABILONIA TEATRI

Le volte che mi è stata concessa l’occasione di assistere ai lavori di Babilonia Teatri sono sempre rimasto colpito, incuriosito e persino turbato dalla loro modalità scenica. Una parola aggressiva che si impone e impone una scelta, la separazione tra testo e immagine, un misto perturbante di tradizione innovazione. E mi sono sorte molte domande. Ho voluto quindi questa intervista per chiarire alcuni punti affinché lo sguardo critico sia la prossima volta più profondo e più utile. Ringrazio Enrico Castellani per la disponibilità e schiettezza nelle risposte che permettono di gettare una luce sul processo creativo di una delle compagnie più interessanti nel panorama italiano.

Enrico Pastore: Mi sembra di capire che alla costruzione dello spettacolo preceda un momento di composizione testuale. Per lo meno è quanto ho intuito assistendo a Jesus e Pedigree. Da cosa nasce la scintilla che vi fa sentire l’esigenza di un lavoro nuovo? E come procedete alla raccolta dei materiali?

Enrico Castellani: Generalmente quando decidiamo di affrontare una nuova creazione è perché succede qualcosa nelle nostre vite che ha a che fare con il concetto che andiamo ad affrontare e indagare. Non è mai una scelta a tavolino, ma ha sempre a che fare con delle questioni che per noi sono brucianti e rispetto alle quali sentiamo la necessità di interrogarci. È lì che nasce il desiderio di condividere le nostre domande con il pubblico. Con Jesus è stato sicuramente così, mentre per Pedigree vi è stata una scintilla esterna che  comunque coinvolge questioni che sentiamo anche noi, che sono vive anche per noi. Il lavoro è sempre quello: partire da interrogativi propri, capire quanto questi riguardino la società in cui viviamo. Questo avviene non facendo un’indagine sociologica, ma capendo cosa, rispetto a quel tema, la società ti rimanda e in te si è sedimentato. A volte esiste un testo che viene scritto integralmente prima dello spettacolo, per Pedigree è stato così, ma generalmente per noi il momento di creazione e composizione non coincide con la scrittura di un testo preesistente. I materiali vengono raccolti progressivamente. C’è una raccolta di materiale che sono sì testi, ma anche immagini e suoni e a questo segue un dialogo con la scena. Esiste continuamente un rapporto tra una sorta di tavolino dove noi ragioniamo, e la verifica sulla scena di quello che abbiamo pensato.

EP: Quindi il momento in cui inizia il processo di composizione delle immagini coincide con il processo di composizione testuale?

EC: Sì. Nel momento in cui formuliamo delle idee con un possibile taglio da dare a un testo, ragioniamo anche a delle immagini che possano sostenerlo, o che possano essergli affiancate. È chiaro che non esiste una legge. A volte può essere il testo a divenire motore di creazione, ma può avvenire anche il contrario. C’è sempre una dialettica tra l’immagine e la parola, tra il pensiero e la scena. A volte è davvero difficile stabilire una legge o un’equazione che possiamo dire: per noi funziona. Di solito lasciamo abbastanza aperte le possibilità. L’utilizzo delle immagini e la selezione dei testi a volte procedono per contrasto, altre volte vanno in accordo A volte andiamo a creare immagini che vanno a sostenere quello che andiamo a dire, altre volte sono completamente scisse.

EP: Come mai spesso e volentieri sono completamente scisse dalle parole?

EC: La nostra idee è che nel momento in cui c’è la parola, il nostro compito è quello di farla arrivare allo spettatore. Noi scegliamo la frontalità per consegnarla e lasciare poi allo spettatore in qualche modo il compito di prendere una posizione. Riteniamo che nella fissità, nell’immobilità possa risiedere la forza più grande per la parola e così consegnarla allo spettatore. In altri spettacoli a volte costruiamo un immagine che va a sostenere le parole. Faccio un esempio in Made in Italy, lo spettacolo si apriva con un lungo giuramento di una sorta di contemporanei Adamo ed Eva, gli spergiuri per definizione. In qualche modo quindi costruivano un’immagine che creava già un corto circuito con le parole che andavamo a dire. In questo senso a volte noi costruiamo delle immagini all’interno delle quali mettere le parole. Non è sempre necessariamente così. Generalmente le immagini sono separate dal momento della parola nei nostri spettacoli. Quantomeno in quelli dove è nostra la drammaturgia e dove il lavoro sul testo è importante. Un discorso è forse diverso per i lavori tipo Pinocchio, Inferno, Purgatorio. Adesso stiamo lavorando a Paradiso dove la dinamica scenica non passa attraverso un testo vero e proprio, ma mediante una parte di improvvisazione e un lavoro sull’immagine più preponderante.

EP: Ti pongo ora una domanda che rivolgo a ogni artista che intervisto, convinto come sono che si debba tornare a riflettere su questa questione: qual è la funzione delle live arts, se pur ve n’è una, nel nostro contesto?

EC: Io credo che fare teatro oggi possa avere ancora un senso nel momento in cui si fa qualcosa che si occupi del mondo in cui viviamo, del nostro tempo, che riesca a porre delle questioni e quindi a creare qualcosa che nel momento in cui finisce è riuscito a instillare una domanda nello spettatore.

Al di là dell’aspetto formale, che comunque per noi è importante, quello che può avere un senso è fare un teatro che ancora ha quel ruolo che ha sempre avuto, quello di fotografare il mondo e provare a riflettere su di esso nel proprio tempo. Altrimenti il rischio è di fare un museo del teatro. Secondo noi il problema è che, spesso e volentieri, lo spettatore non ha consapevolezza di questo, per cui non sceglie. Se tutti avessero una consapevolezza di quali tipi di modalità esistono e si scegliesse cosa si vuole andare a vedere forse le cose potrebbero essere diverse.

EP: Certo è che la vostra modalità di dizione in qualche modo obbliga a scegliere. Si viene invistiti da una tale raffica di parole che si è quasi costretti a prendere posizione. È decisamente una modalità molto forte. Ora un ultima domanda: nella mia attività di critico mi trovo spesso a parlare con giovani artisti i quali sentono una solitudine tremenda nella ricerca, trovano poche occasioni di dialogo con coloro che appartengono alle generazioni che li hanno preceduti. Ritieni che ci sia bisogno di tornare al dialogo e al confronto tra le pratiche e che sia utile creare occasioni di confronto fra artisti soprattutto rispetto a chi inizia un mestiere sempre più difficile e negletto?

EC: Quello che credo io è che il dialogo possa essere interessante, forse anche fondamentale o fondante, però credo che, come sempre nella vita, si tratti di incontri. E quando questi incontri sono preparati a tavolino, costruiti dall’esterno rimangano sterili. Ci sono degli incontri che sembrano quasi impossibili ma possono essere forieri di chissà quale collaborazione, o quale illuminazione. Però nascono da un’affinità che è prima di tutto umana e poi teatrale. In un mondo in cui di sicuro siamo sempre più monadi è sicuramente vero che questo avvenga meno di un tempo, che il dialogo tra gli artisti e le compagnie non rispecchia quello che è avvenuto in anni passati, però dall’altra parte dobbiamo guardare alla realtà, al dato di fatto: siamo questo, ma non vuol dire che non possano esserci degli incontri anche importanti. Quello che tu dici è sicuramente vero ma credo che forse questo dialogo di cui parli stia tornando come un’orizzonte possibile.

Babilonia Teatri

PEDIGREE di Babilonia Teatri

In principio era il mito, quello di Aristofane nel Simposio, laddove si racconta di un’umanità fatta di esseri a coppia, senza distinzione di sesso, con quattro braccia, quattro gambe e due teste. La loro potenza impaurì Zeus che decise di dividerli per poterli meglio controllare e da allora ogni metà è alla ricerca di quella mancante sempre senza distinzione di sesso. Questo il punto di partenza di Pedigree di Babilonia Teatri. Eppure mi sbaglio: il punto di partenza è un’immagine. Enrico Castellani, seduto su una poltrona sidecar, infila polli in uno spiedo. Quattro polli. Poi li mette a cucinare mentre Elvis canta Love me tender. I quattro polli sono l’immagine e la cifra di questo spettacolo conturbante.

Pedigree è un J’accuse lanciato senza remore o paure contro Denis, il bambino che chiede, nel passato dell’infanzia, mentre si risolve il compito estivo di dividere quattro polli tra mamma, papà, e i suoi cinque fratelli: ma perché tu non hai un papà? Si perché l’altro bambino, ha due mamme. Nato da una donazione di sperma, figlio di due mamme, colui che parla e accusa non comprende alcuna visione manichea che divida, come Zeus, tutto a metà. E così cerca i fratelli in vitro, sparsi per il mondo, di questo padre assente per festeggiare le feste. Con i suoi cinque fratelli e le due mamme, divide al pranzo di Natale quattro polli in otto parti uguali. I polli alla fine sono cucinati e Enrico Castellani se li mangia in scena mentre Elvis canta e Luca Scotton si fa sua controfigura in playback.

I polli allo spiedo, arrostiti in scena, con la loro presenza fisica, il loro odore che per la vastità dello spazio e l’aria condizionata si sente appena, almeno nelle prime file, ma sufficiente per sentirne un poco il segno, loro sono immagine potente che si fa processo di un pensiero in atto. Quello che sempre ho apprezzato nelle opere di Babilonia Teatri è la potenza delle immagini che sono capaci di evocare, come il ballo in controluce con i due vestite da sposa delle mamme. Si stagliano nel quadro della scena con un’evidenza che non necessità parola. Intagliano la retina e si stampano nella memoria.

Quello con cui riesco meno a fare i patti è la modalità oratoria del loro teatro. Babilonia Teatri dice come la pensa, chiaramente, e lo dice senza pause, con un incedere che non ammette passi indietro, in maniera feroce quasi senza respiro, come bersaglieri in corsa. Le parole sono gettate come pietre al di là del palco. E obbligano a prendere posizioni, a non rimanere inerti. Scuotono e colpiscono senza paura di far male. Sono atto politico puro. In un mondo imbambolato nella modalità politically correct, è modalità coraggiosa, non da ignavi, ma da uomini e donne che si prendono la responsabilità del proprio dire. Ho un grande rispetto e ammirazione per questo coraggio di dire. La mia fatica, e lo dico con rammarico, è che non riesco a convincermi che il teatro in senso ampio abbia nelle sue corde questa funzione. O meglio: l’atto scenico, in quanto pubblico, è sempre un atto politico, ma credo che tale atto si manifesti con maggior potenza quando la sua azione metta in rilievo quello che Thomas Mann chiamava lo sguardo stereoscopico, che metta in luce le contraddizioni dell’essere nella compresenza di punti di vista opposti. Ma non solo: credo in una modalità che investa più i processi che coinvolgono il pubblico, l’uso dell’immagine in movimento, i mezzi scenici nel loro complesso.

Babilonia Teatri scinde le due cose: immagine potente che si staglia con l’evidenza di un fulmine sulla retina, parola martellante che colpisce le orecchie e l’anima come un maglio in cui è assolutamente evidente il loro punto di vista. Questa divisione, sì manichea, che avevo già notato in Jesus, mi lascia perplesso, benché ne comprenda l’efficacia e la potenza. Parola e immagine condividono lo spazio scenico ma si toccano raramente, e nel caso di Pedigree mai del tutto. È senz’altro una modalità originale, potente. Anche Conde di Torrefiel scinde la parola dall’immagine. Essa è sempre sovrapposta dall’esterno all’immagine muta, ma la parola ha sempre un che di dubitativo, è lasciato sospesa all’immagine come domanda senza risposta. Parola e immagine sono adiacenti, si affiancano in contrappunto. In Babilonia Teatri sono come due linee melodiche che procedono indipendenti, prima una e poi l’altra, in un incedere a numeri chiusi assolutamente tradizionale. Certo tale tradizione viene scardinata dall’interno dalle modalità estremamente aggressive del dire e nella costruzione dell’immagine. È un teatro che abita la battaglia e non si tira indietro mai.

Al di là delle perplessità che stanno nella sfera del gusto personale, i lavori di Babilonia Teatri hanno un’indubbia potenza, e hanno il pregio indiscusso di non passare inosservati. Sono talmente potenti da mettere in discussione le convinzioni che abbiamo prima di entrare in scena. Siamo costretti a rivederle, a rifletterci sopra. E un risultato di non poco conto che merita un applauso a scena aperta.

Ph: Alberto Maggio

Jesus

JESUS di Babilonia Teatri

Potrei dirvi che questo lavoro di Babilonia Teatri mi è piaciuto. Ma siamo nel campo del gusto, dove tutto è aleatorio e possibile. Potrei dirvi che il Jesus tratteggiato con forza espressiva notevole mi trova d’accordo. Vorrei un Jesus così! Ma siamo nel campo delle opinioni. Un integralista cattolico probabilmente urlerebbe all’eresia. Ci troveremmo nel campo in cui in qualche modo, forzatamente, ci si schiera. Io vorrei muovermi nel campo della critica, parlare di linguaggio teatrale, parlare di materiali, tecniche e funzioni del teatro a partire da questo Jesus presentato da Babilonia Teatri. Lo spettacolo, Jesus, per un momento, lo lasciamo da parte.

Inizierò un po’ alla maniera dei matematici. Facendo un discorso che parte da un assunto assurdo.

Se qualcuno presentasse una sinfonia composta secondo i dettami del classicismo viennese, in quattro movimenti, con due temi, esposizione sviluppo e ripresa, con assunti armonici, melodici e contrappuntistici dell’epoca di Mozart, come la prenderemmo? Urleremmo all’avanguardia? Attenzione non sto parlando di un neoclassicismo in cui i modelli storici vengono ripresi e riformulati in un contesto contemporaneo (anche questo peraltro già fatto ampiamente). Sto parlando proprio di un calco. Probabilmente, di fronte a un fenomeno di questo tipo, scrolleremmo le spalle e prenderemmo la cosa come una curiosità, un sorta di fenomeno eccentrico, oppure ignoreremmo l’accaduto.

Eppure quando vado a teatro, sempre più di frequente, mi trovo di fronte a lavori il cui impianto formale, compositivo e strutturale, non è molto diverso da quello dell’epoca di D’annunzio o Stanislavskij: testo preesistente composto più o meno ad hoc; scene chiuse che preludono a uno sviluppo lineare che conduce a un esito definito con intenti morali, educativi, didascalici, frutto delle riflessioni dell’artista che ci fornisce la sua idea su questo o quel problema; attori che imparano un testo a memoria, lo interpretano, e lo manifestano sulla scena attraverso una performance prettamente vocale più che corporea; visione frontale di un’unica azione il cui punto di vista ancora è dominato da una focale prospettica. Certo questo fenomeno non è monolitico. Ci sono degli sfasamenti, degli inserti di contemporaneo ma la struttura compositiva è di fatto dominata da questi elementi. Strumenti vecchi che mantengono intatta la macchina della rappresentazione teatrale inchiodata sulla croce della tradizione consolidata.

Dunque se il linguaggio è vecchio e obsoleto, se si rimane tutto sommato inquadrati in un canone acquisito e non messo in discussione, che importa se l’immagine un po’ alla Cattelan dell’agnello appeso per le gambe che sovrasta un cumulo di patate sotto un lampadario antico è forte e potente? Che importa se la figura di Gesù tratteggiata sulla scena, un’immagine che tenta una sua rivalutazione nonostante la mercificazione a cui è sottoposta, è convincente e auspicabile? Non siamo di fronte alla vittoria della tradizione teatrale consolidata nel momento che utilizziamo strutture formali che dimenticano le dolorose battaglie affrontate dal contemporaneo per affrancarsi proprio da tali fardelli strutturali?

Che fine hanno fatto le visioni utopiche di un teatro che si affranchi dal dire, che si liberi dal testo, che scardini la visione frontale, che affronti il pubblico in modo che la sua passività venga in qualche modo bypassata, che rivaluti l’attore come corpo in movimento che faccia segni all’interno di un rogo? E che fine hanno fatto i discorsi riguardanti il montaggio delle attrazioni, la simultaneità, la sorpresa, la velocità di flusso, lo sfasamento della percezione di tempo e di luogo, i punti di vista multipli e spiazzanti? Se ci si muove in strutture compositive, formali e produttive obsolete come è possibile che nasca un fenomeno nuovo che faccia rinascere il teatro come arte autonoma e attiva all’interno di un contesto sociale contemporaneo?

Oggi come oggi la danza sembra aver acquisito le rivolte del teatro. La danza sembra muoversi, non gravata dalla schiavitù della parola e del dire, in un contesto che rivaluti il corpo in movimento che crea immagini evocate, potenti e significanti. Così come la performance meno sottoposta ai gravami formali di una tradizione, più libera di creare e sviluppare situazioni inconsuete. In Italia il futuro del nuovo teatro si scorge più in altri contesti, sviluppato da altre arti. E questo appare ovvio visto che in fondo le strutture critiche e produttive sono rimaste quelle del tempo di Pirandello. Se non si cambia tutto il sistema difficilmente scorgeremo sulle scene opere che facciano intravedere nuovi orizzonti. Saremo costretti ad applaudire un vecchio decrepito travestito da novità. È sul linguaggio che bisogna lavorare, sulle funzioni. Se non si ripensa a tutto questo, se non si rimette tutto in discussione si rischia di accontentarsi di quel che c’è. E io personalmente sono un po’ stufo di accontentarmi del meno peggio, anche perché, come diceva Carmelo Bene, il meglio del peggio è il pessimo.

raffiche

RAFFICHE di Motus o sull’ambiguità dell’essere

Raffiche si svolge in un salottino di un hotel. Nel testo o nella realtà? In entrambe. La condizione di partenza è già ambigua. Siamo e non siamo nella rappresentazione. Siamo pubblico ma anche ostaggi e testimoni oculari. Le terroriste che ci accolgono sono anche gentilissime maschere di sala che perfino si scusano per il disagio. C’è forza e arrendevolezza, violenza e gentilezza. Mescolate, miscelate, indistinguibili. Un cadavere di donna è invece platealmente e mollemente adagiato sui divanetti, nell’atmosfera calda e anonima di un luogo di passaggio come un salotto d’albergo.

E la vicenda si snoda in continui oscillamenti pendolari, slittamenti di posizione, sfocature: il poliziotto diventa terrorista e poi, per uscirne, ridiventa poliziotto; le donne in scena sono personaggi maschili (ma lo sono poi davvero?); l’ambiguità erotica è in ogni dove; le idee vengono prese e lasciate, impugnate e svendute con negligente nonchalance; i terroristi violenti vengono uccisi come agnelli indifesi sull’altare del sacrificio. Tutto scivola in continuazione verso altri luoghi senza mantenere mai nessuna posizione.

Jean, il protagonista superbamente interpretato da Silvia Calderoni, è il fulcro e l’emblema di questa proteica metamorfosi continua: il leader che diventa vittima, uomo che si traveste da donna per essere scambiato per l’ostaggio ucciso, e quindi trasformarsi da carnefice in vittima, come in effetti accade. Ma non è solo trasformazione, la parola esatta sarebbe tradimento. Esso viene invocato ed evocato a ogni passo. Tradimento di sé, delle proprie idee, del proprio ruolo. Vi è una sensuale e ambigua voluttà in questo tradire e tradirsi come non esistesse null’altro per l’umano agire.

In Raffiche di Motus, come già nel testo-modello di Jean Genet Splendid’s, tutto si oppone a se stesso, è in lotta con se stesso, e in fondo alla strada la morte, che sembra mettere un punto fermo ma non fa che scatenare ulteriori domande.

Ma non vi è solo il testo. C’è soprattutto la scena nella sua potenza di immagine in movimento. L’azione è costantemente colma di un eccesso di energia, i corpi si muovono con una velocità insolita in questo spazio angusto. Fremono, si agitano e, per osmosi, contagiano il pubblico che è invece costretto al fondo della sala senza via di fuga. Tutto diventa claustrofobico, ansiogeno e senza bisogno di una sola parola, solo immagine e azione. È il trionfo del linguaggio del teatro.

E il pubblico stesso non è semplice osservatore distaccato e abulico. È testimone oculare, è ostaggio, è giuria, è la comunità che assiste alle vicende di una parte di sé. È in scena e fuor di scena, ambiguo a sua volta, personaggio suo malgrado e il suo sguardo è azione scenica, non un posarsi stanco su qualcosa che non lo riguarda.

In Raffiche siamo nel mondo della rappresentazione, siamo nella finzione è vero, ma nello stesso tempo siamo immersi in un processo, perché siamo parte integrante di quanto si svolge. Ci trasformiamo insieme allo spettacolo, assumiamo una funzione nostro malgrado. E questa è una strada interessante, intrapresa già nel passato, ma senza convinzione, perdendo molte occasioni di sviluppare un percorso liminale, sul confine delle cose. Si parla tanto di coinvolgimento del pubblico, lo si rende partecipe in ogni modo, ma raramente si percorre questa strada. Anche Milo Rau adotta questo procedimento, così come le She She Pop prossimamente al Festival delle Colline Torinesi. Se proprio non si può abbandonare la rappresentazione, se comunque la necessità di una storia è in qualche modo nel nostro patrimonio genetico, questa modalità di intervento è decisamente interessante.