La sposa blu di Silvia Battaglio è la versione della nera favola di Barbablu che decisamente non ti aspetti. La novella di Perrault ci racconta di un uomo che sposa e uccide le sue mogli. E dunque ci si attenderebbe un ovvio parallelismo con il triste e inarrestabile fenomeno dei femminicidi. Tale elemento non manca, si badi bene, ma rimane sullo sfondo, come una quinta cupa, che conferisce alla narrazione un’angolatura tutta particolare e speciale.
La sposa blu osa contrapporsi a Barbablu, mai presente in scena, benché in qualche modo incomba nell’ombra tra le quinte. Non è la curiosità a spingere verso il proibito, ma un’affermazione positiva di indipendenza. La sposa vuole liberarsi delle paure proprie e di lui, quei timori che ci trasformano nella parte peggiore di noi stessi e teniamo sepolti nel profondo del nostro animo. Per questo desidera a tutti costi aprire quella porta e dialogare con gli scheletri nell’armadio. E proprio in questo confronto si libera dal possesso, non vuole essere schiava del terrore incombente, della solitudine a cui viene relegata da un uomo possessivo e violento, decide di aprire la porta e cercare l’uscita e la libertà.
Il racconto si dipana per immagini, attraverso linguaggi tessuti in contrappunto: gesto, danza, teatro di figura. La voce è sempre fuori scena, una voce pronta a prendere in prestito le parole altrui, di Desdemona, di Carmelo Bene e altri, a formare una sorta di montaggio di stati d’animo riuniti insieme allo scopo superare il trauma e il terrore verso una liberazione e non verso la morte certa.
Le stupende marionette degli anni ’40 della collezione Toselli prestate dall’ Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare di Grugliasco, diventano le mogli passate, pronte a riprendere vita, a suggerire un diverso finale alla novella sposa di pizzo bianco vestita. Evocative nell’essere copie e simulacri, le marionette sono una presenza inquietante sul confine abisso tra la vita prestata e l’inerzia dell’oggetto inanimato.
La colonna sonora, fatti di suoni d’ambiente e arie d’opera, gioca in contrappunto con la scena, è segno rivelatore di un percorso emotivo. Evocative le immagini, il gesto sempre controllato, mai superfluo o ridondante. Le luci sono materia utile ad aprire e chiudere gli spazi e a fornire linee di fuga.
Silvia Battaglio in La sposa blu
La sposa blu di Silvia Battaglio è un lavoro molto ben concepito, frutto di attento studio. Non è una semplice messa in scena ma una vera creazione d’attrice. Nonostante questi indubbi pregi a cui si assomma un gusto estetico raffinato e mai volgare o dozzinale, il lavoro risente, proprio per l’eccessiva attenzione al minimo particolare di una certa freddezza, una mancanza di emotività empatica che avrebbe fatto brillare il certosino lavoro di elaborazione.
Nel cercare di dominare il gran volume di materiale e di tecniche un’attrice come Silvia Battaglio, i cui lavori precedenti riflettevano di una certa misurata emotività che donava commozioni composte, sottili, ma profonde, si è come raffreddata, irrigidita nell’attenzione ai particolari e nel confezionare immagini di grande impatto visivo ma pronte a soddisfare più l’intelletto che il cuore. Il lavoro è ancora in fieri, non ha ancora raggiunto la sua temperatura ideale. Ora che la forma è ben incanalata e i materiali perfettamente incastrati, bisogna sfuggire alla loro orbita, navigarci dentro superando tutte le trappole che le immagini pongono sulla via, e ritrovare il calore magmatico dell’emozione. Bisogna dimenticare le regole e la gabbia drammaturgica e dopo aver dimenticato, come dicevano i maestri taoisti, dimenticare di aver dimenticato, il che significa lasciarsi portar dal flusso, presenti e distanti nello stesso tempo, e far fiorire l’emotività di un viaggio periglioso verso la liberazione.
La sposa bluè dunque un lavoro complesso ancora in lotta con sé stesso per sorgere alla piena luce sfuggendo ai legami che la stessa creazione pone alla sua attrice. Silvia Battaglio è un’artista esperta, sapiente, capace con il lavoro di costruire tale tipo di percorso che necessità solo di tempo per far emergere tutte le sue potenzialità. Il tempo è l’unico elemento utile all’artista per far sbocciare i propri lavori, un bene sempre più prezioso e raro in un sistema pronto solo a chiedere e pretendere e a non concedere. Silvia Battaglio ha però la fortuna di essere prodotta e supportata da una compagnia come Zerogrammi, molto attenta a coltivare i processi artistici. Silvia dunque saprà trovare, come la suaSposa Blu, la giusta via di fuga e raggiungere tutta la piena e delicata potenza che traspare dal disegno compositivo. Di questo ne siamo sicuri.
L’ultimo fine settimana di settembre mi ha portato a contatto con due opere in sé molto diverse per approccio drammaturgico, estetico e politico, ma in qualche modo correlate proprio nel loro essere opposte. Come le piante del mito indiano una ascendente verso l’alto, l’altra discendente verso il basso intrecciano i loro rami e diventano la casa, non più degli dei, ma delle immagini.
Questo appartenere a piani e orientamenti diversi, ci pone a contatto con alcune questioni sempre più urgenti: riformulare le funzioni della scena, in primo luogo; in seconda battuta mette in questioni le modalità di racconto della realtà quando questa si fa sempre più sfuggente, relativa, evanescente. Anzi forse la vera domanda è se esista una realtà da raccontare e non ci si trovi di fronte a una miriade di punti di vista parziali, divisi e sparpagliati come i frammenti di uno specchio rotto, e solo attraverso la relazione di queste diverse isole possa intravedersi un disegno mai statico ma multiforme e cangiante.
The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia
Le opere di cui parlo sono The Nest – Il nidoin scena al Teatro Astra di Torino,ultima creazione della Compagnia Dellavalle/Petris da un testo del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz del 1974 e già in anticipo sui tempi rispetto ai temi ambientali; l’altra in scena alle Fonderie Limone nel programma di TorinoDanza è Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou, acclamato artista maestro nell’ideazione di paesaggi immaginari ed evocativi attraverso cui, in ogni sua creazione, riesce a ridefinire cosa sia una coreografia.
Torniamo al tema di apertura. Roberto Calasso scriveva: «La narrazione presuppone la scomparsa della realtà. Non ha senso raccontare a chi è testimone». Questo principio presuppone non la descrizione di un mondo quanto piuttosto l’invenzione di uno non esistente ma possibile, e nel suo essere plausibile ecco farsi specchio riflettente un’immagine che, in qualche modo misterioso, riesce a parlare proprio del mondo attraverso il nascondimento proprio della rappresentazione.
È il processo che avviene nel mito: Agamennone non è solo un semplice reduce di guerra, la sua vicenda non è la cronaca di una vendetta nata dalle conseguenze di un conflitto. È una figura inesistente, una maschera contenitore attraverso la quale parlano le voci (da qui il termine Hypocrites che definisce il ruolo dell’attore: colui che risponde e interpreta l’oracolo, ossia colui che viene parlato dalle voci) ed entro cui le contraddizioni tra ciò che è considerato giusto e sbagliato possono scontrarsi. La sua storia diventa un luogo altro, una porta dimensionale attraverso cui infinite realtà possono materializzarsi, ed ecco perché, attraverso i secoli, il racconto delle vicende sue e della sua famiglia, ha colpito e ancor colpisce.
Se Eschilo avesse parlato della vera storia del semplice soldato Eumeo, del suo ritorno a casa, del tradimento della moglie Santippe con il vicino di casa, del suo omicidio e delle vendetta del figlio Telegono, il risultato sarebbe stato lo stesso? Quella vicenda lontana dai miti e dagli eroi avrebbe varcato i secoli? Si sarebbe potuto parlare della nascita del tribunale e di fondazione dell’Occidente se Eschilo si fosse limitato alla cronaca?
The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia
Il Nido messo in scena dalla Compagnia Dellavalle/Petris, riscrittura personalissima dal lavoro del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz, mette in questione proprio questo: attraverso la vicenda di un semplice camionista, del suo accettare qualsiasi lavoro per potere mantenere la sua famiglia, anche quelli illeciti come il versare liquami tossici nel lago dove nuota suo figlio mettendone in pericolo la vita, non stiamo raccontando un universale in cui tutti ci troviamo coinvolti? Il racconto fatto ai testimoni di una modalità comune non genera allo stesso modo una catarsi o un satori improvviso?
Dellavalle/Petris scelgono inoltre di portare il piano di realtà ancora più prossimo al pubblico mostrando in scena interviste a giovani coppie che si interrogano proprio su cosa avrebbero fatto al posto del protagonista. Queste confessioni rivelano una realtà più conformista e consenziente del personaggio incarnato dall’attore in scena già molto poco eroe e più complice e vittima di un sistema. Nell’osservare il processo drammaturgico messo in moto ci scopriamo a essere tutti complici di un modello sociale ed economico e, nello stesso tempo, di essere pronti comunque a giudicare severamente chi viene colto in flagranza di reato e, in seguito, di essere altrettanto pronti a giustificare le nostre connivenze con la scusa che il pane va comunque portato a casa e non ci si può permettere di perdere il lavoro.
La cronaca quindi, la microstoria intrecciata con le altre personalissime narrazioni dei cittadini, partecipanti al processo di condivisione drammaturgica con le artiste, ci mostra la tela di ragno entro cui tutti siamo ingabbiati. Il meccanismo attraverso cui siamo tutti schiavi in apparente stato di libertà, e dove l’equilibrio ecologico del pianeta è messo a rischio da un criterio economico fondato sul ricatto e lo sfruttamento, un sistema tenuto a galla proprio dalle nostre continue complicità, dal nostro quotidiano cedere ai ricatti, nell’essere incapaci di astrarsi da un consumismo compulsivo generante un falso senso di appagamento.
Il nido entro cui pensiamo di essere protetti è un’illusione e siamo proprio noi stessi, con i nostri quotidiani piccoli sì, con i nostri bisogni di consumatori, gli artefici della sua distruzione. Proprio come ne La Tana di Kafka, il costruttore del rifugio ne è anche il distruttore.
Non è più quindi il racconto a essere mezzo di emersione di verità nel senso di Aletheia, ossia di ciò che è nascosto, quanto il dispositivo che con le sue trappole fa emergere un contesto. Un processo inverso attraverso cui l’universale sorge dal particolare, dall’elemento cronachistico, dalla microstoria. Qualcuno potrebbe obiettare che tutto questo non è per nulla nuovo. Fin da Brecht e del teatro agit-prop si provato in teatro a far questo. Eppure perfino quel teatro è rimasto affascinato dal mito. Solo le nuove generazioni stanno riuscendo ad allontanarsi definitivamente da una narrazione che prevede un eroe che universalizza in sé un problema.
Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert
Dimitri Papaioannou ci catapulta in un mondo strutturalmente diverso. Siamo accalappiati fin dall’inizio in un gorgo di immagini, le quali richiamano a loro volta altre immagini, miti, opere d’arte, paesaggi. Papaioannou, architetto come Dedalo, orchestra un meraviglioso labirinto di forme pronte a susseguirsi senza una reale necessità drammaturgica ma come nei sogni dove la logica si fa evanescente. Papaioannou trasforma la scena nel dio Proteo, il quale, affinché pronunci l’oracolo, deve essere tenuto ben saldo a terra e solo dopo l’ultima trasformazione dirà la verità.
È inutile in questa sede fare un elenco dei riferimenti iconografici. Poco importa che il toro diventi quello di Pasifae o il rapitore di Europa, né a quale artista si possa riferire l’immagine della donna partoriente nella conchiglia. Interessa il processo drammaturgico messo in atto da Dimitri Papaioannou: accostare le immagini, farle fiorire una dall’altra, mostrare questi corpi ibridi, nati da generazioni equivoche, mescolare i piani di realtà a livello iconico. In questo disegno non importa nemmeno che vi sia un progetto. Ciò che diventa fondamentale è farsi trasportare come foglie dal vento generato da questo voltar pagine e pagine da un’immagine e l’altra. La realtà appare? O forse come Cobb in Inception di Christopher Nolan siamo intrappolati in un sogno dentro a un sogno? Questo labirinto estetico è provvisto di un qualsiasi filo d’Arianna che ci aiuti a uscire dalla caverna per osservare chi genera le ombre proiettate sullo schermo?
Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert
Il Nido e Traverse Orientation ci mostrano due modi di raccontare il mondo: attraverso l’infinitamente piccolo e l’abissalmente lontano. Come racconta la Tavola Smaragdina, testo cruciale dell’alchimia, ciò che è in alto rispecchia ciò che sta in basso. Ciò che è cambiato radicalmente è la prospettiva in cui si pone l’osservatore. Non è più parte di un mondo solido, costituito di valori ampiamente condivisi, ma è assiso sulla capocchia di un proprio personalissimo spillo, dal quale vede un mondo drasticamente diverso da quello del suo vicino. Queste visioni si possono incontrare solo se in qualche modo riunite in rete, collegate come sinapsi neuronali, riconfigurantesi volta per volta.
Non vi è più una sola realtà. Forse non c’è nemmeno una realtà. Solo dei fenomeni che appaiono fugaci come lampi nella notte. E non ci sono più testimoni nel senso tribunalizio del termine: il terstis, colui che ha visto e ne dà conto; ma secondo l’etimologia che ci porta al mártys (da cui martire) colui che testimonia in pubblico la sua fede. Il fatto di aver vissuto, di essere nella pelle di, rende vero e tangibile ciò che è relativo e personalissimo. Esistono quindi solo sguardi diversi che per confrontarsi necessitano di un termine di paragone, o di uno specchio che rimbalzi l’immagine, rendendo chiaro che, in ogni caso, è sempre tutto un gioco di ombre.
Da quando i teatri hanno riaperto ho voluto cercare l’occasione giusta per ritornare in sala. Volevo uno spettacolo che mi risvegliasse il desiderio del teatro e riportasse a galla gli alti valori di quest’arte millenaria sopiti nel lungo intermezzo d’assenza e che nessuno streaming o zoom poteva in alcun modo impersonare se non nella mancanza e nell’inadeguatezza.
Festen. Il gioco della verità messo in scena da Il Mulino di Amleto al Teatro Astra di Torino, prima versione teatrale italiana del capolavoro cinematografico di Thomas Vinterberg, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1998, mi sembrava l’occasione giusta per molti motivi ben rappresentati dalle parole chiave comprese nel titolo in testa a queste riflessioni.
La verità in primis. Veritas per i latini rimandava a una conformità di un’asserzione rispetto al reale oggettivo. Il termine aveva, etimologicamente parlando, anche una certa parentela con la fede, consanguineità rimasta nella vera nuziale (pensiamo anche alla religione cattolica dove si dice: Dio è verità). Per i greci d’altra parte, si parlava di Aletheia, ossia del non dimenticato, di un venire a galla attraverso uno svelamento, un apparire da un nascondiglio. Aletheia è velata ma sotto gli occhi di tutti, solo un’azione energica, coraggiosa, persino crudele, è capace di togliere il velo e farla apparire. Aletheia è appannaggio di Dike, dea della giustizia, perché ciò che rivela ci conduce lontano dalle false opinioni e dall’ignoranza. È dunque un’azione legata alla conoscenza, perciò è fluida, non granitica, mutevole secondo le circostanze e il contesto. Il teatro può essere una forma di conoscenza, laddove si allontana dallo spettacolino, per divenire dunque una sorta di prassi filosofica volta a far emergere ciò che di irrisolto resta nel nostro vivere, qui e ora.
Per dire la verità, intesa come Aletheia, bisogna percorrere strade tortuose. Per fare emergere ciò che è nascosto bisogna nascondersi a propria volta, usando la maschera, farsi parlare dalle voci, farsi attraversare dalle cose. Questo è il gioco della verità messo in atto da Il Mulino di Amleto: la festa a cui assistiamo, la vicenda di cui ci troviamo a essere complici (e vedremo in che modo), è la macchina di svelamento, il mezzo attraverso cui emerge il nascosto. Ulteriore strumento di emersione è il gioco tra ciò che avviene dal vivo e l’immagine filmica, in unico piano sequenza girato dagli stessi attori, proiettato sul telo trasparente che forma la quarta parete. Si può scegliere cosa guardare: la rappresentazione o la finzione, entrambe realtà parziali, frammenti di uno specchio da dover ricostruire ognuno a suo modo, e così scoprire il gioco di incastri, scambi e trucchi messi in atto davanti a noi per darci l’impressione della festa. Qui non siamo di fronte a un’ennesima applicazione della tanto sbandierata multidisciplinarietà, ma di un vero e proprio montaggio delle attrazioni in cui ogni linguaggio possiede una sua linea di significanza che si contrappunta con le altre a formarne uno più complesso da cui emergono i temi principali.
Da questo intreccio di forme diventa palese che il pretesto della vicenda, ciò che avviene tra i personaggi, non riguarda tanto e non solo l’istituzione famiglia, quanto piuttosto la lotta generazionale, l’oppressione dei padri sui figli, il liberarsi dei debiti ereditati, dalle catene imposte che negano una libera costruzione di un futuro diverso. La maschera e il montaggio delle attrazioni insieme rivelano un problema politico, soprattutto in questo paese, dove tutti abbiamo ricevuto in dote un fardello di cliché, debiti (pubblici e privati), automatismi e cattive abitudini da cui è molto difficile, non solo liberarsi, ma addirittura guardarle senza impallidire e distogliere lo sguardo.
In questo gioco di maschere e di scomodi svelamenti, una parte è affidata al pubblico. Ci scivoliamo dentro quasi senza accorgersene. Sembra un gioco per innescare la narrazione, una delle tante e vuote forme di coinvolgimento del pubblico, qualcosa per farlo partecipare all’opera. Ci viene fatto scegliere quale copione interpretare, se quello verde o quello giallo. E la festa comincia. Solo alla fine capiamo perché quando nel finale ci viene riproposto il meccanismo: scegliere la lettera gialla o quella verde. Da quella lettera si scopre il verminaio e noi pubblico, altro non eravamo che gli ospiti della festa, quegli invitati che di fronte agli scandali snocciolati davanti ai nostri occhi abbiamo taciuto, osservando interessati e incuriositi, ma senza intervenire. Come in Five easy pieces di Milo Rau dove nel terzo frammento ci troviamo tutti a essere Dutroux, anche in Festen tutti partecipiamo, con il nostro semplice osservare taciti, al tentativo di insabbiamento della verità. L’atto di svelamento avviene sul palcoscenico ma senza la nostra attiva partecipazione. Noi siamo i complici. Abbiamo visto ma taciuto continuando a partecipare da ospiti alla festa di compleanno. Questa è l’azione politica messa in atto da Il Mulino di Amleto: svelare la complicità di noi tutti nell’ignorare ciò che avviene sotto i nostri occhi, e di ciò farci prendere coscienza.
Art needs time
Il processo di svelamento mediante il dispositivo di rappresentazione è frutto di un lungo processo di ricerca che ha impegnato Il Mulino di Amleto per almeno due anni, processo di cui chi scrive è stato in parte testimone partecipando alle sessioni di lavoro del progetto Art needs time messo in atto dalla compagnia torinese durante il 2019 e bruscamente interrotto dallo scoppio della pandemia nel febbraio del 2020, quando proprio durante una sessione di lavoro fu annunciata la prima chiusura dei teatri. Durante quei periodi di intenso lavorio svincolato dalla necessità produttiva (un vero miracolo di questi tempi, soprattutto perché autofinanziato dalla compagnia stessa con estrema generosità) i materiali sono stati attraversati in molti modi: dal Manifesto Dogma 95, alla favole (Hansel e Gretel attraversa e si intreccia con Festen), e poi il Manifesto di Gent, Gli spettri e Un nemico del popolo di Ibsen. Un lungo lavoro con gli attori, i drammaturghi, la regia. Un processo reso possibile dalla grande coesione di un gruppo che sta crescendo insieme da anni condividendo l’evoluzione creativa sia del linguaggio registico, che delle scrittura e del lavoro dell’attore su se stesso, sulle tecniche e sui materiali.
Con troppa fretta in questi anni si è archiviata la modalità di creazione condivisa delle comunità teatrali, relegando il fenomeno a un momento storico concluso da cui non potevano maturare altri frutti. Eppure oggi si sente la mancanza di tale crescita comune, di coesione, discussione, lotta con la materia e con se stessi affrontata insieme in tutte le sue pericolose e tremende vicissitudini. Questa è la vera forza de Il Mulino di Amleto: l’essere un gruppo eterogeneo, unito, aperto alla sperimentazione e al confronto, con uno sguardo ampio e fiducioso verso il migliore teatro italiano ma soprattutto europeo. Questa forma comunitaria di agire, questa bottega artigiana abitata da molti, permette l’emergere della comunità proprio nel suo essere inclusiva anche del pubblico senza scomodare azioni forzate di coinvolgimento (avveniva anche nello splendido Platonov). È la forza dell’opera che ci permette, come pubblico, di essere parte in causa, di essere interpellati a viva forza e di essere quasi costretti, seppur gentilmente, a dire la nostra, a esprimerci. Ecco un’applicazione viva, non copiata, ma ispirata da quella che Milo Rau chiama Interpellation: il chiamare in causa il pubblico, scuotendolo, impegnandolo a dar conto delle proprie scelte e opinioni.
Ecco quindi le quattro parole che formano il titolo: verità, comunità, ricerca e politica intrecciate nella pratica di un gruppo che si impone sul panorama nazionale per il rigore con cui riafferma le funzioni più alte dell’azione teatrale: prassi filosofica, forma di conoscenza, luogo di confronto, farmaco delle ferite che ci attraversano come società.
Fin qui ho parlato de Il Mulino di Amleto come unita compatta, ma questo corpo unico e fortemente unito ha diverse anime che è giusto ricordare: a partire da Marco Lorenzi, uno dei registi di maggior spessore in questi anni, affiancato da Lorenzo De Iacovo alla scrittura e dalla dramaturg Anne Hirth, e quindi gli attori Roberta Calia, Yuri D’agostino, Elio D’Alessandro, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca, a cui, in questo ultimo lavoro si affiancano Roberta Lanave, Danilo Nigrelli e Irene Valdi.
Giunti alla fine qualcuno potrebbe obiettare che in questa recensione vi sono molte riflessioni ma pochi riferimenti alla storia. Avete ragione. La storia non è importante. È il pretesto per mettere in piedi un atto di conoscenza. Se si è interessati alle storie bisogna rivolgersi verso altri lidi, cercare l’intrattenimento, laddove tutto si basa sul plot. Il teatro, quando è grande teatro, è pensiero in atto, un ragionamento fatto d’azione, parole, movimento. È presa di conoscenza del mondo in cui si vive, ognuno dal suo punto di vista, sempre diverso nel tempo e nello spazio.
FESTEN. IL GIOCO DELLA VERITÀ
DI THOMAS VINTERBERG, MOGENS RUKOV & BO HR. HANSEN
ADATTAMENTO PER IL TEATRO DI DAVID ELDRIDGE
PRIMA PRODUZIONE MARLA RUBIN PRODUCTIONS LTD, A LONDRA
PER GENTILE CONCESSIONE DI NORDISKA APS, COPENHAGEN
VERSIONE ITALIANA E ADATTAMENTO DI LORENZO DE IACOVO E MARCO LORENZI
CON DANILO NIGRELLI, IRENE IVALDI E (IN ORDINE ALFABETICO) ROBERTA CALIA, YURI D’AGOSTINO, ELIO D’ALESSANDRO, ROBERTA LANAVE, BARBARA MAZZI, RAFFAELE MUSELLA, ANGELO TRONCA
REGIA MARCO LORENZI ASSISTENTE ALLA REGIA NOEMI GRASSO DRAMATURG ANNE HIRTH VISUAL CONCEPT E VIDEO ELEONORA DIANA COSTUMI ALESSIO ROSATI SOUND DESIGNER GIORGIO TEDESCO LUCI LINK-BOY (ELEONORA DIANA & GIORGIO TEDESCO) CONSULENTE MUSICALE E VOCAL COACH BRUNO DE FRANCESCHI PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA, ELSINOR CENTRO DI PRODUZIONE TEATRALE, TEATRO STABILE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, SOLARES FONDAZIONE DELLE ARTI IN COLLABORAZIONE CON IL MULINO DI AMLETO
DEBUTTO 31 MAGGIO 2021 – TEATRO ASTRA, TORINO PRIMA ASSOLUTA ITALIANA
Kollaps di Phillip Löhle in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino per la regia di Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto è un atto di immersione. Si trattiene il fiato e si entra in un ambiente in cui verremo bombardati da pressanti domande a cui prima o poi, ciascuno nel proprio privato, dovremo provare a dare delle risposte.
Si comincia così, con queste parole: «La civiltà si nutre della nostra repressione imponendo all’individuo sacrifici sempre maggiori». È una citazione di Herbert Marcuse da Eros e civiltà. Poi ci viene raccontata una storiella, quella del pollo che viveva felice e ben nutrito nella fattoria, contento che la sorte gli avesse affidato un buon contadino pronto a prendersi cura di lui. Poi arriva il giorno del macello e il pollo capisce di aver frainteso. Morale della favola: durante non si capisce. Solo alla fine ci si trova faccia a faccia con la verità, quella che consapevolmente o meno abbiamo ignorato di vedere.
Kollaps ph: @Andrea Macchia
La situazione è simile a La parabola dei ciechi di Bruegel, una delle immagini più sconvolgenti della storia dell’arte. Sei ciechi camminano in fila indiana appoggiandosi uno all’altro lungo un sentiero diretto a un nero fosso. Il primo già cade nell’abisso, il secondo avverte lo scivolare e sul suo viso si disegnano i tratti dello spavento generato dalla consapevolezza, ma è il terzo il più inquietante, quello che cammina fiducioso, quello che ignora.
Philipp Löhle ci regala qualcosa di più di Bruegel: ci racconta non solo la caduta nell’abisso ma anche l’emersione. I ciechi riemergono ciechi, benché resti il ricordo di un evento catastrofico. Si prova a cancellarlo, a rendere testimonianza, persino ignorarlo ma non è possibile metabolizzarlo, il ricordo permane e rende tutto insipido, decolorato, come fossero passati i langolieri di Stephen King. Eppure, nonostante questa perseveranza, non si procede alla messa in questione del sistema che ha condotto al crollo. Si continua, si persiste nella cecità. Si fa solo finta di niente senza crederci troppo. E non è questa la nostra situazione? Non stiamo noi facendo lo stesso nel voler tornare a quel “come prima” causa della situazione attuale?
Questi sono gli eventi di Kollaps; il racconto del fatidico giorno in cui il mondo finì, e il resoconto di quanto avvenne dopo, quando tutto ricominciò e si provò a far finta di niente senza veramente riuscirci. Si raccontano le reazioni immediate allo spaesamento di fronte al venir meno del manto rassicurante della civiltà, insieme alle scuse meschine volte a giustificare l’ingiustificabile. La questione è di quelle imprescindibili, riguardo alla quale bisogna quanto meno interrogarsi se non prendere partito, scegliere da che parte stare e cosa fare dal momento in cui essa giunge alla coscienza.
Si potrebbe pensare che tutto questo abbia a che fare con la pandemia e sarebbe un grave errore. Il testo di Philipp Löhle è del 2015 e il collasso di cui si parla è affine a quello descritto da Jared Diamond nel suo Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire. Si parla del crollo di una civiltà per aver scelto consapevolmente di negare a se stessa la visione dei segnali di pericolo, di aver fatto insomma come gli abitanti dell’Isola di Pasqua: tagliare l’ultimo albero ben sapendo che non ne sarebbero cresciuti altri. Si parla di risorse, del loro utilizzo, del loro sfruttamento e delle conseguenze di una visione volta all’auto-accecamento. Quello di cui si parla è la cecità di Elias Canetti, quella che porta all’autodafé. Ovviamente il contesto risemantizza l’argomento ma la domanda sottesa al testo e al lavoro scenico de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi è un’altra.
Potremmo porla così, con le parole di Emanuele Severino: «Si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?»
Il mulino di Amleto Ph:@Andrea Macchia
Questa domanda è stata posta non solo mettendo in scena le parole scritte da Philipp Löhle, ma utilizzando i mezzi e le funzioni proprie del teatro. Il luogo innanzitutto, come diceva Mejerchol’d. La scena come agorà dove il pubblico non è un numero da mettere in conto alle presenze e alla statistica quanto piuttosto un estratto di quella società di cui si fa parte e che si ritrova qui e ora, di fronte alla rappresentazione, per mettere in questione il reale, trovare una cura alle ferite, provare ad afferrare un senso sfuggente come un’anguilla.
La scena in secondo luogo, dove non si assiste al riferito, al rimasticato, dove ciò che si vede non è solo la messa in immagini di quanto scritto, ma è voce in contrappunto, colma di toni, ritmi e voci assonanti/dissonanti, ironiche e tragiche, squallide seppur meravigliose nella loro nettezza, dove i linguaggi dialogano e si scontrano, dove i corpi incarnano, dove i quadri ci scuotono per quanto ci interrogano. specchi che rimandano ad ognuno un’immagine di sé insospettata o volutamente ignorata. Questa scena parla a tutti, non agli spettatori professionisti, ai patiti e agli ossessi del teatro, ai critici e agli addetti ai lavori, parla a chiunque, con la forza di un maglio che sbatte sull’incudine.
Kollaps Ph:@Andrea Macchia
Non mancano i difetti. Vi sono degli eccessi, gesti inutili, ridondanze, personaggi a volte sopra le righe, ma in questo materiale sporco, forse persino un poco grezzo, generato dai pochi giorni di prova concessi da un sistema produttivo incapace di sostenere la vera ricerca, risalta e si illumina la forza devastante del teatro, quell’energia cercata da Artaud, quelle idee più forti della fame tanto da ricordare che il cielo può caderci in testa a ogni istante e dove l’attore è colui che fa segni tra le fiamme.
Questo è teatro nella sua forma migliore, quella che tendiamo a dimenticare. Una forza che resiste sotto le ceneri dell’enterteinment, delle politiche scellerate, degli inutili presenzialismi, dei prodottini da catena di montaggio, uguali a se stessi e senza nulla da dire. Fortunatamente qualcuno ogni tanto rinfocola la fiamma e permette di vedere il teatro nella sua manifestazione più potente. Questo è il merito principale di Marco Lorenzi e de Il Mulino di Amleto: aver provato a mettere in discussione il nostro modello di società in questo momento difficile, di smarrimento dell’arte teatrale, dove i più si sono affannati a ricominciare come prima alimentando un insensato milieu produttivo-distributivo volto all’eccesso e al consumo. Tentare non vuol dire riuscire, ma vuol dire tendere. Questa è la strada su cui si sono incamminati Marco Lorenzi e il suo Mulino, non come ciechi ma come artisti consapevoli dei propri mezzi e delle funzioni dell’arte da loro scelta. E questo già il giorno prima del collasso, quando i molti dormivano o si lamentavano inutilmente.
L’immagine
iniziale de Il giardino dei ciliegi
diretto da Alessandro Serra
ricorda un bellissimo racconto breve di Kafka intitolato Di
notte: “Sprofondato nella notte. […] Gli
uomini intorno dormono. Una piccola commedia, un’innocente illusione
che dormano nelle loro case, nei letti solidi, sotto un tetto
solido”, e giunge un lume da dietro il fondale, poi entro la
stanza: “uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente”. Da
questo momento ecco il risveglio, tutto prende vita, inizia il
vortice di risolini e piccoli pianti intorno al destino del giardino
dei ciliegi.
Alessandro
Serra fa danzare il testo di Čechov.
La sua più che una regia è una coreografia, e la danza è quella
degli appestati, di coloro che festeggiano sull’orlo dell’abisso che
incombe solo un passo più in là. Le immagini evocate appaiono tutte
a prima vista innocenti, serene, carezzevoli. Eppure un retrogusto di
stantio, di muffo, di defunto non abbandona il palato. I
fermo-immagine color seppia che evocano i ferrotipi e gli ambrotipi
non parlano forse di un mondo morto? E gli oggetti? Il carrello, le
sedie da giardino in ferro battuto, le valigie e le cappelliere, gli
ombrellini da passeggio in pizzo? Non siamo di fronte a una
ricostruzione suppur un poco surreale, per quanto a prima vista possa
parere. È un mondo di fantasmi quello che appare davanti ai nostri
occhi, di anime morte ignare del fulmine che si abbatteva su di loro.
E non ci sono nemmeno vincitori e sconfitti tra quei balli,
festicciole, e ritrovi di famiglia e amici. Tutti saranno travolti
dalla nera tempesta che si profilava all’orizzonte e verso la quale
nessuno volge gli occhi. Nel finale infatti si torna alla landa
desolata i cui tutti dormono. Solo Firs si aggira tra loro, ma poi si
accascia, si sdraia bocconi e, dopo un ultimo risolino, il silenzio.
Non vi è nemmeno più colui che veglia.
Il giardino dei ciliegi ph:@Alessandro Serra
Il movimento
e il ritmo, di cui Alessandro Serra
è padrone, sono proprio i sintomi più evidenti di tale sprofondare
nell’abisso. Come diceva Ernesto De Martino:
“In tutto sta in primo piano l’elemento del moto: l’alterazione del
movimento, la perdita dell’equilibrio, lo scuotimento della sicurezza
e della tranquillità nel mondo delle cose, conducono alla
conclusione; il mondo crolla, sprofonda”.
Le immagini
sono cesellate, frutto di estrema cura. I quadri si susseguono come
in una galleria. Ogni gesto o movimento è dosato e mai abusato.
Tutto concorre a far emergere un gusto complesso, di dolce, di
zuccheroso a nascondere il marcio che pur affiora. Probabilmente
tutto ciò sfugge alle intenzioni volte più a far risaltare, come
recita il programma di sala, una stanza per bambini e un sentimento
legato a un’età lontana e come dimenticata. Ma l’opera spesso sfugge
dalle mani dell’autore, rivela altri sentieri, sollecita altre
visioni, e questo rivela la ricchezza di una scrittura al di là del
tempo e delle interpretazioni.
Il
giardino dei ciliegi è stata l’ultima
opera di Čechov
ad andare in scena. Era il 1904 al Teatro d’arte di Mosca sotto la
direzione di Stanislavskij.
Se Čechov
aveva concepito l’opera come una commedia, Stanislavskij
la interpretò come una tragedia. C’era
dunque presente un’ambivalenza nella vicenda che faceva oscillare da
un estremo all’altro, una ricchezza di punti di vista per un piccolo
enigma. Passati sei mesi da quella prima Čechov
morì di tubercolosi. Il grande scrittore se ne andava poco prima dei
colpi di cannone. Nel 1905 scoppiarono infatti in tutta la Russia
moti contadini e operai, un prologo a quella definitiva del 1917 che
mise fine alla Russia zarista. La maggior parte non si aspettava un
tale esito. Come i personaggi de Il
giardino dei ciliegi molti non compresero
i segnali di tempesta che incombevano su una società morente. Oggi
come allora siamo ciechi. Tra feste e balli facciamo di tutto per
ignorare i colpi di scure che si abbattono sul giardino dei ciliegi
Visto al Teatro
Astra di Torino il 15 febbraio 2020
Dal 2 al 7
aprile al Teatro Astra
nella stagione della Fondazione TPE
è andato in scena Platonov
de Il Mulino di Amleto
per la regia di Marco Lorenzi.
Platonov
è l’opera prima del giovane Cechov,
nascosta dalla sorella del drammaturgo nel 1917 in una cassetta di
sicurezza durante i disordini delle Rivoluzione d’ottobre e
riscoperta qualche anno più tardi nel 1921. Cechov
scrisse il testo a ventun anni e come tutti i giovani che si
accingono a scalare l’ardua parete della loro prima opera, peccò in
eccesso, volendo mettere tutto quello che si agitava nell’animo suo
nel tentativo di creare un affresco che dipingesse la vita nella sua
interezza. Vi è materia più per un romanzo che dispieghi la sua
trama per un numero infinito di pagine più che per un dramma o
tragedia teatrale che si consuma per poco tempo su un palcoscenico.
Molti i
personaggi più vicini, nelle loro piccole misere abiezioni mischiate
a grandi aspirazioni, a Dostoevskij
che al Cechov che
conosciamo. Quest’influenza non nasconde i temi classici cechoviani
(l’incapacità di raggiungere la felicità, la tortura dello stare
insieme giusto, etc.), ed è solo la traccia della ricerca di uno
stile da parte di un giovane che ancora non si è liberato
dell’autorità dei suoi modelli di riferimento.
Platonovè come detto afflitto dalla necessità
spasmodica di dire tutto, senza nulla tralasciare, una foga che hanno
tutti i personaggi, malati di un eccesso di vitalità, paralizzati
proprio dalla sovrabbondanza e dall’eccedenza. Fulcro della vicenda è
infatti l’eccesso d’amore che si avviluppa intorno alla figura del
protagonista, il maestro elementare Michail
Vasil’evic Platonov (impersonato
da Michele Sinisi).
Incapace di realizzare le proprie ambizioni, proprio perché
esorbitanti, e richiuso in una sorta di cinismo punitivo, Michail
attrae l’amore di tre donne: la moglie Aleksandra
Ivanovna
(Rebecca Rossetti),
la giovane Sof’ja Egorovna
(Barbara Mazzi) e la
tenutaria in disgrazia Anna Petrovna (Roberta
Calia).
Platonov benché le
attragga è incapace di concretizzare le sue accese passioni. Le sue
promesse cadono sempre nel vuoto, inabili a superare l’entusiasmo del
qui ed ora. Alla prima sospensione della tensione subito si affaccia
la possibilità che la vita sia altrove. La felicità è sempre
rimandata, sognata in un altro momento, mai nel presente.
L’eccesso di
vitalità è inoltre manifesto nella festa banchetto nella tenuta. La
vodka è il motore di un’ostentata ebbrezza e i brindisi non sono che
la maschera delle molte infelicità che attraversano la compagnia.
L’ubriachezza è anche la miccia che innesca gli scarichi violenti di
tensione tra i personaggi che, trovandosi da soli nell’intimità di
una relazione, non possono altro che scagliarsi gli uni contro gli
altri proprio perché attratti da eccessiva forza gravitazionale.
Marco
Lorenzi e il Mulino
d’Amleto affrontano questo “mostro”
drammaturgico operando alcune scelte registiche di grande interesse
ed efficacia. Prima fra tutti l’inclusione del pubblico nel contesto
scenico, inserzione e coinvolgimento che avviene ricambiando lo
sguardo dell’osservatore come fosse il testimone oculare di quanto
avviene, presenza vera e non nascosta nel buio della sala e separata
da un’invalicabile quarta parete. Il pubblico viene interpellato,
coinvolto nella festa e fin dall’entrata in sala quando viene offerto
un bicchierino di vodka quasi partecipassimo anche noi alla festa di
Anna Petrovna.
In secondo luogo il costante mutare del punto di vista che bascula tra interni ed esterni tramite una parete mobile trasparente. Scene e controscene si intrecciano così dando allo spettatore la possibilità di seguire, tra primo e secondo piano, la scena principale contrappuntata da ciò che avviene contemporaneamente e altrove come ne Le tre sorelle di Simon Stone dove questo effetto era dato dai vari ambienti della casa girevole. Gli effetti di quanto deve avvenire o di quanto avvenuto sono compresenti alla scena principale, i personaggi sono dunque sempre in scena, vivono le loro emozioni e le conseguenze delle loro azioni costantemente, senza sfuggirne mai. Inoltre sullo sfondo la proiezione in presa diretta di quanto avviene tramite cellulare, come in una qualsiasi festa di oggi. L’immagine video ci cala in una dimensione di realtà, di presenza immediata ma fornisce anche un ulteriore punto di vista in movimento.
Questo
alternarsi di interno/esterno, di scene di insieme da cui emergono i
singoli dialoghi crea un movimento come se da nubi tempestose fulmini
abbaglianti si scaricassero a terra. I personaggi emergono dal coro
della festa, per un attimo sono in proscenio a rivelare le loro
intime contraddizioni, e infine vengono nuovamente riassorbiti dal
caos. In questa corrente alternata si vedono anche le differenti
maschere che i personaggi indossano durante la vicenda: quella intima
e quella pubblica, quella dedicata alle singole persone e frutto di
libere scelte contrarie agli equilibri esistenti in seno alla piccola
congregazione, e quella dedicata alla piccola comunità avvinta in
relazioni obbligate e inestricabili. L’esempio più evidente di
questa tensione sempre presente tra ciò che si vorrebbe e ciò che
si deve, è il triangolo Anna Petrovna,
tenutaria in disgrazia, Porfirij Semenovic
(Stefano Braschi),
anziano possidente che vuole salvare dalla rovina Anna Petrovna ma in
cambio le chiede di sposarlo, e Platonov
amato dalla donna e a sua volta di lei innamorato. Il bisogno di
Anna, le voglie di Porfirij e l’incapacità di prendere una decisione
di Platonov continuano
a provocare eccessi e scontri che non riescono in nessun modo a
risolversi e che trascinano nel gorgo anche gli altri protagonisti:
le tre donne, Kirill (Angelo
Maria Tronca),
il figlio di Porfirij medico degenerato, e Osip
(Yuri
D’Agostino),
il ladro assassino che si aggira ai margini di questa piccola
società.
Terzo
elemento è una sorta di straniamento fatto di immersione e distacco,
non critico come in Brecht, piuttosto più ironicamente giocoso,
quasi a non prendersi veramente sul serio svelando il gioco delle
parti al pubblico. Tale straniamento, spesso metateatrale come per
esempio il tecnico luci che è personaggio in scena, è la valvola di
sfogo che permette alla tensione di allentarsi. Il testo cechoviano
ne sembra incapace, accumula attriti e dissidi che montano fino
all’ovvia inevitabile tragedia finale.
In scena
infatti si manifesta una pistola e come diceva lo stesso Cechov
quanto un’arma appare non può far altro che sparare. Mulino
di Amleto ha deciso invece di infrangere
questa regola. Marco Lorenzi
ha voluto liberare Platonov
dell’obbligo di finire in tragedia prefigurando la possibilità che
la tempesta tanto annunciata alla fine, in qualche modo, si sia
potuta dissipare. È possibile sfuggire a questa cronaca di una morte
annunciata? Si può sfuggire all’abbraccio stritolante di Ananke, la
Necessità, rompere il destino tragico? Mulino
di Amleto sembra asserire che il destino non
sia scritto, che stia a noi cambiarlo, e per uscire dal circolo
vizioso bastai semplicemente fare un piccolo passo.
Per concludere una piccola considerazione: questo Platonov se fosse stato sostenuto da una produzione più coraggiosa e consistente farebbe parlare di sé non solo in Italia ma anche in Europa. A volta la distanza tra i nostri autori e quelli di altri paesi, più accorti sotto questo punto di vista, consiste esclusivamente nel sostegno produttivo. E non sto parlando solo di soldi ma di figure professionali che agevolino l’immissione sul mercato e i contatti con gli operatori internazionali. Non crediamo abbastanza nei nostri autori e non li mettiamo veramente in condizioni di competere con i loro coetanei esteri. Concludo quindi con una domanda provocatoria: se a Mulino di Amleto fosse stata concessa una produzione pari a quella di Simon Stone ci sarebbe stata una così grande differenza di risultato? Se la risposta a questa domanda è negativa allora non sarebbe il caso di cominciare ad avere coraggio e puntare veramente sui nostri giovani?
La Fondazione TPE e il suo direttore Walter Malosti hanno dedicato la settimana dall’11 al 17 marzo a Marco Martinelli, drammaturgo e regista del Teatro delle Albe di Ravenna . Una serie di laboratori, conferenze e incontri, il più importante dei quali sabato 16 marzo al Teatro Astra sul tema delle infiltrazioni mafiose insieme al magistrato Gian Carlo Caselli e al giornalista Donato Ungaro, la cui vicenda ha ispirato lo spettacolo Va pensiero.
Oh, mia
patria sì bella e perduta. Così canta il Va
pensiero, forse il coro più celebre nel
repertorio verdiano. Un canto simbolo che esprime il dolore di un
popolo oppresso. Nel Nabucco
a cantarlo sono gli Ebrei durante la cattività babilonese, ma nel
periodo del Risorgimento italiano venne inteso come metafora della
condizione dell’Italia asservita e divisa. Oggi Marco
Martinelli e Ermanna
Montanari ne fanno il titolo di un’opera che
vede l’Italia sottomessa alla corruzione e al malaffare.
La vicenda
sottesa a Va pensiero (senza
apostrofo come nell’originale verdiano) è, come detto, quella di
Donato Ungaro,
giornalista e vigile urbano di Brescello, licenziato nel 2002 dal suo
comune per aver scritto articoli nel quale denunciava le
infiltrazioni mafiose in territorio emiliano (la vicenda legale è
ben riassunta da Roberto Rinaldi in questo articolo. Nello spettacolo
si racconta di un intreccio di politica, imprenditoria e criminalità
organizzata a fini di una speculazione edilizia che causa danni alla
salute dei cittadini. A opporsi allo sciagurato progetto sono i
deboli e i semplici: Vincenzo Benedetti, un vigile urbano, e una
coppia di gelatai napoletani non disposti a piegarsi all’omertà e al
pagamento del pizzo.
La storia
narrata si contrappunta alla musica verdiana, cantata dal Coro
Mikron. Il coro assume dunque il ruolo
dell’antica tragedia greca, impersonando lo sguardo della
collettività che commenta i fatti che accadono. Il coro è quindi la
voce di tutti coloro che si dolgono di chi fa scempio della nostra
repubblica, un coro che nel finale contagia la platea e insieme al
pubblico intona il Va pensiero.
Lo
spettacolo inizia in penombra, con il sindaco con la fascia tricolore
(interpretato magistralmente da Ermanna
Montanari) che attraversa la scena scossa da
conati di vomito. Quel moto di rigetto del corpo che cerca di
espellere qualcosa di estraneo, che lo ferisce dall’interno, è
simbolo sia del male che attanaglia il paese, sia di una volontà di
liberazione che per quanto imbavagliata tenterà sempre di
affrancarsi e ruggire. La vicenda non è determinata nel luogo,
benché siano chiari i riferimenti all’Emilia non solo per gli
accenti usati. Quello di cui si narra potrebbe accadere in qualsiasi
località di provincia italiana. La vicenda di Ungaro diventa in
qualche modo un paradigma, un termine di confronto, con cui ogni
cittadino italiano può confrontarsi e prendere posizione.
Le scene si
alternano con un ritmo se vogliamo semplice, pochi oggetti vengono
portati in scena e disegnano un ambiente: una sedia, una scrivania,
le bandiere sempre presenti nell’ufficio di un primo cittadino,
l’insegna di una gelateria. I cori intervallano la vicenda
commentandola e proiettandola in una dimensione quasi mitica,
universale, brechtianamente distanti quanto basta per osservala con
criticità distaccata dall’emozione. Pensiamo ad esempio a:
“Cortigiani, vil razza dannata, per qual prezzo vendeste il mio
bene?” di Rigoletto,
oppure a: “nessuno è audace tanto che pur doni un vano pianto a
chi soffre” in Patria oppressa
nel Macbeth, o ancora
a: “Madre infelice, corro a salvarti” nella celebre cabaletta Di
quella pira del Trovatore.
Marco
Martinelli ci consegna uno spettacolo di
impegno politico, che ritrae un’immagine fosca e quasi senza speranza
dell’Italia di oggi. Solo il canto finale, quel riunirsi della
comunità tutta nelle parole del Va
pensiero risana quella visione di
Italietta misera, corrotta, omertosa in un coro ribelle e commosso
che anela a un futuro diverso, a un riscatto da tanta abbietta
oppressione.
Va
pensiero è uno spettacolo necessario dove,
per certi versi, sono inutili le considerazioni estetiche e critiche.
Poco importa individuare in esso quanto e se vi sia una dimensione da
Théâtre
du réel, o accertare un’influenza
brechtiana. Importa piuttosto considerare il ruolo che viene definito
per la rappresentazione: un mezzo tramite il quale prendere coscienza
collettivamente delle criticità che attraversano la nostra comunità.
Il teatro però non risolve i problemi. Li evidenzia, ci aiuta a
comprenderli, a scoprire una via d’uscita. L’azione effettiva nel
contesto sociale spetta a noi, al pubblico che applaude. Il teatro è
inteso quindi come luogo della comunità, come agorà in cui
discutere e condividere.
É
quindi in questa dimensione che la vicenda del vigile urbano assume
il ruolo di chiave di volta, di mito che squarcia il velo e scaccia
la falsa immagine che abbiamo di noi stessi. Non è vero che al Nord
la mafia non c’è, che da noi non succede, non è vero neppure che in
fondo siamo onesti (il coro delle lacrime all’inizio ci avvisa che:
“tutti abbiamo paura della nostra ombra che zoppica”), che
l’italiano è brava gente. Nel nostro voltare lo sguardo, nel nostro
sottrarsi a opporsi ai piccoli soprusi, alle quotidiane ingiustizie,
ci troviamo a esser tutti complici del misfatto che vede l’Italia
sempre più risucchiata in un gorgo di malaffare. Per cambiare non
basta uno spettacolo. C’è bisogno dell’azione della società civile,
c’è bisogno che ognuno nel suo piccolo si trasformi nel vigile
Benedetti.
“Ahi serva
Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta”
così cantava Dante agli albori del Quattordicesimo secolo. Povera
patria cantava Battiato nel 1991. Passano gli
anni e i secoli e nulla sembra cambiare. Il riscatto sembra sempre
più un miraggio e a ogni squillo di tromba che inneggia al
cambiamento ci accomodiamo più rassegnati più rassegnati di prima
nella convinzione che nulla possa cambiare. Il vigile urbano Vincenzo
Benedetti ci indica una diversa possibilità. Sta a noi decidere se
essere o meno dalla sua parte.
Per la
stagione della Fondazione TPE
è andato in scena il 14 febbraio scorso al Teatro
Astra di Torino, Frame
di Alessandro Serra,
regista vincitore del Premio Ubu per il
miglior spettacolo dell’anno per l’ormai
celebre Macbettu
in lingua sarda. Frame
si ispira all’opera del pittore statunitense Edward
Hopper (1882-1967) e riporta in vita alcuni
dei suoi più celebri dipinti.
La scena vuota è circondata
da un muro trapezoidale le cui pareti si
squarciano per lasciare
entrare la luce. Una donna in rosso è
rivolta con la fronte al muro e imprime le sue unghie sulla parete
lasciandosi risucchiare nell’angolo dal buio, dal silenzio.
Un grande rettangolo bianco si stacca dalla parete di fondo creando
un vera e propria cornice, una finestra dalla quale abbiamo accesso
al fuori, al mondo. Lo spettacolo conduce
rapidamente in alcune scene dei famosi quadri di Hopper,
in quegli interni desolati e angoscianti tipici della provincia
americana. Le immagini composte con delicatezza e intensità si fanno
via via sempre più vive, i gesti degli attori si addizionano in un
via vai di personaggi o per meglio dire di figure
intente nei più quotidiani paesaggi
corporei: un uomo che scrive, una donna seduta sul letto, fuma,
guarda, aspetta.
Gli
attori Emanuela Pisicchio, Maria
Rosaria Ponzetta, Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone e
Giuseppe Semeraro si
presentano come due donne
vestite di rosso, due uomini in eleganti abiti anni ’40 e un clown
o arlecchino che nel ruolo di commediante accompagna lo spettatore
nell’invisibile, in un giro di vite solitario ed effimero.
Sembra che questi corpi siano
altrove, in uno spazio lontano. Il loro sguardo è rivolto
all’orizzonte ma è come se guardasse all’interno, proprio lì
dove conduce lo spettatore, nel buio dell’interiorità. Le azioni
come eco, così come la musica, richiamano un ambiente sonoro ed
emotivo distorto e gracchiante proprio come la punta di quel
grammofono che gira a vuoto e che ci accompagna tra i silenzi. In
Frame, come in
altri spettacoli di Alessandro Serra,
la scena sembra voler essere solo immagine e azione avvicinandosi a
quella cruda e spigolosa realtà che si ritrova anche nell’America
dipinta da Hopper.
Lo spettatore è trascinato in un universo che richiama l’incubo e la magia.Alessandro Serra chiede al pubblico tutt’altro che passività: il rincorrersi delle scene, dei frammenti lascia largo spazio all’immaginazione. Il tempo si dilata e nella lentezza la platea è invitata a cambiare respiro, ad entrare in una calma apparente, in una staticità, come se si trovasse davanti ad un dipinto. Il susseguirsi delle scene sembra concepito come una serie di frammenti che danno forma a una struttura libera e non narrativa.
Protagonista
di questo lavoro sottile è la relazione invisibile con la
luce. Alessandro
Serra ne compone
la drammaturgia con maestria, rendendola totalmente emotiva e mai
fine a se stessa. La geometria della scena, i colori e le linee
rendono questo spettacolo, che parla per immagini, capace di portare
i suoi interlocutori in un’esperienza estetica di alto livello.
Un
ingranaggio poetico, intimo e silenzioso, un omaggio al Teatro, che
dimostra come il corpo, lo spazio, il tempo, l’immagine, la luce e
il suono possano con semplicità raccontare quella grande umanità di
cui tutti facciamo parte.
Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa di LorenzoGleijeses, in prima italiana al Teatro Astra di Torino, è operacui è difficile affidare una paternità. Potremmo dire semplicemente che ha molti padri, ma non daremmo l’idea del complesso venire al mondo di questo lavoro.
Una
giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è
frutto del progetto 58mo
Parallelo Nord (quello
che passa per Holstebro,
la casa dell’Odin
Teatret).
Insieme alla performance Corcovado,
lo spettacolo nasce sotto l’egida di diverse supervisioni artistiche.
Il materiale viene sottoposto via via all’occhio di un diverso
artista che agisce trasformando a sua volta quanto emerso dagli
incontri precedenti. Una sorta di catena di trasfigurazioni fino al
raggiungimento di una forma non frutto dell’artista creatore quanto
di una galassia teatrale alquanto eterogenea.
In questo progetto sono stati coinvolti oltre ai già citati Eugenio Barba e Julia Varley, anche Luigi De Angelis e Chiara Lagani (Fanny & Alexander), Michele Di Stefano e Biagio Caravano (MK) e lo scenografo Roberto Crea. Uniche presenze costanti sono il corpo scenico di Lorenzo Gleijeses e l’intenso lavoro sul suono e l’illuminotecnica di Mirto Baliani.
Gregorio
Samsa è un danzatore che prova un nuovo pezzo prossimo al debutto.
Ripete costantemente e ossessivamente i movimenti coreografici non
solo sulla scena, ma anche nella sua vita quotidiana, mentre mangia o
telefona alla fidanzata, persino quando va in bagno. La sua
abitazione non è nient’altro che un’estensione dello spazio scenico.
La compulsione alla ricerca di una perfezione irraggiungibile
allontana Gregorio da tutto ciò che lo circonda, lo trasforma in una
creatura aliena incapace di comunicare. Gregorio vive una solitudine
agghiacciante, da lui non avvertita perché il suo pensiero è
diretto esclusivamente al debutto e a quell’eccellenza vanamente
perseguita. I suoi movimenti extraquotidiani, di insetto che si
contorce, non hanno niente in comune con ciò che è consueto alla
vita. Il padre/maestro è l’unica presenza/assenza che acquista un
significato per Gregorio, rapporto che si esplicita
nell’impossibilità di quest’ultimo di soddisfarne le aspettative. Da
questi elementi affiora una risonanza con la vicenda narrata da La
metamorfosi di
Kafka.
Eccellente l’uso
della luce sempre segno che disegna spazi e ambienti. La casa di
Gregorio, semplice area di tappeto bianco, con la luce diventa
creatura viva. I luoghi affiorano dalla superficie e in un attimo
scompaiono per nuovamente mutare. Suoni e luci disegnano una
partitura che si integra con il movimento dell’attore/danzatore come
in un unico complesso linguaggio.
Pochi e semplici
oggetti contribuiscono inoltre a esplicitare l’ambiente. Il robot che
ossessivo pulisce il pavimento è personaggio anch’esso e non
semplice decoro. Come Gregorio attraversa lo spazio con gli stessi
movimenti, compiendo le stesse funzioni ancora e ancora. Quasi una
seconda voce che amplifica il canto.
Una
giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa si
sostanzia come una partitura fisica intensa e complessa che coinvolge
tutti i materiali a disposizione. All’apparenza dunque questo lavoro
a più mani, prodotto dalla Fondazione
TPE
insieme a Nordisk
Teaterlaboratorium,
braccio produttivo dell’Odin,
è eccellente seppur con qualche difetto emendabile nelle repliche
successive, come per esempio il
finale che par non concludersi mai in un continuo ribadire il
concetto. Vi sono tutti gli elementi per essere un’opera
significativa e importante: un’ottima produzione, artisti di fama
mondiale vi hanno contribuito, un interprete di grande livello, un
apparato tecnico eccellente. Eppure tutto questo non basta.
L’oggetto
scenico che si è costruito sembra alieno, incapace di comunicare la
sua funzione a chi lo osserva. Come gli oggetti abbandonati nella
Zona attraversata dagli stalker, nel romanzo dei fratelli Strugatski,
sono semplici testimonianze di una civiltà che ci ha abbandonato
senza spiegazioni, o come una vita sintetica creata in laboratorio
che non riesce a scaldare il cuore, perché manca di
quell’imperfezione che rende calda e viva un’esecuzione. Materiali e
tecniche, seppur perfette, non sono nulla senza una funzione. Manca
uno scopo e una direzione a questo lavoro. L’eccellenza non crea
nessuna fiamma, non fomenta pensieri, non appesta come vorrebbe
Artaud.
Una
giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa diLorenzo
Gleijeses
è dunque un esercizio di maniera, lavorato con un team di super
esperti e con un interprete con un grande bagaglio tecnico che
padroneggia con esperienza ma che alla fine risulta freddo del tutto
staccato dai bisogni della comunità pubblico in questo momento
storico.
È questo purtroppo un difetto che affligge in teatro sempre più. Con tutto il parlare che si fa di audience engagement ci si dimentica di ripensare alle funzioni del teatro, alla sua possibile utilità. Attirare il pubblico non è semplicemente un affare da strateghi del marketing, ma frutto di una costante comunicazione con lo spettatore, un incontro con le sue esigenze un condividere uno sguardo sul mondo che sia comune e su cui si possa discutere. Purtroppo il lavoro di Lorenzo Gleijeses è un oggetto culturale che non tiene conto di questi aspetti. Cerca la qualità sia tecnica che compositiva che da sola non basta. Sono le imperfezioni ad attirare lo sguardo, sono i difetti che in fondo creano la personalità.
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