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Fear of the dark: Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis

Torinodanza e Festival delle colline torinesi 29 hanno ospitato in una serata condivisa, Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis, l’artista greco capace di sorprendere sempre il pubblico con la sua effervescente immaginazione.

Lapis Lazuli potrebbe incominciare con il classico “c’era una volta” delle favole e come ogni fiaba che si rispetti veniamo precipitati, come Alice, in un mondo delle meraviglie venato di oscurità. Gli attori entrano con le maschere alzate quando le luci di sala sono ancora accese ma improvvisamente, come cantano gli Iron Maiden in Fear of the dark, quando queste cominciano a cambiare si comincia ad avvertire qualcosa di strano e veniamo presi da una piccola ansia. Siamo in un sogno, come in Inception, e come nel film non abbiamo il completo controllo dell’inconscio altrui.

Le maschere a forma di sole dei cinque personaggi sulla scena, si tramutano in mostri. Un lupo mannaro, un demonio, un dottore che pare Jason di Venerdì 13. Queste creature inquietanti sono però anche simpatiche. Ci fanno sorridere per le loro stranezze, con le vocine acute o ringhi bestiali. Sembrano innocue dopotutto. Lo spazio diventa una foresta incantata illuminata da una luna di gommapiuma più simile a una grande focaccia in una teglia che a un astro del cielo. Pochi rami d’albero finto, dei bastoni con dei guanti gonfiati per simulare degli strani uccelli in volo, un poco di fumo, ed ecco lo scenario per la fuga di una fanciulla dal lupo mannaro. Tutto fa pensare a un penny dreadful, uno di quei romanzetti dell’orrore che andavano tanto di moda nell’Inghilterra vittoriana, o a un episodio di Once upon a time.

Ma Euripides Laskaridis non è un artista a cui piace accomodarsi su un binario unico che porti lo spettatore a un finale facilmente intuibile. La foresta si tramuta senza alcuna logica in uno studio psichiatrico dove una bara piena di paglia sostituisce il lettino. Il lupo mannaro non riesce a fare i patti con la sua natura perennemente scissa tra l’umano e il bestiale. Ha bisogno di conforto, ma questo dottore è più interessato a torturarlo e tentarlo con gli uccellini di gomma che inevitabilmente finiscono tra le fauci del lupo spandendo piumette sulla scena. Si cambia ancora, siamo nella casa della fanciulla, insidiata dal lupo mannaro, ma non illudiamoci che tutto sia scontato, sarà il mostro ad aver paura della fanciulla.

Le scene si susseguono così come le atmosfere. Si evoca Melies quando al lupo si porta la luna piena come fosse un torta di compleanno su cui campeggia una candela storta e mal funzionante. Si cita il David Lynch di Twin Peaks, con quel sipario rosso sullo sfondo, la canzone melensa e quelle due maschere che danzano affiancate. Laskaridis come un funambolo fa il giocoliere sulla corda facendo roteare davanti a noi immagini e sensazioni. Ci fa sorridere, ma lasciandoci la certezza che tutta questa bellezza in realtà parli di una natura oscura infissa nel profondo dell’animo nostro. Una natura indigesta che spinge il lupo mannaro a vomitare davanti a noi tutti gli oggetti di scena.

Dietro a quel sipario rosso sul fondo ecco apparire una pietra azzurra. Luminosa, splendente. E il lapislazzuli, magica pietra le cui polveri diventavano il colore azzurro sui manti di Maria nelle sacre icone o nelle pale d’altare. Una pietra preziosa per i gioielli che decoravano orecchini, anelli, e collane, pietra che indicava la purezza dell’anima della donna che li portava. Simbolo di saggezza e verità la pietra si credeva avesse un effetto calmante per la mente e il cuore. È il nume tutelare dello spettacolo, un esorcismo contro le inquiete sensazioni che si agitano dietro i nostri sorrisi.

Ma ecco sulla scena un momento di avanspettacolo. Deformi uomini primitivi con gonnellini di paglia danzano mentre un imbonitore da fiera sul un palchetto improvvisato e tra le luci e le musiche sgozza dei buffi animaletti, un porcellino, una capretta, dal cui corpo non sprizza sangue ma denari finti come monete di cioccolata. É un sacrificio necessario ci rassicura. Ma poi le luci cambiano, da uno scatolone emerge un grande cavalluccio marino e ci avviamo verso il finale. Il lupo mannaro e i suoi amici inquietanti ci invitano a riflettere su quanto è stato evocato: «Surrealismo? Sì! Stravaganza? Sì!». Ma avvertono «It’s a beautiful, beautiful show, in a difficult, difficult life».

Lo spettacolo, per quanto fantasioso, godibile, divertente, inquietante non è la vita. La rappresenta, ci permette di comprenderla, metabolizzarla. Come il sogno è una valvola di scarico, una lavatrice entro cui le immagini diurne vengono miscelate e riproposte con un senso più profondo e più vero.

Euripides Laskaridis ci propone un’arte colta e diretta, commistione perfetta di cultura alta e bassa (sempre che questa distinzione abbia ancora un significato), un nuovo teatro popolare perché rivolto a chiunque, dove non è necessario comprendere, basta farsi coinvolgere e lasciar agire l’inconscio. Le immagini che ci propone rimarranno impresse nel nostro animo agendo come un farmaco a lento rilascio. Euripides Laskaridis si presenta come un novello sciamano, un trickster capace di esorcizzare l’oscurità e tramutarla in luce, un imbroglione promotore della verità. Nelle sue magie, nei suoi trucchetti di scena, fa emergere il sale della vita e ci fa assaporare il potere curativo della fantasia.

In comune di Ambra Senatore, variazione e sorpresa

L’oggetto di riflessione nell’ultima coreografia di Ambra Senatore In Comune, in cartellone a Torinodanza Festival, è la dinamica attraverso cui si costituisce una piccola comunità. Dodici danzatori, tra cui la stessa Senatore, illuminano i piccoli gesti, variati e ripetuti, che costituiscono il nostro vivere in comune. Variazione e ripetizione sono le parole chiave che governano quest’opera.

I danzatori occupano la scena all’entrata del pubblico. Compiono piccolo gesti, come leggere un libro, e mostrano le conseguenze che tali atti singoli riverberano sugli altri. Chi sbircia, chi domanda quale libro si stia leggendo, chi disturba la lettura. È solo il preambolo dell’intricata tessitura da cui emergerà il disegno.

Ambra Senatore è un’artista cui piace l’ironia, la leggerezza e la meraviglia con un leggero tocco di disorientamento, anche di fronte a ciò che più ci spaventa. Il gesto di mangiare un biscotto da un barattolo di vetro, ripetuto più e più volte, si sviluppa in ramificazioni sempre sorprendenti: è offerto e rifiutato, sia da chi prende, sia da chi dona, genera affetto, amicizia, tenerezza, ricordo, ma anche conflitto. Persino una semplice camminata lungo lo spazio, nella ripetizione, coglie sempre lo sguardo impreparato. Succede come nella famosa performance di Nam June Paik con il violino. C’è Paik con in mano un violino davanti a un tavolo. Lo alza sopra la testa e con violenza lo scaglia verso il tavolo, fermandosi un attimo prima di distruggerlo. Questa azione si ripete un numero infinito di volte, tanto che alla fine ci si accoccola nell’iterazione senza aspettarsi più nulla, ed è allora che l’artista spacca il violino, quando l’azione ripetuta all’infinito rende l’esito atteso non più scontato. Lo sappiamo fin dall’inizio che quel violino finirà in pezzi, ma quando avviene ne siamo sorpresi. Sono la tensione e l’aspettativa che vengono dilatate, disattese e poi risolte con violenza. Ambra Senatore usa lo stesso procedimento, ma con maggior gentilezza e grazia.

I danzatori continuano a intrecciare gruppi di gesti tra loro, come dei tessitori di tappeti, par far emergere nuove configurazioni del gruppo. E questo lavorio da piccolo sciame di insetti operosi viene contrappuntato dal racconto della vita animale: di formiche appartenenti alla stessa specie che negli opposti versanti delle Alpi, sviluppano dinamiche differenti di interazione e comportamento, di orche e felini che torturano le proprie prede prima di cibarsene, di fiori e piante che usano colori sgargianti a volte per attirare, altre per respingere, dell’eucalipto che trae pagliuzze d’oro dalla terra attraverso la linfe e le cui foglie morte sono offerte al pubblico. L’infinita trama della natura risulta composta da ripetizione e variazione, e sempre il processo porta meraviglia e tenerezza anche nell’orrore.

Se c’è una cosa che Ambra Senatore ha imparato da Carolyn Carlson, di cui è stata allieva alla Biennale di Venezia, è la gestione dei ritmi e degli insiemi dei danzatori. Sapienti tessiture ritmiche animano l’azione sulla scena, anche quando non si danza, quando semplicemente si propone un gesto comune. È la coreografia che regna sulla danza e sul teatro, perché alcune scene o passaggi sono puramente teatrali. Come il finale, dove i danzatori si prendono per mano e invitano gli spettatori a unirsi con loro in una catena che li unisce fino all’ultima fila. Poi rimangono così, congelati, ciascuno con una differente espressione sul viso, come in un bassorilievo.

In comune è racchiuso in una bellissima poesia della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad recitata e offerta agli spettatori dalla stessa Ambra Senatore, di cui, in conclusione, riportiamo alcuni versi che ben raccontano l’intero spettacolo:

«Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio,

e aveva il volto della mia vecchiaia

E saluterò la terra, il suo desiderio ardente

di ripetermi e di riempire di semi versi il suo ventre infiammato

Sì, la saluterò,

la saluterò di nuovo».

Carcaça di Marco da Silva Ferreira

Nuovo appuntamento di Torinodanza con un doppio spettacolo, Carcaça di Marco da Silva Ferreira e Il combattimento di Tancredi e Clorinda per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz.

Carcaça è una messa in questione della comunità e della memoria collettiva che le appartiene attraverso la danza. Presente e passato si confrontano attraverso gli stili del ballo popolare (clubbing, house, street, breakdance, fandango, marce militari, techno, vaguing e trance) perché i corpi dei danzatori rendono manifesta la storia condivisa con la comunità degli spettatori. Riconoscere è appartenere, è condividere. E questo non avviene attraverso il linguaggio della cultura alta ma soprattutto grazie al pop, diffuso, pervasivo, persino rifiutato, ma comunque vissuto.

Pensiamo a quante canzonette estive dagli altoparlanti delle radio di un bar, o in macchina mentre si guida, ci restano nelle orecchie e colorano attimi della nostra vita, anche contro la nostra volontà. Marco da Silva Ferreira riproduce questo processo di acquisizione comune di linguaggi e stilemi attraverso la danza dei corpi. Questo rammemorare non è colorato di nostalgia, non è uno sguardo velato e sognante verso tempi lontani, ma è una domanda attiva e pressante rivolta al nostro presente. Cosa ricordiamo? E cosa significa ricordare?

Le marce militari così come la canzone rivoluzionaria delle lavoratrici (Cantiga sem maneiras – 1974) di Josè Mario Branco, il cantautore che sempre si oppose al regime fascista di Salazar, sopportò l’esilio in terra straniera e tornò in patria solo dopo la Rivoluzione dei garofani, porta in superficie il non lontano passato portoghese. Cosa di quelle lotte è rimasto? Quello spirito è ancora presente, o si è irrimediabilmente sopito? E questa domanda non è rivolta ovviamente solo ai portoghesi, perché a ciascun popolo, soprattutto oggi, quando in ogni stato d’Europa soffia un vento nero colmo di sussurri di un passato sconfitto con tante sofferenze, deve necessariamente chiedersi: sappiamo ancora ricordare da dove veniamo?

Ed è altrettanto ovvio che questa domanda non parta dalla testa o dalle parti superiori del corpo, ma scaturisca dai piedi di questi danzatori. L’accento di questa coreografia vitale e coinvolgente è sui passi e sul ritmo di questo marciare, comminare, correre. Da dove veniamo e verso dove siamo diretti? E non pensiamo neanche per un momento che con questo domandare ci si rivolga verso questioni filosofiche dei massimi sistemi, il quesito è concreto e terra-terra: dove stiamo andando ora in questo nostro presente? La memoria riguarda anche l’identità. Jason Bourne si risveglia senza un passato, non sa più chi è, non sa perché combatte e perché scappa. Trattiene solo abilità tecniche che nulla gli dicono su cosa fare nell’immediato futuro né perché sia quello che è. Senza passato saremmo simili al protagonista di Memento di Christopher Nolan, il cui agire perde significato ogni volta che la sua memoria non trattiene i ricordi. E come lui diventiamo manipolabili, inconsapevoli.

Una marcia militare porta i danzatori sulla scena e la sonata di Scarlatti (credo l’Allegro della Sonata K.01 in re minore, ma la memoria può ingannarmi) chiude questo percorso che tocca vari momenti: la danza del nostro presente (trance e clubbing), il vaguing degli anni ’80 e ’90, il ballo popolare dalle radici ataviche, la danza di strada delle comunità nere e sudamericane, la canzone rivoluzionaria di chi ha lottato per la libertà. Significativo il momento in cui le magliette rosse dei danzatori, sollevate in alto dalle braccia diventano una bocca che canta le parole di Branco. Il movimento stesso si fa verbo e ci ricorda il passato. È altrettanto significativo che quelle parole così urticanti contro la borghesia siano rivolte a un pubblico per lo più di estrazione borghese che alla fine applaude entusiasta. Quelle parole non sono più una sfida, sono diventate inoffensive. Carmelo Bene diceva che l’arte è tutta borghese, e probabilmente aveva ragione. L’arte ha forse perso la capacità di scuotere le coscienze anche quando ne ha tutta l’intenzione.

Anche Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi, per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz, riconnette il passato al presente in un ciclo interminabile di ripetizione dello stesso destino. Allestito per il quattrocentesimo anniversario della composizione dell’opera del “divino Claudio”, e a Torinodanza in anteprima prima del debutto ufficiale al Teatro Farnese di Parma nell’ambito del Festival Verdi il prossimo 18 Ottobre, Cherstich e Kratz ci presentano una versione in cui due soldati, un uomo e una donna, sono legati da una nastro nero e sono costretti e combattere in un cerchio, simbolo dell’eterno ritorno dell’eguale.

La storia d’amore e morte tra la principessa etiope e il cavaliere cristiano perde i suoi connotati di travestimento dei ruoli sessuali che portano i due protagonisti a non riconoscersi. L’attrazione dei due amanti si trasforma in un involontario quanto inevitabile ferirsi a vicenda. L’ora fatale è giunta, come recita il testo del Tasso, o forse è costantemente presente, e così si ripete all’infinito la sconfitta di entrambi i contendenti. Se Clorinda muore, Tancredi è infatti mortalmente ferito nell’animo. Nessuno sfugge a questo inevitabile destino perché si è avvinti da questo nero cordame che ci spinge gli uni contro gli altri o, forse, come sostiene Philippe Kratz contro noi stessi. Tancredi e Clorinda sono due anime che si combattono, la loro lotta avviene dentro noi stessi. Per questo anziché impiegare un soprano e due tenori come da partitura, l’intero madrigale viene eseguito dal tenore Matteo Straffi, come se le diverse voci del narratore e dei due amanti combattenti siano un unico vociare dentro l’animo di ciascuno di noi.

Questa interpretazione tutta introspettiva della vicenda di Tancredi e Clorinda risulta però forzata, come se non fosse la loro storia. È Rinaldo che combatte con la propria immagine riflessa nello scudo, che viene ammaliato dallo specchio di Armida e dall’immagine che si riflette nei suoi occhi. Tancredi e Clorinda sono costretti al proprio destino dalle armature che impediscono di riconoscersi. I due soldati che si incontrano nel bianco cerchio sono chiaramente un uomo e una donna, non perdono i loro connotati sessuali. Per quanto mascherati non possono non riconoscersi. Combattono uno contro l’altro nelle loro identità. La maschera non li nasconde all’altro e al pubblico. Il combattimento, la lotta non sono inevitabili, si può fuggire dal cerchio. Quella corda che li unisce e li trattiene imbarazza anche il libero svolgimento della danza. É un impedimento ai danzatori che risultano a volte leggermente impacciati nel gestire l’attrezzo. Forse si dovrebbe dare lasciare libera la poesia del Tasso, lasciare da parte qualsiasi interpretazione e lasciare che quel combattimento avvenga, che i corpi ingannati dal travestimento si scontrino e al fine si rivelino pur con tutto il dolore che questo comporta. Lasciare che ogni volta la storia accada e non sia costretta a ripetersi. In fondo è il destino del teatro ogni sera trovare la forza di essere diverso pur nella ripetizione.

Vessel di Damien Jalet ph:Yoshizuko Inoue

Metamorfosi e linguaggi oracolari: Vessel di Damien Jalet

TorinoDanza apre la sua edizione 2022 all’insegna di un mistero mistico e laico, una meditazione sulla genesi del mondo e della vita proposta da Vessel (del 2016 ma in prima nazionale) di Damien Jalet insieme a Kohei Nawa. Damien Jalet è una vera star del mondo della danza contemporanea, un coreografo a cui piace ibridarsi con altri linguaggi e lavorare di concerto con artisti di altre discipline. Tra le molte collaborazioni non si possono dimenticare quelle con Sidi Labi Cherkaoui, Marina Abramovich, Luca Guadagnino (nel remake di Suspiria), Riuchi Sakamoto (che firma la colonna sonora in Vessel insieme a Marihiko Hara) e infine con lo scultore Kohei Nawa autore delle scenografie non solo in Vessel ma anche nelle altre due opere che compongono la trilogia (Mist del 2020 e Planet [Wanderer] del 2021).

Damien Jalet propone in Vessel una corporeità primordiale, costituita da esseri polimorfi, asessuati e acefali, in perenne metamorfosi. Siamo al di là del genere, del raziocinio, in quel territorio ancestrale in cui il divino e il terreno si incontrano senza un preciso progetto, senza alcune apparente finalità, e giocano nel generare l’improbabile e l’inaudito.

Vessel di Damien Jalet ph:Yoshizuko Inoue

La scena si apre su una nuvola bianca, cratere di vulcano, vagina universale, fossa di germinazione ribollente, galleggiante sulle acque nere e tranquille dei primordi del mondo, su cui emergono dei totem composti di schiene, arti, glutei, mani e piedi. Questi idoli richiamano le divinità dei miti di Chtulu o gli improbabili spiriti de La città incantata di Miyazaki. Siamo costantemente nell’indefinito tra il mostruoso e il fiabesco.

Gli idoli si scindono, mitosi o partenogenesi priva di fecondazione. I sette organismi nuotato nel brodo primordiale, intorno all’isola e sull’isola, cercano di sperimentare formazioni e concrezioni stabili, ma restano attratti dal processo metamorfico. Niente è permanente. Nemmeno le unioni, le nozze alchemiche, possono nulla di fronte alla potenza del divenire.

Le creature giocano ora con il liquido bianco sobbollente al centro del vulcano. Soma divino, sperma universale, latte nutritivo. Gli esseri compiono le loro abluzioni e riprendono la trasformazione. Ecco da ultima sorgere la figura umana, con le sue membra formate e scultoree. Ma è solo l’illusione di un momento, Presto si inabissa nel latte e restano gli idoli acefali. Poi cala il sipario su un finale impossibile perché non vi è fine al transeunte. Il fiume della vita continua a scorrere. A una fine seguirà inevitabile un altro ciclo e così all’infinito, senza trovare una stasi convincente e stabile.

Vessel di Damien Jalet ph:Yoshizuko Inoue

La danza di Damien Jalet si integra in maniera organica con i costrutti scenografici, sempre significanti e mai corredo o decoro, così come con la musica che non descrive ma suggerisce un mondo prima dei mondi. In Vessel ciò che sorprende di più è la fisicità dei danzatori, il loro corpo si produce in un movimento che non è mai slanciato, atletico, dispiegati, ma al contrario contratto, controllato in ogni piccolo contrarsi e distendersi dei muscoli. Le schiene parlano, diventano volti e maschere, gli arti tentacoli e antenne, le unioni generano bocche, vagine, ani, ombelichi. Non vi è mai testa, come se si volesse puntare l’attenzione sull’aspetto istintuale della materia di voler perpetuamente cambiare forma, senza una progettualità o razionalità dichiarata. Siamo prima della coscienza, laddove il miracolo della metamorfosi suggeriva relazioni illecite e meravigliose tra il divino e il materiale.

Vessel è un’opera in cui l’opacità dei significanti si rassoda e solidifica nella chiarezza dell’intenzione. Damien Jalet e Kohei Nawa hanno partorito una creatura solenne e misteriosa, capace di parlare con la lingua della pizia, quel linguaggio oracolare oscuro nella sua pienezza di significato e dove l’interpretazione è un gioco tutto demandato all’orecchio dell’ascoltatore libero di costruirsi il vaticinio più consono ai propri desideri.

Fonderie Limone – Sala Grande 9, 10 settembre, ore 20.45 – Prima nazionale
durata 60 minuti

coreografia: Damien Jalet
danzatori: Aimilios Arapoglou, Nobuyoshi Asai, Francesco Ferrari, Ruri Mito, Jun Morii, Astrid Sweeney, Naoko Tozawa
scene: Kohei Nawa
luci: Yukiko Yoshimoto
musiche: Marihiko Hara, Ryūichi Sakamoto
Produzione: SANDWICH Inc., Théâtre National de Bretagne
Dellavalle/Petris

IL NIDO E IL TORO: ALLA RADICE DEL SENSO DEL RACCONTO

L’ultimo fine settimana di settembre mi ha portato a contatto con due opere in sé molto diverse per approccio drammaturgico, estetico e politico, ma in qualche modo correlate proprio nel loro essere opposte. Come le piante del mito indiano una ascendente verso l’alto, l’altra discendente verso il basso intrecciano i loro rami e diventano la casa, non più degli dei, ma delle immagini.

Questo appartenere a piani e orientamenti diversi, ci pone a contatto con alcune questioni sempre più urgenti: riformulare le funzioni della scena, in primo luogo; in seconda battuta mette in questioni le modalità di racconto della realtà quando questa si fa sempre più sfuggente, relativa, evanescente. Anzi forse la vera domanda è se esista una realtà da raccontare e non ci si trovi di fronte a una miriade di punti di vista parziali, divisi e sparpagliati come i frammenti di uno specchio rotto, e solo attraverso la relazione di queste diverse isole possa intravedersi un disegno mai statico ma multiforme e cangiante.

The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia

Le opere di cui parlo sono The Nest – Il nido in scena al Teatro Astra di Torino, ultima creazione della Compagnia Dellavalle/Petris da un testo del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz del 1974 e già in anticipo sui tempi rispetto ai temi ambientali; l’altra in scena alle Fonderie Limone nel programma di TorinoDanza è Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou, acclamato artista maestro nell’ideazione di paesaggi immaginari ed evocativi attraverso cui, in ogni sua creazione, riesce a ridefinire cosa sia una coreografia.

Torniamo al tema di apertura. Roberto Calasso scriveva: «La narrazione presuppone la scomparsa della realtà. Non ha senso raccontare a chi è testimone». Questo principio presuppone non la descrizione di un mondo quanto piuttosto l’invenzione di uno non esistente ma possibile, e nel suo essere plausibile ecco farsi specchio riflettente un’immagine che, in qualche modo misterioso, riesce a parlare proprio del mondo attraverso il nascondimento proprio della rappresentazione.

È il processo che avviene nel mito: Agamennone non è solo un semplice reduce di guerra, la sua vicenda non è la cronaca di una vendetta nata dalle conseguenze di un conflitto. È una figura inesistente, una maschera contenitore attraverso la quale parlano le voci (da qui il termine Hypocrites che definisce il ruolo dell’attore: colui che risponde e interpreta l’oracolo, ossia colui che viene parlato dalle voci) ed entro cui le contraddizioni tra ciò che è considerato giusto e sbagliato possono scontrarsi. La sua storia diventa un luogo altro, una porta dimensionale attraverso cui infinite realtà possono materializzarsi, ed ecco perché, attraverso i secoli, il racconto delle vicende sue e della sua famiglia, ha colpito e ancor colpisce.

Se Eschilo avesse parlato della vera storia del semplice soldato Eumeo, del suo ritorno a casa, del tradimento della moglie Santippe con il vicino di casa, del suo omicidio e delle vendetta del figlio Telegono, il risultato sarebbe stato lo stesso? Quella vicenda lontana dai miti e dagli eroi avrebbe varcato i secoli? Si sarebbe potuto parlare della nascita del tribunale e di fondazione dell’Occidente se Eschilo si fosse limitato alla cronaca?

The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia

Il Nido messo in scena dalla Compagnia Dellavalle/Petris, riscrittura personalissima dal lavoro del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz, mette in questione proprio questo: attraverso la vicenda di un semplice camionista, del suo accettare qualsiasi lavoro per potere mantenere la sua famiglia, anche quelli illeciti come il versare liquami tossici nel lago dove nuota suo figlio mettendone in pericolo la vita, non stiamo raccontando un universale in cui tutti ci troviamo coinvolti? Il racconto fatto ai testimoni di una modalità comune non genera allo stesso modo una catarsi o un satori improvviso?

Dellavalle/Petris scelgono inoltre di portare il piano di realtà ancora più prossimo al pubblico mostrando in scena interviste a giovani coppie che si interrogano proprio su cosa avrebbero fatto al posto del protagonista. Queste confessioni rivelano una realtà più conformista e consenziente del personaggio incarnato dall’attore in scena già molto poco eroe e più complice e vittima di un sistema. Nell’osservare il processo drammaturgico messo in moto ci scopriamo a essere tutti complici di un modello sociale ed economico e, nello stesso tempo, di essere pronti comunque a giudicare severamente chi viene colto in flagranza di reato e, in seguito, di essere altrettanto pronti a giustificare le nostre connivenze con la scusa che il pane va comunque portato a casa e non ci si può permettere di perdere il lavoro.

La cronaca quindi, la microstoria intrecciata con le altre personalissime narrazioni dei cittadini, partecipanti al processo di condivisione drammaturgica con le artiste, ci mostra la tela di ragno entro cui tutti siamo ingabbiati. Il meccanismo attraverso cui siamo tutti schiavi in apparente stato di libertà, e dove l’equilibrio ecologico del pianeta è messo a rischio da un criterio economico fondato sul ricatto e lo sfruttamento, un sistema tenuto a galla proprio dalle nostre continue complicità, dal nostro quotidiano cedere ai ricatti, nell’essere incapaci di astrarsi da un consumismo compulsivo generante un falso senso di appagamento.

Il nido entro cui pensiamo di essere protetti è un’illusione e siamo proprio noi stessi, con i nostri quotidiani piccoli sì, con i nostri bisogni di consumatori, gli artefici della sua distruzione. Proprio come ne La Tana di Kafka, il costruttore del rifugio ne è anche il distruttore.

Non è più quindi il racconto a essere mezzo di emersione di verità nel senso di Aletheia, ossia di ciò che è nascosto, quanto il dispositivo che con le sue trappole fa emergere un contesto. Un processo inverso attraverso cui l’universale sorge dal particolare, dall’elemento cronachistico, dalla microstoria. Qualcuno potrebbe obiettare che tutto questo non è per nulla nuovo. Fin da Brecht e del teatro agit-prop si provato in teatro a far questo. Eppure perfino quel teatro è rimasto affascinato dal mito. Solo le nuove generazioni stanno riuscendo ad allontanarsi definitivamente da una narrazione che prevede un eroe che universalizza in sé un problema.

Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert

Dimitri Papaioannou ci catapulta in un mondo strutturalmente diverso. Siamo accalappiati fin dall’inizio in un gorgo di immagini, le quali richiamano a loro volta altre immagini, miti, opere d’arte, paesaggi. Papaioannou, architetto come Dedalo, orchestra un meraviglioso labirinto di forme pronte a susseguirsi senza una reale necessità drammaturgica ma come nei sogni dove la logica si fa evanescente. Papaioannou trasforma la scena nel dio Proteo, il quale, affinché pronunci l’oracolo, deve essere tenuto ben saldo a terra e solo dopo l’ultima trasformazione dirà la verità.

È inutile in questa sede fare un elenco dei riferimenti iconografici. Poco importa che il toro diventi quello di Pasifae o il rapitore di Europa, né a quale artista si possa riferire l’immagine della donna partoriente nella conchiglia. Interessa il processo drammaturgico messo in atto da Dimitri Papaioannou: accostare le immagini, farle fiorire una dall’altra, mostrare questi corpi ibridi, nati da generazioni equivoche, mescolare i piani di realtà a livello iconico. In questo disegno non importa nemmeno che vi sia un progetto. Ciò che diventa fondamentale è farsi trasportare come foglie dal vento generato da questo voltar pagine e pagine da un’immagine e l’altra. La realtà appare? O forse come Cobb in Inception di Christopher Nolan siamo intrappolati in un sogno dentro a un sogno? Questo labirinto estetico è provvisto di un qualsiasi filo d’Arianna che ci aiuti a uscire dalla caverna per osservare chi genera le ombre proiettate sullo schermo?

Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert

Il Nido e Traverse Orientation ci mostrano due modi di raccontare il mondo: attraverso l’infinitamente piccolo e l’abissalmente lontano. Come racconta la Tavola Smaragdina, testo cruciale dell’alchimia, ciò che è in alto rispecchia ciò che sta in basso. Ciò che è cambiato radicalmente è la prospettiva in cui si pone l’osservatore. Non è più parte di un mondo solido, costituito di valori ampiamente condivisi, ma è assiso sulla capocchia di un proprio personalissimo spillo, dal quale vede un mondo drasticamente diverso da quello del suo vicino. Queste visioni si possono incontrare solo se in qualche modo riunite in rete, collegate come sinapsi neuronali, riconfigurantesi volta per volta.

Non vi è più una sola realtà. Forse non c’è nemmeno una realtà. Solo dei fenomeni che appaiono fugaci come lampi nella notte. E non ci sono più testimoni nel senso tribunalizio del termine: il terstis, colui che ha visto e ne dà conto; ma secondo l’etimologia che ci porta al mártys (da cui martire) colui che testimonia in pubblico la sua fede. Il fatto di aver vissuto, di essere nella pelle di, rende vero e tangibile ciò che è relativo e personalissimo. Esistono quindi solo sguardi diversi che per confrontarsi necessitano di un termine di paragone, o di uno specchio che rimbalzi l’immagine, rendendo chiaro che, in ogni caso, è sempre tutto un gioco di ombre.

Crystal Pite

BETROFFENHEIT: di Crystal Pite e Jonathon Young

Betroffenheit di Crystal Pite e Jonathon Young alle Fonderie Limone di Moncalieri è l’anteprima di TorinoDanza e inaugura la nuova direzione artistica di Anna Cremonini.

Betroffenheit è parola tedesca che indica uno sbigottimento che segue a un trauma. Lo spettacolo di Crystal Pite e Jonathon Young è il lungo cammino che viene percorso per superare tale perturbamento della coscienza per ritornare a vedere il mondo.

Betroffenheit è anche una storia personale, quella di Jonathon Young autore del testo e interprete in scena, che diviene materiale per la creazione artistica.

Lo spettacolo di Crystal Pite è costituito di due parti: una prima, racchiusa in una stanza, un regno di fantasia in cui si rifugia la mente, una trappola da cui è difficile uscire. Un luogo animato da strane presenze, in prima istanza amiche, quasi simpatiche, e via via sempre più inquietanti, invadenti, quasi ostili.

Le voci vengono da un esterno lontano, quasi presenze fisiche che trapelano da una cortina ipnotica, separata dal reale appartenenti a un’altra dimensione. L’azione è ricca di cambi di ritmo, quasi ossessivo montaggio delle attrazioni in uno strano cafè chantant che si anima in questa dilatata scatola cranica.

Questa prima parte di Betroffenheit, se si dovesse trovare un parallelo in musica, pare Spillane di John Zorn, dove stili musicali si avvicendano a ritmo forsennato inanellando immagini di una città oscura da noir d’anni ’30. In Betroffenheit di Crystal Pite avviene proprio questo, si passa dalla salsa, al tip tap, dalla cupezza di una stanza trappola, all’allegria forzata di una festa da carnevale di Rio. Tutto trapassa da una gradazione all’altra, da un caldo deserto a temperature polari.

A questa prima parte, tra teatro, danza e montaggio sonoro, ne segue una seconda più intima, quasi esclusivamente dedicata alla danza. La stanza è sparita, solo per un momento evocata da un fondale incombente. Uno spazio aperto, tagliato da luci chirurgiche e fredde, circondato da un nero impenetrabile. Al centro solo un pilastro, quasi nero monolite, materica presenza di qualcosa conficcato a fondo, difficilmente estirpabile.

Il materiale danzato si fa via via più intimo, personale, vissuto. Finalmente si riesce a superare la tecnica incredibile, il miscuglio di generi, il montaggio serrato verso l’emersione di materiali più semplicemente umani. Affiorano all’ultimo, nel duo e solo finali, le fragilità commoventi, l’instabile riconquista di sé, il superamento parziale dello sbigottimento.

Betroffenheit di Crystal Pite e Jonathon Young è uno spettacolo complesso, di grande abilità tecnica che mischia generi e stili in un percorso che gradualmente toglie gli orpelli per arrivare all’essenza. È, per contro, uno spettacolo freddo, che non riesce, se non alla fine, a toccare delle corde profonde.

Betroffenheit, per quanto molto ben accolto dal pubblico che lo ha lungamente applaudito, possiede un grande difetto: benché sia stato costruito abilmente, con ottimi interpreti e una potente drammaturgia, non riesce mai a diventare incandescente. É come un gigante gassoso che non è riuscito a diventare stella luminosa.

Il materiale umano, che pur era presente nella storia personale di Jonathon Young, non riesce, se non nell’ultima sezione della seconda parte, a divenire toccante, a superare la meraviglia per l’abilità degli interpreti o la sorpresa per la trovata stupefacente.

Betroffenheit è pieno di idee, di immagini ben costruite, con una regia e un montaggio veramente impeccabili, ma quasi mai riesce ad aprirsi una strada verso il cuore di chi lo osserva. È come se fosse anch’esso imprigionato in quella stanza, in quel mondo separato e bellissimo, ma pur sempre trappola che trattiene un volo.

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