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Francesca Foscarini

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A FRANCESCA FOSCARINI

Per la quattordicesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo la coreografa e danzatrice Francesca Foscarini, Vincitrice del Premio Danza&Danza nel 2018 per Oro. L’arte di resistere e Animale. Francesca Foscarini è stata anche menzione speciale al Premio Scenario 2011 con Spic & Span, lavoro creato con la collaborazione di Marco D’agostin e Giorgia Nardin.

Ricordiamo che Lo stato delle cose è un’indagine volta a conoscere il pensiero di artisti e operatori su alcuni temi fondamentali quali: condizioni basilari per la creazione, produzione, distribuzione, rapporto con il reale e funzioni della scena.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Rispondo a questa domanda citando Laurie Anderson che in un’intervista disse: “ I am an artist because I wanna be free”. Nella sua semplicità racchiude per me il cuore della “faccenda”, complessa, che è la creazione artistica. Mi piace pensare al processo creativo – che si determina sia sul piano mentale, in un fluire di pensieri, immaginazioni, idee, ma soprattutto sul piano fisico, concreto, attraverso la sperimentazione dei corpi, sui corpi –come allo spazio della possibilità.

Nella possibilità di essere, diventare, toccare qualcosa di sconosciuto o ancora poco conosciuto, ci si abbandona alla piacevole navigazione nel territorio del “non so”, con il rischio, sempre presente, del naufragio, ma anche della scoperta che ti toglie il fiato. Probabilmente i naufragi sono di gran lunga superiori ma il desiderio, scialuppa che compare all’orizzonte, entra in soccorso con la sua forza salvifica: con la sua esorbitanza rispetto all’ “io”, citando Massimo Recalcati, “decide di me, mi ustiona, mi sconvolge, mi rapisce, mi entusiasma, mi inquieta, mi anima, mi strazia, mi potenzia, mi porta via”. In questo essere portati via, credo ci sia piena la ragione di tutto il mio muovermi.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Sicuramente gli strumenti produttivi si sono diffusi in modo più capillare.
Rispetto a quando iniziai ad affacciarmi al mondo della danza contemporanea come autrice, nel 2009, ci sono ora sicuramente più possibilità, anche di formazione, e questo è sicuramente un segnale positivo. Quello che continua a mancare è un aiuto maggiore alla produzione. Credo che si possa facilmente dedurre che il problema sia alla base e strettamente legato allo scarsissimo investimento di risorse per la cultura da parte delle istituzioni. L’Italia spende solamente l’’1,1% del Pil contro il 2,2% medio dell’UE, quindi in questo panorama è davvero difficile attuare un cambiamento profondo.

Molti progetti artistici hanno modo di esistere e di sopravvivere grazie all’autoproduzione, alla co-produzione con enti esteri, oppure sono legati alla vincita di bandi che non garantiscono continuità lavorativa ai singoli artisti, e sono spesso vincolati da criteri di selezione basati su età, territorialità, tematiche specifiche, tempi di realizzazione che limitano la libertà creativa. Il tutto appesantito da una burocrazia che costringe l’artista ad impiegare altra forza lavoro per far fronte alla complessità e specificità di tali richieste.

Il fatto è che per come stanno le cose la professione dell’artista in Italia è da un lato privilegio di classi sociali abbienti, dall’altro sacrificio (seppur gratificante) di classi sociali intermedie o popolari.

Fino a quando continueremo a pensare di essere dei fortunati, degli eletti perché “facciamo quello che ci piace”, ma a livello di posizionamento sociale resteremo lavoratori non riconosciuti e ci adatteremo a vivere con salari che sono spesso al di sotto della soglia di povertà, da poveri insomma, non ci sarà nessun miglioramento dell’esistente. Per cambiare bisogna partire proprio da qui, ossia dal ruolo dell’arte e dell’artista nella società e dal suo riconoscimento economico-sociale.

Francesca Foscarini

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Credo che il problema della distribuzione sia anch’esso legato all’assenza di una seria politica culturale. Ne deriva una difficoltà, molto diffusa, ad avere un vasto pubblico interessato all’arte nelle sue varie forme. Molte programmazioni, forse in risposta a questo, prediligono un cartellone in grado di garantire grandi numeri di spettatori, perpetuando una proposta culturale che nella maggior parte dei casi predilige il mainstream offrendo una visione unica e non multipla della realtà.

Accogliere le proposte più d’avanguardia dell’arte contemporanea significa prendere dei rischi, richiede un atteggiamento di cura e un cambio di prospettiva; e la cura richiede tempo, l’attesa di un esito che non è quasi mai immediato, uno sguardo attento in grado di comprendere il territorio con le sue specificità e bisogni; chiede di intessere relazioni profonde e durature.

E’ necessario quindi lavorare su più livelli, mettendo in campo varie competenze e una struttura capillare in grado di estendersi e raggiungere le periferie spesso abbandonate, dove i teatri e i cinema rimangono chiusi o disabitati. Occorre, a mio avviso, ridare agli spazi teatrali la loro funzione di luoghi di incontro. Dice Spinoza che il corpo può innanzitutto effettuare incontri, essere parte di insiemi. Questo pensiero è molto attuale e oggi più che mai dovrebbe essere un pensiero guida. Se viene riconosciuta all’arte la sua funzione sociale, allora si potrà pensare ad una effettiva proliferazione di proposte artistiche.

Francesca Foscarini

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La creazione scenica e l’andare a teatro ci ricordano il nostro essere corpo.
Nel nostro essere corpo, attraverso la percezione fisica, emotiva e mentale che ci è propria, mi relaziono al mondo. Andando a teatro come spettatrice, così come andando sulla scena, predispongo il mio corpo ad un sentire dei sensi ma anche ad un sentire più intimo. Ci si immerge in una dimensione spazio-temporale che è prima di tutto soggettiva; quindi specifica e unica ogni volta, perché ogni volta indefinibili variabili concorrono a modificare e a spostare la mia percezione, fuori e dentro la scena.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il reale contemporaneo include anche il virtuale, che è sempre più parte del nostro quotidiano e del nostro modo di intessere relazioni. Non posso quindi relazionarmi al reale senza tener conto di questo aspetto non scisso ma inglobato dal nostro vivere. Anche se il mondo virtuale non potrà mai ridarci quello che il mondo reale può. Nel mondo virtuale c’è il venir meno di alcuni sensi che entrano in campo invece in quello reale. Pensiamo per esempio alle immagini in 3D: rendono completa l’esperienza visivo-sonora ma gli altri sensi, penso al tatto e all’olfatto, vengono trascurati. Nel mondo reale c’è forse più spazio per una democrazia, quella dei sensi.

www.ilpickwick.it

MK

SPECIALE INTERPLAY: tra istinto e razionalità con MK, Foscarini, Papadopoulos, Fehér

Ultimi appuntamenti con la danza contemporanea a Interplay ospite, in due appuntamenti, il 27 e il 29 maggio alla Casa del Teatro di Torino, in cui l’istinto e l’intensa emozione si contrappongono a visioni più scientificamente razionali e distaccate. Protagonista del primo incontro la coreografia italiana con la Compagnia MK e Francesca Foscarini mentre il secondo è dedicato a quella europea con Christos Papadopoulos e Ferenc Fehér, tra cui si inserisce il pezzo breve comico e acrobatico dei Los Innatos alla loro terza apparizione al festival.

Michele di Stefano e MK presentano Bermudas_Tequila Sunrise, spettacolo ipnotico che parte da un semplice assunto: creare un sistema complesso a partire da pochi elementi semplici. Un danzatore illustra i mattoni su cui si costruirà la coreografia: lungo, lato, largo e rovescio. A partire da questo momento si sviluppa un vortice inarrestabile di movimenti combinati a partire da quelli base. Diverse formazioni di danzatori, da uno a sette, entrano ed escono continuamente dalla quinta laterale costruendo movimenti con diversi gradi di complessità. Lo spazio scenico è continuamente attraversato da più vettori che si intersecano, si sfiorano per cambiare immediatamente direzione come bocce di biliardo che entrano in collisione o particelle gassose in moto caotico. Bermudas_Tequila Sunrise, vincitore del premio Danza&Danza 2018 e finalista al Premio Ubu 2018 si ispira alla teoria del caos e dei sistemi complessi (effetto farfalla) ed è concepita per un numero variabile di danzatori, in modo da ottenere, a ogni replica, un esito completamente diverso e irripetibile. Il titolo si ispira a un luogo e a un famoso cocktail e fornisce allo spettatore l’idea del viaggio in un luogo esotico continuamente evocato da una luce dal giallo acceso all’arancione di un tramonto sul mare e da una musica che richiama ritmi caraibici. Sono elementi tentatori, volutamente svianti che conducono lo spettatore da un ambiente noto verso un ignoto impredicibile.

Di diversa natura, meno scientificamente razionale, la coreografia di Francesca Foscarini che fin dal titolo, Animale, richiama una natura più visceralmente istintiva. Lo spettacolo, che ha debuttato alla Biennale Danza nel 2018 e si ispira all’opera pittorica di Ligabue, inizia con la danzatrice avvolta da suoni boschivi e canti di uccelli mentre si aggira nello spazio scenico con uno specchio in mano rivolto alla luce. Al termine dell’esplorazione fronteggia la platea, riflettendo la luce sul viso degli spettatori, a indicare una corrispondenza biunivoca di natura e identità tra ciò che accade sul palco e la sala. Da questo punto inizia una danza selvaggia, a tratti violenta, fatta di cadute rovinose, di schiaffi autoinflitti, di equilibri continuamente disarticolati, di ringhi e soffi. Una natura leopardianamente matrigna quella che emerge, indifferente ai moti più alti della coscienza umana, solo istinto e ferocia. Il percorso si conclude con un’immagine di sereno distacco: il corpo nudo illuminato tenuemente da una luce verde-acqua che trasforma il corpo della danzatrice in una driade boschiva, idolo incarnato di madre natura disinteressata al destino dei suoi figli. Animale di Francesca Foscarini è spettacolo intenso, dirompente, che crea un certo disagio nel prendere coscienza di non essere creature predilette ma semplicemente materia indifferente a un universo in perpetua evoluzione.

Opus di Christos Papadopoulos per quattro danzatori rende visibile la trama compositiva di un quartetto di musica classica il Contrappunto 1 de L’arte della fuga di Johann Sebastian Bach. Ogni danzatore è accoppiato a uno strumento (violoncello, contrabbasso, oboe e flauto) Il cui movimento rende concrete e solide le linee sonore di ciascuno strumento. La musica diventa gesto visibile, oggetto d’esame minuzioso, concreto nella sua astrattezza. La linea di sviluppo temporale è anch’essa elemento scenico costituito da un cavo a cui si trova una lampadina che gradualmente si solleva da terra fino a sovrastare i danzatori illuminandoli, come se il percorso appena svolto avesse portato luce sulla composizione. Il risultato, che richiama A love supreme di Anne Teresa de Keersmaeker senza raggiungerne gli esiti, appare però meccanico con danzatori che sembrano marionette mosse da fili in mano a un burattinaio invisibile. Per quanto la danza trasudi una certa grazia classica, di severa composizione colma di precisione certosina, non tocca il cuore risultando evidente fin dal primo istante il modus operandi di cui non resta che osservare lo svolgimento senza nessuna sorpresa né coinvolgimento.

Di tutt’altro stampo The Station del coreografo ungherese Ferenc Fehér, una danza estremamente fisica ed energica che individua al suo inizio due danzatori in un cono di luce. Questo spazio circoscritto evidenzia un microcosmo irrequieto, ambiguo, attraversato da energie ctonie e oscure. I due personaggi si incontrano e scontrano continuamente creando una narrazione di conflitti che esplodono, si evolvono senza mai giungere a una conciliazione. Il finale presenta la morte apparente di uno dei due personaggi. L’altro cerca di rianimarlo convulsamente. Solo nell’opposizione tra i due c’era vita e la mancanza di uno dei due priva chi sopravvive di una raison d’être. Di grande impatto il disegno sonoro composto e curato dallo stesso Ferenc Fehér, colmo di tessuti sonori elettronici ossessivi, ricamati da inserti di musica concreta di porte che cigolano e di congegni a ricarica meccanica. Unica pecca di una composizione che emoziona e coinvolge l’abuso della macchina del fumo.

Istinto e razionalità, composizione severa e impulso naturale, Due mondi creativi apparentemente inconciliabili governati da istanze diverse che per opposta balza esaltano il linguaggio del corpo in movimento.

Ph: @Andrea Macchia

Pina Bausch

PINA BAUSCH TRA DIFFERENZA E RIPETIZIONE

Alla Lavanderia a Vapore di Collegno (Torino) si è svolta la Maratona Pina Bausch curata da Susanne Franco e Gaia Clotilde Chernetich in collaborazione con la Fondazione Piemonte dal Vivo. L’evento, il cui sottotitolo è “danzare la memoria, ripensare la storia”, nelle intenzioni non era solo un omaggio alla grande coreografa in vista del decennale della morte (30 giugno 2009), quanto una riflessione sul suo lascito e su come la sua opera e le pratiche a essa congiunte vengano trasmesse alle nuove generazioni.

Il teatro e la danza sono arti fragili e antiche il cui sapere si tramanda ancora per la maggior parte attraverso l’insegnamento ad personam, da corpo a corpo, mediante l’oralità e la testimonianza diretta di chi ha visto. Solo in qualche caso anche grazie a degli scritti. A questi lasciti tradizionali, negli ultimi decenni, si sono affiancate la fotografia e il video che costituiscono materiale di eccezionale valore nello studio di un percorso artistico, eppure l’iscrizione nei corpi e nell’immaginario risultano ancora lo strumento fondamentale grazie a cui l’opera di un artista della scena si tramanda.

Pensiamo a Grotowski il cui pensiero, più che a scritti e documenti, è affidato al corpo di Thomas Richards. O a Stanislavskij: quanto dell’insegnamento del maestro ci è veramente giunto integro? E quanto delle alterazioni e difformità sono dovute al tradimento dei discepoli e ammiratori, agli effetti della storia, al mutamento delle condizioni socioeconomiche dell’ambiente in cui si è radicato il suo pensiero? La memoria e i gesti sono in quanto tali imperfetti, è e implicano sempre una diserzione e un’evoluzione. Differenza e ripetizione.

Queste domande sono basilari per lo studio della storia delle arti dal vivo e per comprendere l’influenza attribuibile a un maestro dopo la sua dipartita. Nel caso di Pina Bausch è possibile osservare gli effetti di come la sua eredità si diffonda e per quali canali essendo la sua scomparsa un evento recente. I suoi danzatori e il Tanztheater Wuppertal sono ancora in attività e molti testimoni delle sue creazioni sono tutt’ora in vita ma già si affacciano sulla scena le nuove generazioni che hanno potuto vederli solo attraverso i documenti o per averne misurato l’influenza attraverso l’opera di terzi.

La Maratona Pina Bausch si è concentrata su Café Müller di cui quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario (20 maggio 1978). Attraverso la presentazione di tre spettacoli (Jessica and me di Cristiana Morganti, Rewind di Deflorian/Tagliarini e Oro di Foscarini/Lopalco), di libri e documentari, di una mostra fotografica di Ninni Romeo e Piero Tauro, seminari e un workshop di Julie Stanzak sulla Nelken Line, Susanne Franco e Gaia Clotilde Chernetich hanno cercato di compiere una disamina del fenomeno di trasmissione dell’eredità della grande coreografa tedesca.

I tre spettacoli rappresentano differenti veicoli di contagio attraverso cui l’eredità si diffonde nel contemporaneo. Cristiana Morganti è stata membro effettivo della compagnia di Pina Bausch per più di vent’anni e Jessica and me costituisce il suo tentativo di discostarsi dalla propria maestra alla ricerca di una cifra personale. Una lotta con il passato per conquistare un presente indipendente. La sincerità di questo faticoso percorso si manifesta con un’azione quasi alla Jerome Bel (pensiamo a Cedric Andriaux e Veronique Doisneau) in cui Cristiana Morganti si racconta con disincantata ironia, mostra i suoi pensieri durante l’esecuzione, si auto intervista.

Il duo Deflorian/Tagliarini presenta Rewind del 2008, spettacolo dedicato a Café Müller, lo storico lavoro che tutti gli appassionati e studiosi di danza hanno in qualche modo ben presente. La donna con la sottoveste bianca, le braccia leggermente protese in avanti con i palmi rivolti all’osservatore, quel suo camminare come sonnambula su uno spazio colmo di sedie nere sono icone che fanno parte di un immaginario mitico comune. Deflorian/Tagliarini guardano il video di Café Müller, visione negata al pubblico che ne percepisce solo i suoni attraverso un microfono. I due attori ce lo raccontano, con le parole e i gesti, ma nello stesso momento si fanno attraversare dall’opera e la trasformano.

All’inizio dello spettacolo ci viene presentata una sedia di cui si dice essere l’originale del primo allestimento del 1978, pagata cinquemila euro su Ebay. Subito appare una copia, identica, di quell’oggetto iconico. E poi una terza. All’occhio di chi ha visto almeno un filmato di Café Müller risulta evidente che quelle sedie non sono quelle originali. Il modello è diverso. Le sedie dunque manifestano già uno scarto, sono elemento che collega e diversifica. Questa scena dunque racchiude in sé il nucleo della riflessione di Deflorian/Tagliarini che si confrontano con il “metodo Bausch” – virgolettato perché in fondo metodo non è, per lo meno non in maniera formalizzata -, e ne fanno emergere gli elementi caratterizzanti: le domande, i ricordi, l’azione dei corpi. Un omaggio che è trasformazione e incorporazione, da cui necessariamente sorge una distanza e una differenza.

Oro. L’arte di resistere (2018) con la coreografia di Francesca Foscarini, la drammaturgia di Cosimo Lopalco e l’interpretazione dei Dance Well Dancers è invece una caso di trasmissione indiretta dell’eredità e dell’immaginario bauschiano. Francesca Foscarini lavora a Bassano del Grappa, (città medaglia d’oro della Resistenza) con anziani affetti da Parkinson e con i loro parenti e amici. Le azioni dello spettacolo nascono proprio dalla riflessione su temi legati alla città e al territorio: oro e resistenza, parole chiave da cui vengono declinate vere e proprie risposte corporee. Nonostante non vi sia una discendenza diretta, Oro richiama con forza lo spirito dei lavori di Pina Bausch, soprattutto Kontakthof, nelle atmosfere, nelle musiche e nella grande umanità che traspira dalla danza, come se l’immaginario legato alle opere del Tanztheater si fosse trasferito inconsciamente nel lavoro. Oro possiede inoltre il grande merito di condurre la percezione dello spettatore al di là della malattia, di non farci vedere degli anziani dilettanti ma dei veri danzatori che ci donano la grazia fragile dei loro movimenti.

Questa Maratona Bausch cerca dunque di misurare i confini su cui si proietta l’ombra della grande coreografa tedesca, tenta in qualche modo di mappare le radici che si dipartono dal suo corpo poetico per individuare i nuovi germogli. L’opera di un maestro è sempre in sé ambivalente, benedizione e maledizione, icona di riferimento e convitato di pietra. Tramandare e tradire, conservare e innovare il duplice volto della memoria che osserva con occhio severo sia chi sopravvive sia chi vien dopo quando ogni traccia vivente è ormai scomparsa.

Sorge alla fine anche una riflessione sul compito di noi che raccontiamo, che ci assumiamo la responsabilità di essere testimoni di quanto avviene sulla scena oggi. Quale sguardo è il nostro? Cosa riusciamo a cogliere di un evento performativo, del suo spirito, della sua fatica e a tramandarlo o comunicarlo? Quanto ci discostiamo da esso inserendo il nostro particolare punto di vista? Siamo creatori di documenti e al contempo dei traditori incalliti?

Maratona Pina Bausch vista dal 16 al 18 novembre alla Lavanderia a Vapore di Collegno Torino.

Ph: @Fabio Melotti