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Il frutto del fuoco: Giovanna D’Arco di Paolo Costantini e Federica Rosellini

|Enrico Pastore

Giovanna D’Arco, pulzella d’Orleans, santa vergine guerriera, è salita sul palcoscenico infinite volte da quel 30 maggio 1431 quando il fuoco del rogo ne uccise la carne ma perpetuò il mito. Lo ricorda anche il regista Paolo Costantini, autore di questa novella incarnazione di Giovanna attraverso l’opera meravigliosa dell’attrice Federica Rosellini. La storia ci ha dunque consegnato una legione di diverse versioni della giovane santa da chiedersi chi sia stata veramente e quale di queste si avvicini a colei che visse e patì la guerra e la (in)giustizia degli uomini.

In questa Giovanna D’Arco andata in scena al Teatro Astra di Torino, Paolo Costantini e Federica Rosellini provano a restituirne l’umanità nascosta dietro il belletto della leggenda. È impresa difficile se non impossibile perché la donna che vediamo agire e patire in scena, è già un frutto del fuoco, è immagine agente, corpo glorioso, non abituale o normale, assolutamente non naturale ma extra-ordinario. Questa Giovanna è infatti ennesima incarnazione e non può non aver inciso nelle sue carni i fantasmi delle sue innumerevoli apparizioni. Per usare le parole di Nezval è donna plurale e multipla. Giovanna ha recitato per Brecht, ha sfilato nei pageant suffragisti di Edith Craig, ha posato in armatura sexy e sguardo angelicato nelle fattezze di Cléo de Merode, ha subito il martirio cinematografico attraverso la carne di Renée Falconetti, è stata figlia delle visioni allucinatorie di Milla Jovovich. Tutti questi fantasmi, e mille altri ancora, sussurrano tra le quinte i loro suggerimenti al corpo dell’attrice, spingono oltre il buio della scena per irrompere davanti agli occhi dello spettatore e non deve essere facile ricacciarli indietro.

D’Annunzio ne Il fuoco scrive: «il carro di Tespi, come la barca di Acheronte, è così lieve da non poter sopportare se non il peso delle ombre o delle imagini». Il teatro e la morte vanno a braccetto. I vivi possono solo osservare lo spettacolo, non farne parte, per quanto si voglia oggi a tutti i costi farli partecipare alla danza. Come diceva Carmelo Bene, in scena bisogna morire molte volte.

La Giovanna che appare ai piedi di quel fascio di tavole e tronchi – albero delle fate dal cui fusto inizia la sua leggenda, ma già, in nuce, catasta per il rogo -, è pronta per queste molte morti, le anela quasi, vuole il fuoco che la trasformi, desidera l’incendio e perfino lo chiede alla fine: bruciatemi! Ah, se fosse uscita di scena dopo aver semplicemente esclamato: «ho caldo», sarebbe stata un’uscita degna di una santa capace di incidere segni tra le fiamme, invece è tornata in scena con un fucile e ha sparato due volte. Chissà perché.

Federica Rosellini è stata capace di dar vita a una Giovanna nuova, ardente, rabbiosa, disperata, fidente e sfidante, pur nutrendosi delle infinite variazioni di sé che la hanno preceduta. Taglia da sé l’albero delle fate da cui giunge al popolo; costruisce da sé la catasta di legna del suo proprio rogo. E nel farlo spacca la legna con un’accetta proferendo la sua invettiva e in questa furia in cui la parola prende corpo dall’azione emerge l’immagine di Artaud che come lei usava l’accetta per spaccare legna mentre proferiva parole di fuoco.

Federica Rosellini regala al pubblico una grande prova d’attrice e non serve scomodare la performance, che è altra arte con altri valori e intenti. Anche il performer parla per immagini attraverso il corpo, ma si rifiuta di evocare fantasmi, di agitare il mondo delle larve di fronte all’occhio dello spettatore. Evocare un mondo attraverso la maschera è arte dell’attore e sua soltanto. E Federica Rosellini lo sa fare molto bene.

Giovanna D’Arco torna sulla scena senza la pretesa di guidare le folle e gli eserciti, e vorrebbe tanto non essere una bolla di vetro incandescente nelle mani di un vetraio nascosto e udibile solo a tratti e con mille voci. Eppure, nonostante questo, nonostante vorrebbe essere altro, Giovanna rivendica la sua unicità e la sua missione. Che la brucino, o le taglino la testa, quei vecchi dalle lunghe barbe che si ergono davanti a lei come giudici, quegli ipocriti che agitano valori da essi stessi traditi. Giovanna li sfida, non li teme, non ha paura del fuoco perché lei stessa è frutto del fuoco. Giovanna non guida più gli eserciti oggi, può solo sfidare ancora e ancora ,con il corpo e con l’animo, il potere infido e ipocrita. Viene ancora una volta immolata. Non poteva essere altrimenti, niente è cambiato da allora se non la forma del potere, ma non la sua ipocrisia, la sua falsità, la sua abiezione. Il valore di Giovanna sta nell’essere sconfitta eppure nella morte risultare vincitrice. È nel suo divenire rogo che ci parla con forza. La sua sfida è il vero valore, la sua sfida rende ridicola la vittoria del potere. Giovanna, come Jan Palach, vivono nell’estremo sacrificio di sé, spingono altri a imitarli, a ribellarsi e fanno sì che la vittoria del potere non possa mai dirsi definitiva.

Teatro Astra, Torino | 7 maggio 2025

Renée Falconetti

Renée Falconetti: il destino del fuoco

|ENRICO PASTORE

Quella di Renée Falconetti, più che la storia di una straordinaria attrice dimenticata, è piuttosto il racconto di una performance unica avvenuta nel segno del fuoco e delle lacrime, che ha rischiato di essere irrimediabilmente perduta proprio per una serie ripetuta di roghi, quasi fosse reclamata dalle fiamme. Renée Falconetti si identifica, nella storia del cinema e del teatro, nella Giovanna D’Arco di Carl Theodor Dreyer in quella che secondo il critico Alessandro Cappabianca è stato :«quanto di più vicino a una vera e propria reincarnazione si sia mai verificato su un set cinematografico».

Il film di Dreyer fu per molti versi un campo di forza dove non solo si manifestarono in tutta la loro potenza esplosiva le possibilità evocative dell’immagine cinematografica, ma in nuce, e forse per la prima volta, gli effetti di un teatro della crudeltà ancora da teorizzarsi. Antonin Artaud è, nelle vesti del monaco Massieu, protagonista nel film insieme alla Falconetti, ma come afferma Antonio Attisani resta: «accanto all’attrice come uno spettatore affascinato e confuso», e in quell’osservare rapito vi è probabilmente la comprensione di una potenzialità che gli fece prendere coscienza di una possibilità futura di teatro della crudeltà. Dunque per parlare di una prefigurazione di attore e di performance teatrale dovremo passare attraverso il cinema.

Dreyer giunse in Francia dopo il successo de L’angelo del focolare del 1925 e gli fu affidato il compito di raccontare le gesta di Giovanna D’Arco attraverso una produzione colossal per l’epoca. Il budget si aggirò intorno alla cifra, enorme per il periodo, di sette milioni di franchi. La sceneggiatura fu scritta da Michel Champion basandosi sul libro di Joseph Delteil e sugli atti originali del processo. Tutto accade in un solo giorno, il 30 maggio 1431, quando avviene il supplizio e l’esecuzione sul rogo di Giovanna in un gioco di sovrapposizioni con la passione di Cristo.

Benché Dreyer fece spendere un’enormità allo scenografo Hermann Warm (lo stesso del Gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene), per la ricostruzione fedele del Castello di Rouen dove si svolsero i fatti, le riprese sono quasi esclusivamente limitate ai primi piani, usando prospettive insolite come a evocare le scene dipinte nei codici miniati medievali. Le riprese avvennero in un clima tutt’altro che agevole e sereno sotto una ferrea regola del silenzio, non risparmiando disagi fisici agli attori e soprattutto alla Falconetti, con scene ripetute ossessivamente alla ricerca della perfezione e attraverso una costante pressione psicologica. A tal proposito sorsero spontanee quanto fasulle leggende sulla crudeltà di Dreyer verso la Falconetti tanto da causarle disagi psicologici. In verità sembra che Renée condivise il metodo con il regista e si sottopose volontariamente alle ossessive ripetizioni, poi visionate e scelte insieme, sia alle disagevoli prove fisiche (come la rasatura dei capelli e la morsa ai piedi). Per quanto riguarda i problemi mentali ne fu affetta per tutta la vita. Stando alla testimonianza di Hermann Warm l’unica deroga alla verità e al realismo estremo voluto da Dreyer fu la scena del salasso, avvenuta sul braccio di una comparsa e non sulla Falconetti.

Renée giunse alla prova di Giovanna D’Arco dopo una brillante carriera teatrale avviata dopo gli studi al Conservatorio di Parigi nel triennio 1911-1914. Dopo l’esordio con L’Arlésienne all’Odeón si cimentò in commedie e drammi tra cui spiccano La dame aux camélias e Lorenzaccio di De Musset del 1928 anno in cui si incomincia a girare il film di Dreyer, A riprova delle mancate violenze psicologiche subite, dopo le riprese, non solo diresse il Théâtre de l’Avenue nel biennio 1929-30 e recitò in Phèdre nel 1930, ma si cimentò nuovamente in teatro proprio con il ruolo di Giovanna. Solo nel 1935 si ritirerà in Svizzera per l’aggravarsi di problemi mentali e inizierà il suo calvario doloroso che la porterà in fuga dalla guerra in Sud America, e infine al suicidio a Buenos Aires nel 1946.

Torniamo sul set di Dreyer e cerchiamo di capire in cosa consiste la straordinarietà dell’interpretazione di Renée Falconetti. Nell’osservare con attenzione l’immagine filmica della performance di Renée si nota in primo luogo una sostanziale differenza con gli altri interpreti, compreso lo stesso Artaud. Tale differenza si sostanzia in primo luogo attraverso una mancata recitazione sostituita da un agire/patire intenso e veritiero ottenuto grazie a una magistrale sottrazione di sé.

Ciò che osserviamo è un abbandono totale all’azione non attraverso una finzione, ma vivere mediante una maschera di una forza tale da costringere lo spettatore a interrogarsi sulla realtà di quanto scorre davanti ai propri occhi. Siamo al di là del recitare, è un vivere attraverso il corpo e un sentire mediante l’occhio, come disse Pasinetti: «mai attrice di teatro fu così poco teatrale». Citando Antonio Attisani possiamo dire, in maniera più profonda e mirata, che: «la protagonista […] tende a cancellarsi. Il suo volto, il suo corpo diventano un velario che lascia scorrere il caso, il tema al di là della persona, dimostrando concretamente cos’è la santità, il martirio dell’attore; gli altri sono testimoni di ciò che accade, testimoni imbelli, ma attraverso loro noi “vediamo la storia”: è questa la chance dello spettatore».

L’abilità di Dreyer è stata quella di saper evocare l’incarnazione del dolore e della sua trasfigurazione nel corpo attorico della Falconetti, attraverso le condizioni di lavoro e il realismo delle scene, utili solo all’immersione dell’attore nella materia più che all’occhio di chi guarda. Tutto avviene senza parole (se si escludono le didascalie), i visi sono naturali, senza trucco, solo quindi attraverso i corpi/ombre impressi sull’immagine crudele o, come la definisce Cappabianca, l’immagine estrema ossia quella: «che riesce a mettere in crisi, in senso quasi fisico, la nostra sicurezza […], quella che ci sconvolge perché non riusciamo più a credere che sia solo un’immagine». L’ombra si fa dunque più concreta della realtà, attraverso la maschera si palesa la dura realtà di un evento.

Forse con qualche azzardo potremmo paragonare la performance di Reneé Falconetti a quella di Ryazard Cieślak ne Il principe Costante di Grotowski, altro corpo di dolore capace di trasfigurazione e incarnazione.

Renèe Falconetti fu capace di far emergere il doppio, una Giovanna attraverso di sé e il proprio corpo, una Giovanna reale, in carne ed ossa, vivente, sofferente, morente davanti ai nostri occhi increduli. Come scrive Cappabianca: «amo la Falconetti, perché penso che in lei sia avvenuto, per una volta nella storia del cinema, una specie di miracolo della reincarnazione, e perché sento che, attraverso lei, Giovanna, guerriera contadina, mi guardi, guardi proprio me, indicandomi mestamente il destino del fuoco».

Queste parole riecheggiano potenti quelle di Artaud che, forse pensando proprio al martirio sul rogo di Renèè/Giovanna scrive ne Il teatro e il suo doppio: «la cosa veramente diabolica e autenticamente maledetta della nostra epoca, è l’attardarsi sulle forme artistiche, invece di sentirsi come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme». In verità Renée Falconetti colpisce nel segno, più che nella scena del rogo, nel calvario che la precede, in quegli sguardi come persi, rivolti dentro di sé, quel soffrire il dolore attraverso le lacrime, l’abbandono totale, il lasciarsi attraversare da ciò che avviene di lei e su di lei. Come dice Attisani: «Renèe Falconetti è una deità che […] incarna un sentimento di pietas, di compassione, di stupore per un mondo ridotto in cenere da una nefasta minoranza di ignoranti armati».

La crudeltà intravista da Artaud per mezzo della Falconetti è dunque una forma di rivelazione. Questa è una suggestione, seppur plausibile, e non una verità documentaria anche se è possibile che, come afferma Cappabianca: «l’esperienza del film di Dreyer e il rapporto con l’interprete di Giovanna, Renèe Falconetti, non solo abbiano segnato profondamente Artaud, ma che Dreyer abbia applicato, sul set del suo film, procedimenti e metodi da considerare, nel segno del rigore, come anticipazioni di quelli ipotizzati nel Teatro della Crudeltà». E tale svelamento avviene non tramite il realismo, ma tramite un’evocazione sinfonica di immagini espressive, che rendono reale l’ombra impressa nei singoli fotogrammi. Per questo il martirio di Renèe/Giovanna ci colpisce con tale forza d’urto e per usare le parole di Artaud: «in una parola, siamo convinti che nella cosiddetta poesia esistano forze vive, e che l’immagine di un delitto presentata in condizioni teatrali adeguate sia per lo spirito infinitamente più terribile della realizzazione di quello stesso delitto».

Se dunque in qualche modo Artaud mancò nel rendere attuabile la sua idea di Teatro della Crudeltà, attraverso Renèe Falconetti possiamo farci un’idea concreta di cosa intendesse. La storia però ha i suoi risvolti ironici nella tragicità del suo svilupparsi. Questa performance straordinaria all’interno di un film altrettanto extra-ordinario rischiò seriamente di essere niente più che un pallido ricordo annotato sulle recensioni di un’epoca lontana. Infatti la prima copia venne distrutta dal fuoco nel 1928. Dreyer provò a rimontarne una seconda con ciò che era rimasto del girato e con alcuni negativi dell’originale, ma anche questa pellicola andò in fumo nel 1929. Nel 1951 lo storico Joseph-Marie lo Duca scovò nei sotterranei della Gaumont una copia della seconda versione che sottopose a rimontaggio e applicando una colonna sonora la rese nuovamente di dominio pubblico. Per molti anni questa fu l’unica versione disponibile, finché nel 1981, ironia della sorte date le biografie di Falconetti e Artaud, fu ritrovata una copia non censurata in un manicomio di Oslo. Quest’ultima fu restaurata in Danimarca e riproposta finalmente al pubblico.

Renèe Falconetti morì a Buenos Aires, ormai dimenticata, per un probabile suicidio, ma ci ha lasciato in eredità una straordinaria prova d’attrice, in cui non vi è testo ma solo l’azione e, parafrasando ancora Attisani, la trasformazione di un corpo doloroso in un corpo glorioso. La possibilità che il corpo attorico senza l’ausilio del testo o della parola, possa essere parlante si sta facendo pallida nel teatro, in un tripudio di testi antichi, vecchi e nuovi, dopo un secolo, il Ventesimo che di tutto ha fatto per sganciarsi dalla sudditanza dalla parola scritta. Tale eredità sembra però essere stata raccolta dalla danza e dalla performance. Forse il miglior modo di ricordare un’attrice straordinaria come Renèe Falconetti e quella di recuperarne il lascito, rimparare a esprimersi col corpo più che con il logos.