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Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – PARTE IV

:«È questo il gesto fondamentale di conquista del reale: dichiarare che l’impossibile esiste». Alain Badiou Alla ricerca del reale perduto

:«Senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?» Mark Fischer realismo capitalista

:«L’esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione smette di essere contestata o modificata, smette di avere senso. Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura». Mark Fischer realismo capitalista

:«Chi si aspetta sempre qualcosa di nuovo, di eccitante, perde di vista ciò che è già lì» Byung-Chul Han La scomparsa dei riti

Nel mondo dell’industria culturale qual è il prodotto più ricercato, il top di gamma? A giudicare dalla quantità di bandi, concorsi, residenze, progetti dedicati agli Under 35 si direbbe che i giovani siano la punta di diamante. Ma l’apparenza inganna. Il prodotto “giovani” è l’esempio più esauriente di come i dettami dell’economia di mercato applicate alla cultura falsino le prospettive. Dietro alla possente esposizione del prodotto “giovani” si nascondono pericoli, insidie e purtroppo, a volte, sfruttamento. Malauguratamente non esiste un dato nazionale consultabile per verificare quante opere con autori Under 35 siano sul mercato ogni anno. Sarebbe interessante un tale censimento per comprendere il reale stato di fatto e soprattutto verificare il divario, se esiste, tra produzione ed effettiva circuitazione.

Detto questo non si può non notare come ogni anno sia “obbligatorio” immettere sul mercato un certo numero di opere giovani e questo nonostante il mondo dello spettacolo dal vivo sia, come visto nei precedenti articoli, un settore gravato da iperproduzione, come se non esistesse alternativa professionale alla creazione di spettacoli, soprattutto in giovane età. Il settore giovani quindi sembra affetto dallo stesso morbo iperattivo e ipercinetico dei senior, con l’aggravante di ridurre le loro possibilità professionali e di crescita.

Innanzitutto non si può non notare come le scuole dedicate ai vari settori delle performing arts (Accademie, Scuole legate agli Stabili, Scuola Holden, IED, Etc) abbondino, crescano persino, e immettano sul mercato ogni anno nuova forza lavoro in un panorama economico che stenta, e nel dire stenta siamo ottimisti, a fornire ai propri lavoratori un orizzonte meno che precario. Eppure tutte queste istituzioni, gravate anch’esse da dettami del mercato, quindi di indici di crescita, di numeri e guadagni, sono indotte a vendere per sopravvivere un sogno che tale non è. La retorica imperante è “dare spazio e occasioni alle giovani generazioni” ma, nonostante le buone intenzioni sottese, come fa notare Byung-Chul Han: «il neoliberismo sfrutta la morale da vari aspetti».

In effetti i giovani artisti assomigliano molto ai Tributi degli Hunger Games raccontati da Suzanne Collins. Ogni anno i dodici distretti devono fornire a Capitol City ventiquattro giovani, due per distretto, i quali dovranno combattersi a morte nell’arena in un reality concepito per il divertimento dei ricchi e civilizzati cittadini. Per avere più chance di sopravvivenza, i giovani tributi si devono accaparrare i favori degli sponsor, i cui aiuti diventano fondamentali nel combattimento. Alla fine ne rimarrà soltanto uno a ottenere in premio una vita di ricchezza e attenzioni. Il contesto distopico di Suzanne Collins, descrive molto bene il meccanismo del neoliberismo nei confronti delle giovani generazioni: un bacino da sfruttare il più possibile, non importa quante vittime si lascino sulla strada, perché la giovinezza è la novità, la freschezza, lo stato in cui bisogna perdurare per essere cool. Vecchio significa obsoleto, quindi non utilizzabile. L’obsolescenza è il peccato della contemporaneità, la cui punizione inappellabile consiste nel divenire scarto, rifiuto, relitto da smaltire ed eventualmente riciclare. E questo in tutti i settori lavorativi, non solo nelle performing arts. Il cinema, il romanzo e il migliore giornalismo hanno raccontato con dovizia le tragedie di chi, over quaranta, perde il lavoro e come sia difficile rientrarvi e reinventarsi soprattutto nelle posizioni di carriera acquisite.

Viviamo dunque in una società illusa di vivere in un perpetuo presente, in un forsennato update perché, sempre come afferma Byung-Chul Han: «la percezione seriale non indugia mai». Fermarsi significa morire e per questo è diventato lo stimolo principale nella caccia di nuovi talenti che presto diventano obsoleti e, nel caso specifico dello spettacolo dal vivo, non a caso hanno una data di scadenza: trentacinque anni, oltre i quali ecco che svaniscono bandi, sostegni, fondi. L’orizzonte improvvisamente si fa ristretto e grigio. Conseguenza: o ti sei fatto un nome, un certo giro di solidi contatti e ottenuto una certa stabilità amministrativa entro i trentacinque (e non è detto che basti) o sei condannato a un inevitabile destino di obsolescenza.

Marinetti nel Manifesto del Futurismo 1909 scriveva: «I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili». Non immaginava certo che lo avrebbero preso alla lettera. E pensare poi che la data di scadenza si sta anche notevolmente abbassando. Già si intravedono i bandi Under 30 e persino Under 25.

Questa gara sull’età conduce a una serie di nefaste conseguenze. Proviamo a esaminarle, premettendo che gli strumenti volti a dare sostegno agli Under sono nati con le migliori intenzioni e con lo scopo effettivo di tentare di aiutare le nuove generazioni in un paese senescente. Quando apparvero nel panorama italiano furono una vera ventata di speranza e novità. Nella maggior parte dei casi sono stati pensati come strumenti di agevolazione nell’entrata del mondo del lavoro. Quindi onore al merito a chi ha contribuito al tentativo di dare ai giovani delle possibilità concrete per sviluppare la propria arte. Non si vuole quindi in questa sede fare alcun processo ma cercare di individuare le criticità che il sistema neoliberista inevitabilmente crea pervertendo tutto alle proprie logiche.

Il problema principale è che tali strumenti sono stati tarati solo sull’età, e per la massima parte non a sostegno dell’intera filiera. Si potrebbe prendere esempio dal mondo cinematografico dove nel processo di immissione nella filiera produttiva si finanziano le opere prime, seconde e terze, come avviamento al lavoro e inseguito prevedere altri tipi di sostegni più atti allo sviluppo. Nelle arti performative si sostiene invece quasi interamente la sola produzione e, inevitabilmente tutte queste nuove opere vanno solo ad alimentare un mercato stantio e intasato, e una forsennata gara al debutto prima possibile, perfino quando non si è minimamente pronti per affrontare il pubblico o il mondo del professionismo. Inoltre si è creato un mercato a basso cachet tutt’altro che virtuoso.

Prima e più evidente conseguenza è dunque la mercificazione delle giovani generazioni. Esse si trovano nella scomoda posizione di essere commercializzate e sfruttate il più a lungo e il prima possibile, da una parte indotte a produrre a ritmi forsennati, e in seguito a spendere e spendersi per ottenere luce e visibilità. Prolificano le occasioni vendute ai giovani, siano essi concorsi o residenze, in cui questi devono immettere risorse proprie per pagarsi praticamente tutto (viaggio, vitto, alloggio, e produzione, oltre a lavorare praticamente gratis o a cachet ridicoli), nell’illusione e nella speranza di poter vincere un premio, un residenza in un festival importante, ottenere una data in più, essere visti da chi di dovere. Anche quando pagati, i giovani hanno, come detto e come accade anche in altri settori lavorativi, cachet bassi, a volte in maniera misera e risibile, i quali vengono accettati proprio nell’ottica della “gavetta”, di un percorso inevitabile, condizionato, obbligato e persino necessario. Dire di no è difficile, così come contrattare, soprattutto se non si hanno molte carte in mano e dietro di te c’è una fila affamata pronta ad accettare anche di meno. In molti casi dunque i giovani si vampirizzano invece di offrire loro delle vere occasioni di crescita. E questo processo non è in atto da pochi anni ma da almeno tre decenni.

L’eccessivo focalizzare sulla produttività e creatività conduce i giovani inoltre a farsi autori anzitempo, tralasciando il lavoro di bottega necessario per l’acquisizione di tecniche indispensabili per formarsi un linguaggio autonomo. Il lavoro con il maestro e il necessario scontro con la sua autorità è un processo necessario per un’indipendenza linguistica e formale. Una vera formazione “a bottega” richiede però tempo, unica cosa che manca nella società iperveloce e cronofaga che abitiamo. La data di scadenza si avvicina e la spinta a produrre con i relativi finanziamenti comporta che una volta finite le scuole, la formazione si parcellizzi in mini corsi, stage di pochi giorni, con più maestri possibili dove si “assaggiano” le varie tecniche senza approfondirle, degustazione agita soprattutto a fini curricolari. Persino in molte residenze creative, luoghi pensati per la creazione e sperimentazione, la necessità della restituzione a un pubblico ha portato all’emersione di sottoprodotti incompleti e creati nell’ansia di un “mini debutto”, a creare dunque prima quasi di pensare lo spettacolo nella sua interezza e organicità. Anche dove si dovrebbe avere solo il tempo e il luogo per riflettere sul proprio mondo creativo, l’obbligo di produrre e l’imperio del borderò fanno sentire la propria frusta. Ai giovani viene tolto quindi lo spensierato peregrinare, il placet experiri. Tutto deve essere finalizzato e monetizzato prima che sia troppo tardi.

Alfred Kubin Austrian school. Suicide, Selbstmord Etching. (Photo by Photo 12/ Universal Images Group via Getty Images)

Per produrre bisogna vincere i bandi che, come abbiamo visto, nella quasi totalità dei casi hanno obiettivi già previsti. In questo contesto diventa assai difficile una ricerca verso un proprio mondo estetico-formale e politico. Il rischio è accontentare il committente per ottenere i finanziamenti e ancora incrementare il proprio curriculum affinché diventi il più concorrenziale possibile, saltando di argomento in argomento senza una vera logica autoriale. Corollario inevitabile è l’assomigliarsi dei temi e delle opere, e così si finisce per intasare ulteriormente un mercato già asfittico di prodotti in serie. La vita delle opere dei giovani è brevissima spesso, proprio perché il numero è esorbitante per il piccolo mercato teatrale dove, come visto nei precedenti articoli, la distribuzione è alquanto difficoltosa e a compartimenti stagni. In questo contesto ciò che importa è ancora una volta l’età più che il loro nome o il loro lavoro.

Le produzioni ottenute attraverso vittorie di bando prevedono poi vari percorsi di tutoraggio. Tali osservatori e sguardi esterni hanno preso il posto del maestro. Oggi i consigli vengono erogati professionalmente in forma di consulenza, tutto è in forma positiva, di consiglio per il tuo bene, si è cancellato l’agonismo intellettuale tra le diverse generazioni. E così si corre il rischio di generare l’Effetto Parasite, ossia l’emulazione anziché la rivolta. Le generazioni devono vivere in opposizione se si vuole innescare un vero ricambio generazionale di linguaggi. Il passaggio di testimone non è mai indolore sebbene non sia cruento. È un necessario rito doloroso. Nel buddismo Zen è nota la massima :”se incontri il Buddha uccidilo” e non è certo un invito al delitto, ma un segnalare il pericolo che il Buddha stesso possa diventare un legame e un impedimento nel raggiungimento della perfezione. A un certo punto i tutor vanno rigettati perché troppe attenzioni genitoriali finiscono con impedire una vera indipendenza. Da qui si genera la frustrazione degli esami perenni,l’ansia di non essere mai pronto, abbastanza aggiornato, abbastanza maturo.

Ulteriore criticità che sembra in qualche modo smentire la precedente, ma è solo apparenza essendo solo un effetto complementare. La positività univoca in cui siamo tutti immersi crea un brutto rapporto con la critica. Questa, da qualsiasi parte provenga, mette in crisi le fragilità ma, se fatta in buona fede, non è volta a distruggere ma a far crescere, a mettere in luce quelle parti del lavoro su cui è necessario lavorare, ma nel mondo in cui abitiamo, dedicato alla concorrenza più sfrenata e in cui ogni fallimento è visto come inappellabile e da nascondere sotto il tappeto, non si può proprio dire che un lavoro non funziona. Eppure la caduta, e il relativo confronto rispetto ad essa, è un necessario percorso sulla via difficile della creazione artistica. Dalle cadute si impara a camminare, e sono i fallimenti più cocenti quelli che insegnano e fortificano. Avere un giusto rapporto di distacco con le critiche e le bocciature è fattore importante per la crescita personale. Invece la vita nel modello neoliberista ci impone un dover essere sempre in un costante presente di successo da condividere sui social, ottenendo like e attenzione, anche se tutto questo dura meno della caduta di Atlantide, sommersa in una notte e un giorno. Non ci si può permettere di sbagliare e così ogni report negativo è un affronto personale e non un gradino necessario alla formazione di un proprio linguaggio.

Michel Huellebecq dice: «oggi non c’è niente di meno rivoluzionario dell’arte». Il nostro mondo induce a limitare, se non eliminare, il rischio. In genere lo si affronta in maniera molto calcolata e cinica, cercando di capire dove soffia il vento e così ciò che appare nuovo invece è la riproposizione di modelli vincenti riadattati (non a caso in ogni settore dell’industria creativa e culturale vanno alla grande la cover, il remake, il riciclo). Anche come pubblico, come dice Mark Fisher: «abbiamo rinunciato ad aspettarci sorprese dalla cultura: e ciò vale sia per la cultura “sperimentale” che per la cultura pop». Dai giovani soprattutto non ci aspettiamo più che ci sciocchino, o ci sfidino. Li andiamo a vedere con la coscienza di chi aiuta un bisognoso, con un certo paternalismo. È come se fosse subentrato un bisogno di protezione del quale i giovani non hanno punto bisogno. Necessitano di reali possibilità di giocarsi il proprio futuro non di ipocrite gentilezze.

La mancanza di sorpresa è una certa stanchezza inventiva nonché la riposizione dei cliché è un processo storicamente iniziato decenni fa quanto il capitalismo è diventato l’unico modello a cui fare riferimento e si è espanso come un corpo estraneo in attività e settori incompatibili con il modello economico proposto. La cronofagia legata al neoliberismo ha fatto il resto. Non c’è tempo per studiare, valutare, fare esperienza. Produrre è l’imperativo univoco che viene urlato ad ogni cantone e nel fracasso si fanno evanescenti tutte le altre possibilità meno roboanti. Ci sarebbe davvero bisogno di un po’ di silenzio.

Nell’uniformità, quello che Byung-Chul Han chiama “l’inferno dell’eguale”, è sparita qualsiasi forma di opposizione o, meglio, le opposizioni vengono subito riassorbite dal sistema. Come dice Badiou, lo scandalo è solo l’eccezione, la parte evidente di un modello basato sulla corruzione, e in quanto eccezione è nel sistema, non si oppone ad esso. Sono come i glitch in Matrix, il sistema che riaggiorna se stesso e corregge gli errori. Come suggerisce Mark Fisher l’unica via di uscita a un sistema di perenne consenso è che: «il nemico oggi può essere meglio definito come capitalismo creativo, e la sua sconfitta richiederà non l’invenzione di nuovi modelli di positività, ma di nuove forme di negazione».

Se abbiamo iniziato dunque questo articolo con l’immagine gladiatoria degli Hunger Games concludiamo con l’immagine di un’altra visione della fantasia, quella di Tito di Gormenghast il quale, unico giovane erede di un vetusto e polveroso reame colmo di vuote ritualità e di congiure da operetta, decide di rinunciare al regno, di andare per il mondo e scoprire se esista un’alternativa. Essa esiste. Va costruita, pensata, immaginata, e necessita di molti fallimenti e soprattutto di molti dinieghi. Nel modello di progresso posto di fronte davanti a noi come una superstrada infinita verso successi sempre più clamorosi, se facciamo un passo di lato ecco subito l’apparire dietro il grande e ostentato ottimismo, l’aura di morte che spira e conduce tutti anzitempo nel limbo dell’obsolescenza e da questo solo i giovani ci possono salvare. L’importante è dar loro le giuste opportunità soprattutto in un paese ipocrita in cui il ricambio generazionale e la parità di genere sono tutt’altro che agevolati.

Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – PARTE II

:”Solo quando avranno ridotto le forme che si sono sviluppate indipendentemente da loro a pure e semplici commedie che s’inseriscono nel gioco del commercio, la loro unica passione, fino a vederci nient’altro che una rigida dimostrazione di forza monetaria, a quel punto si sentirà risuonare una grassa risata”.

Alain Desnault La mediocrazia

Come crawling faster/ obey your master/ your life burns faster/ obey your master

Metallica Master of Puppets

Economia è regina incontrastata di ogni settore dell’umana attività in questo Ventunesimo secolo. Essa regna affiancata da Burocrazia e Cronofagia, e spadroneggia indisturbata come un tempo Ares dominava i campi di battaglia, insieme ai figli Phobos (paura) e Deimos (Terrore). E come Ares strappò Afrodite, dea della bellezza, dalle braccia di Efesto, dio artigiano ma zoppo, così oggi Economia compie il ratto dell’arte rubandola alla sua bottega e mettendola sul mercato. Non è un caso che uno dei sogni nefasti sorti agli albori della modernità capitalista sia quello di Baudelaire sul bordello-museo, dove lui, l’artista, accorre a presentare il suo nuovo libro alla maîtresse, e trova le sale piene di opere d’arte, prostitute e signori dell’alta finanza.

Difficile è individuare quando esattamente sia iniziato il processo. C’è chi dice (Alain Badiou) negli anni Settanta quando diversi fenomeni coincidenti cominciarono a verificarsi: fallimento in Occidente dei moti rivoluzionari e riformatori giovanili, armati o pacifici che fossero; avvio della deregulation del capitalismo; inizio della dissoluzione del blocco sovietico. Poi gli anni ’80 di Reagan e della Thatcher, quelli della Milano da bere e del There is no Alternative. Nella storia ogni punto d’origine è sempre arbitrario ma se per un momento proviamo a pensare a quanto è cominciato a accadere nel campo delle arti performative proprio a partire dalla fine degli anni Settanta, riscontriamo un graduale e parallelo scemare delle istanze politiche e sociali nonché delle utopie riformatrici. L’arte gradualmente si è richiusa su se stessa. Forse la scomparsa di una contronarrazione efficace al capitalismo liberista ha fiaccato il campo dell’opposizione e col tempo si è creato quello che potremmo chiamare Effetto Parasite dal meraviglioso film di Bong Joon-ho: non più ribellione né contrasto ma bensì desiderio di emulazione.

Ancora negli anni ’90 però vi era una vitalità politica forte, riconosciuta e condivisa Pensiamo a Barboni e a Guerra di Pippo Delbono, il Marat-Sade di Armando Punzo, la Biennale di Carmelo Bene (1989), i Teatri Invisibili e la nascente Generazione Novanta. Ma quella stagione sembra sempre più un’estate di San Martino. Oggi si parla più di bandi ministeriali, di FUS ed ExtraFUS, di borderò piuttosto che di funzioni o di finalità politiche del teatro. Quando l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo scorso anno disse: ”i nostri artisti che ci fanno tanto divertire”, il mondo teatrale si scandalizzò, dimenticandosi però che Valerio Binasco, assumendo il ruolo di consulente artistico al Teatro Stabile di Torino disse parole ancor più gravi: «Il compito del teatro non è fare cultura o fare politica. È far ridere e piangere. Se ci riusciamo è fatta»!

Umberto Boccioni Rissa in Galleria

Da tempo dunque il mondo delle arti performative ha perso un ruolo da giocarsi nella società, condividendo istanze e problematiche con altre categorie sociali come avveniva nel passato. Perché questo è avvenuto? Probabilmente perché non è più stata la politica il referente antagonista, ma bensì l’economia, la quale più che avversario e competitore con cui è possibile discutere, magari in maniera accesa, essa si è imposta come matrigna fortemente ingerente nella vita dei figliastri recalcitranti; e con una genitrice che elargisce una paghetta non si arriva a un compromesso, si può solo obbedire o disubbidire in un rapporto costituito in massima parte da premi e punizioni. Come disse nell’aprile del 2016 George Mombiot sulle pagine di The Guardian, quotidiano non certo tendente all’estrema sinistra :«Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini come consumatori, le cui scelte democratiche sono esercitate al meglio attraverso la compravendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Sostiene che “il mercato” fornisce benefici che non potrebbero mai essere raggiunti dalla pianificazione».

Gli effetti di tale ingerenza non sono facilmente districabili. Essi si diramano come un corpo estraneo in ogni ambito della filiera creativa dalla formazione alla internazionalizzazione, sovrapponendosi però a un sistema che ancora risente di valori a essa alieni. La filiera artistica risponde a questa estranea possessione in maniera scomposta a volta rigettando, a volte rendendo impossibile l’agire, altre in modalità autoimmune. Per risolvere la questione bisognerebbe agire come Alessandro di fronte al nodo gordiano: tagliare e resettare, ma questa si profila la possibilità più remota e utopistica. Nell’analisi della filiera, non potendo isolare i sintomi, non resta che toccare gli argomenti e di volta in volta ritornare, ripetere, riformulare.

Cominciamo dal principio ossia dalla volontà di trasmutare l’azione culturale, attività artistica e politica come quant’altre mai, in azienda o impresa di cultura. La prima considerazione è che le parole non sono innocue: quando il teatro, il cui etimo greco significa: il luogo da cui si guarda, e quindi prevede un osservatore che profonda il suo sguardo in un oggetto o in un mondo, diventa un luogo di profitto, in cui qualcosa viene venduto a qualcuno, ci troviamo in un universo completamente alieno da quello di partenza. Se poi osserviamo le parole dal punto di vista della comunità che frequenta il luogo in oggetto (perché teatro è un luogo prima che un arte!) essa si trova trasformata da agorà a cliente e consumatore, ed ecco che improvvisamente qualsiasi valenza politico sociale si annienta nel buco nero della quantificazione economica. Ultima ma non ultima l’economia mal s’accomoda a fianco dell’etica. Qualcuno potrebbe affermare, e non senza ragione, che nemmeno l’arte va troppo a braccetto con la dama pudica e castigata, ma la cultura sì, come l’istruzione. Essa si basa su principi etici di apertura a tutte le categorie, soprattutto alle più svantaggiate e deboli, tende a voler far crescere la società nei suoi valori, e nei momenti di crisi è stata il collante delle comunità (pensiamo agli Ebrei o ai Tibetani, popoli che nell’esilio sono sopravvissuti e sopravvivono proprio grazie ai valori culturali). In economia vince solo il più forte, chi ha più capitale, e quindi la naturale conseguenza, come diceva Trump, diventa: i poveri sono dei perdenti.

Impresa culturale è termine che ci trasporta in un altrove volto a snaturare le funzioni e quest’ultime sono tutt’altro che questione di lana caprina o di lanugini ombelicali, si parla delle fondamenta di un’arte millenaria. Ecco dunque che proprio nell’assunzione del termine ci si trova di fronte alle prime anomalie: sostegno pubblico e impresa culturale difficilmente si trovano in un piano di accordo vicendevole. Infatti le normative rivelano difetti e malformazioni. In epoca Covid, in tempi di ristori e di aiuti straordinari in molte regioni le cosiddette imprese culturali si sono trovate escluse dai sostegni alle piccole e medie imprese proprio per il fatto di essere senza fine di lucro, status necessario a chi richiede fondi di sostegno per l’attività culturale sia da parte regionale sia da fondazioni bancarie. E questo all’alba della riforma del terzo settore che obbliga tutti gli attori del settore culturale a divenire impresa di cultura. Quale? Nemmeno l’Agis saprebbe consigliarvi per il meglio.

Facciamo qualche esempio tre regionali e uno nazionale. Cominciamo dalle segnalazioni regionali tre casi sparsi per il territorio nazionale tra Nord, Sud e Isole. Primo: il bando Sì Lombardia, in cui Regione Lombardia chiedeva per la partecipazione l’iscrizione al REA (Registro delle imprese) e l’ottenimento del DURC, così come altri vincoli specifici al mondo imprenditoriale, eppure nonostante queste richieste il comparto culturale è stato escluso perché non ha fine di lucro. Secondo: la Legge quadro sulle azioni di sostegno al sistema economico della Sardegna a salvaguardia del lavoro a seguito dell’emergenza epidemiologica da covid-19 in cui i sostegni previsti sono a compensazione di un mancato reddito di impresa cosa difficilmente dimostrabile per chi è senza scopo di lucro. Terzo: la Basilicata si potrebbe annoverare tra i “casi curiosi”, in quanto ha pensato al tessuto dell’impresa profit, escludendo l’impresa non profit, anche nei casi in cui la normativa lo prevedeva e consentiva. Un caso concreto: Avviso Pubblico Misura straordinaria emergenza sanitaria COVID 19, emanato a giugno 2020, proprio per dare le prime risposte alle difficoltà causate dalla pandemia, assegnando un contributo, seppur minimo, a fondo perduto per i soggetti giuridici che ne avessero fatto richiesta. L’impianto normativo di riferimento e i criteri di concessione del contributo risultano interessanti, ovvero c’è il “classico” rimando al Regolamento UE n. 651/2014 e al suo Art. 1 dell’Allegato 1, ormai caposaldo di Avvisi e Bandi e che definisce il perimetro dell’Impresa, facendo rientrare anche le Associazioni che svolgono regolarmente attività commerciale; ed è definito un importo del contributo in base al numero di addetti/dipendenti del soggetto richiedente: mille Euro per nessun addetto, duemila Euro per chi ha in organico fino a cinque addetti e tremila Euro per chi ha da 6 a 10 addetti. Pur non volendo entrare nel merito tecnico e discutere l’adeguatezza o meno del provvedimento specifico, la cosa che si evidenzia e che contraddice l’azione dell’Ente Regione è l’impossibilità, per le forme associative (anche se iscritte al R.E.A. della Camera di Commercio di riferimento esattamente come in Lombardia) di poter accedere alla Misura: non per motivi di Codice ATECO o mancanza di dipendenti ( l’Avviso tutelava anche soggetti senza dipendenti), bensì per il tipo di forma giuridica: Associazione. Dopo questo breve excursus esemplificativo su base regionale riportiamo un esempio nazionale: Invitalia e il “suo” Bando Impresa SIcura per il rimborso degli acquisti di dispositivi di protezione per i propri lavoratori, sostenuto da un fondo INAIL -di cinquanta milioni di Euro- di cui tutti conosciamo le funzioni: contrasto agli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Un bando che in uno dei suoi primi articoli specifica chiaramente che la tipologia di forma giuridica del soggetto non inficia la richiesta di contributo, ma nella sezione FAQ riporta l’impossibilità per le forme associative di accedere al contributo, e porta con sé quindi una contraddizione forte nel momento in cui si pensa alla tutela dei dipendenti, e alla luce di una normativa impresa, ripetiamo, che allarga lo spettro dell’impresa stessa. C’è un fondo INAIL, che è alimentato anche dalle associazioni con dipendenti e che quindi versano l’assicurazione obbligatoria, c’è il riferimento ai lavoratori, ma ciò che conta è la forma giuridica. Non se ne comprende la motivazione.

Questi sono solo quattro esempi su decine che si possono fare della contraddizione in termine di cultura, impresa e sostegno pubblico nelle normative attuali alla vigilia della riforma del terzo settore.

Nella visione dell’economista la cultura è un impresa e come tale ha un unico obiettivo centrale su cui si deve focalizzare il finanziamento: la produzione di un oggetto di consumo. L’opera è il prodotto. Tutta la filiera delle arti performative si è così concentrata nell’unica attività premiata dal modello economico: il prodotto e lo ha fatto talmente bene che le ore di produzione sono quasi tre volte tanto quelle di rappresentazione! Si calcola in ben 23000 ore di recite di produzione e solo 9100 di recite di distribuzione dato questo che lascia intendere due cose: una spinta decisa e sproporzionata sulla produzione e il disequilibrio evidente tra le opere e la loro effettiva possibilità di circuitare. E stiamo parlando solo dei valori censiti nelle strutture riconosciute e finanziate dal Ministero.

Il mercato quindi è inondato di prodotti di cui in verità c’è scarsa domanda, ma essendo l’unico modo per percepire denari attraverso i borderò ecco che tutti persistono nell’errore di produrre nuovi oggetti destinati a nascere già morti. Pensiamo a quanto avviene in questi giorni di teatri chiusi, dove l’unica attività lecita sono le prove, tutti hanno prodotto, ma su quale mercato verranno venduti? E se consideriamo l’accumulo delle creazioni viste poco o per niente nel 2020 quali piazze smaltiranno tutti gli invenduti? E nel 2022 che facciamo: produrremo ancora in massa, soppiantando le opere dalla vita brevissima di questo biennio? Si profila all’orizzonte una vera strage degli innocenti.

Umberto Boccioni Velocità

L’iperproduzione è il primo effetto del malsano innesto di valori economici in ambito culturale e artistico. L’opera nasce da un’esigenza che nasce sì nell’artista, ma questo lo dovrebbe cogliere in seno alla società. Dall’incontro tra i due soggetti dovrebbe nascere un dialogo dovuto alla necessità. Come in American Gods i nuovi dei mal digeriscono i vecchi dei e così Economia mal sopporta l’imperio di Ananke, anzi vive e prolifera proprio laddove non vi è necessità alcuna: fatto il prodotto, creato dal nulla il bisogno, si crea il mercato. Non importa che il pubblico chieda o meno l’opera, e nemmeno si necessita che l’artista abbia qualcosa da dire a un pubblico. A ogni stagione bisogna immettere novità in palinsesto, cose mai viste da nessuno, possibilmente in prima assoluta, in mancanza di queste almeno in prima regionale. E di conseguenza ecco l’ossessione per l’audience engagement. Il pubblico deve crescere esponenzialmente come il PIL, non si deve arrestare mai, anzi a ogni stagione bisogna trovare nuovi escamotage per mobilitarne di nuovo. L’arte però ha tempi lunghi, digestioni lente, passaparola antichi, tutti valori che mal s’accordano con i principi di quantificazione immediata del successo. E così per ottenerlo la qualità scende, si ibridano i linguaggi propri della scena con quelli di più sicuro appeal della televisione, della serialità cinematografica, dei social network. Ora chiariamo: niente contro l’ibridazione dei linguaggio purché il teatro resti tale, se diventa televisione, o Tik Tok allora i presupposti sono sbagliati. I mass media di massa, soprattutto quelli digitali, hanno numeri incomparabili a quelli che può raccogliere il vecchio carro di Tespi. La corsa al pubblico è dunque persa in partenza. Per il teatro dovrebbero essere I rapporti ad assumere importanza, e con essi le relazioni con i territori e le questioni sociali, quello che per i sociologi è l’impatto sulla società, ma su questo ritorneremo con un focus apposito. Come detto è difficile districare i temi che sono follemente interconnessi.

Se dunque bisogna produrre a tutti i costi, se la guerra si compie sulla prima ad ogni costo quali sono le conseguenze per il comparto? Innanzitutto sparisce il repertorio. Le opere infatti si riattualizzano rispetto ai contesti che risemantizzano i contenuti, per quanto vivano l’istante hanno una aspettativa di vita ben più lunga dei 12 mesi a cui spesso sono destinate. Ora però se la gara si gioca sulla novità a tutti i costi, le opere giocoforza hanno vita breve se non brevissima, soppiantate dal nuovo prodotto. Stessa cosa per l’artista giovane il quale va sfruttato in fretta, prima cioè che venga immesso uno più giovane sul mercato. E così si inaridisce la fonte primaria di formazione: il passaggio di conoscenza da una generazione all’altra. Se si bruciano le tappe sovraesponendo le forze giovani fino all’età critica dei 35 anni, inevitabilmente coloro che passano il fatidico vallo di Adriano e diventano over si trovano per lo più scartati, e così non si storicizza la ricerca, non si passano le abilità e le tecniche. I giovani poi vengono indotti a produrre impreparati perché va venduto non tanto il loro talento ma la loro giovinezza. I palinsesti poi non privilegiano una territorialità ma, sempre in gara con le première, comprano i vincitori di premi, le prime regionali, il giovane appena scoperto. L’artista di esperienza, a meno che non sia famoso, non fa pubblico perché è già visto, lo si conosce già, non ha la patina del nuovo ad ogni costo. Attenzione: quando si parla di novità essa deve però essere rassicurante, non così nuova da scuotere veramente il pubblico. Infatti se per un cellulare o una televisione si corre a comprare l’ultimo modello, in arte viceversa il nuovo terrorizza. Quello che si vede sulle scene deve essere una novità con una patina di assoluta e certa riconoscibilità in modo da confermare i gusti del pubblico e non gettarsi in pasto al rischio di scontentarlo e quindi perdere in sbigliettamenti e abbassare l’indice di incremento degli spettatori-clienti.

Ulteriore danno provocato dal concentrarsi sulla sola produzione è la loro quantificazione. I parametri ministeriali (per ora sospesi ma non aboliti) valutano la qualità solo per il 30%. Il restante 70% si riferisce alla quantità: tanto pubblico, tante date, tanta rassegna stampa. E se la quantità vince sulla qualità, l’opera si adegua a un fast food dove non importa che l’hamburger sia veramente buono, ma che lo consumi più gente possibile.

La vera anomalia però è il mercato stesso. Esiste? Si sono implementati dei reali strumenti per la sua espansione? Ci sono progetti di immissione dei nostri prodotti culturali sul mercato estero? La distribuzione funziona? Nel prossimo articolo proveremo ad analizzare la forma e il ruolo del cosiddetto mercato nella nostra filiera produttiva.