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Margarida Xirgu: il teatro non è divertimento, è sacrificio

|ENRICO PASTORE

Margarida Xirgu i Subirà, la più grande attrice spagnola del Ventesimo secolo, prese il primo applauso della sua vita all’età di soli otto anni. Era il 1886 ed era in una taverna in Catalogna. Un gruppo di operai le fece leggere un manifesto e lei, senza paura di rivolgersi a quell’uditorio di uomini adulti, con voce squillante di bambina lesse il suo primo testo in pubblico. Questo episodio fortuito segnò il suo destino come un marchio: sarebbe stata attrice e sempre schierata con la repubblica, tanto da subire gli attacchi dei falangisti di Franco, la perdita di tutti i propri beni, costretta a morire in un esilio che sarebbe durato trentatré anni.

Nella sua vita d’attrice si possono scorgere tre grandi periodi: un primo coincidente con il suo apprendistato e i suoi primi successi nella sua Catalogna, dove reciterà principalmente nella sua lingua d’origine e dove formerà la sua prima compagnia nel 1911; una seconda parte, la più ricca d’incontri e di successi, in cui si trasferisce a Madrid per recitare in castigliano. È questo il periodo dell’amicizia con Federico Garcia Lorca di cui fu la massima interprete e che si conclude nel 1936 con la partenza per il Messico. Infine dal 1936 al 1969 il suo esilio sudamericano tra Cuba, Argentina, Cile e Uruguay, paese in cui morì. Non riusci mai a tornare in Spagna per quanto lo desiderasse. Le sue spoglie sono state riportate al paese natale, Molins de Rei, solo nel 1988 per il centenario della nascita.

Fin dai suoi esordi Margarida Xirgu si oppose strenuamente al consolidato mestierismo del teatro: «il cedimento di fronte all’estrema volgarità al fine di lusingare e giocare con la sensibilità del pubblico ha sempre suscitato in me il massimo disprezzo». Non sopportava che il teatro si accontentasse di essere spettacolo. Era pronta a ogni sacrificio e a sottoporsi a una ferrea disciplina pur di raggiungere una coincidenza tra l’artificio e la vita.

La questione si stava affrontando in tutta Europa. L’inizio del Novecento era in subbuglio alla ricerca di un metodo per far vivere di vita autentica ciò che si animava sul palcoscenico. Vita? o teatro? Artificio o verità? Straniamento o immedesimazione? Per farla semplice tornava di moda la questione mai risolta del paradosso di Diderot: l’attore è più vero quanto più si distacca dall’imitazione e giunge alla verità tramite la tecnica, oppure deve cercare dentro di sé i sentimenti propri del personaggio e farli rivivere di fronte al pubblico?

In verità il paradosso è un falso problema perché la questione è mal posta. La verità è negli occhi di chi guarda. Ogni attore fuori dal comune ha trovato la sua propria strada e il suo toccare il cuore dell’osservatore è da sempre stata una ricetta più segreta di quella della Coca Cola, perché formata da un’indicibile mix di talento, genialità, tecnica, sensibilità. Ogni attore apprende una o più tecniche, le fa proprie, le trasforma, e prova a tramandarle, ma il nuovo discepolo, se talentuoso, ripete il ciclo permutando a suo modo la ricetta per giungere a quello modo al di là dei modi di cui parlava Carmelo Bene.

Il processo di Margarida Xirgu passa attraverso vari stadi difficili da raccontare perché nel farlo li si riduce a metodo quando, in verità, vi era un’attitudine sempre modificabile e perfettibile di rappresentazione in rappresentazione. Si deve per forza di cose semplificare, avvicinarsi per approssimazione, come per il problema della quadratura del cerchio.

Cominciamo con ordine. Il suo primo passo fu un rifiuto. Come accennato Margarida Xirgu si oppoese da subito alle abitudini vigenti. All’epoca gli attori imparavano a malapena la propria parte. All’inizio delle prove si affidavano al suggeritore per radicare il testo nella memoria. Lo studio del personaggio si limitava all’esteriorità, alla forma spesso scolpita tramite il mestiere e la consuetudine. Il regista poi era una sorta di vigile urbano, presente solo per dirigere il traffico delle entrate e delle uscite.

Margarida rifiutò tutto questo e apparve sui palcoscenici di Catalogna prima, e di Spagna poi, come un unicum: alla prima prova non solo conosceva la parte perfettamente a memoria, ma aveva studiato l’intero dramma e ragionato profondamente sul proprio personaggio. Non servendole il suggeritore, durante le prove, tutta la sua creatività era diretta a costruire una partitura di gesti, azioni, pause, silenzi che le permettessero di far emergere il personaggio facendo scomparire l’attrice.

Come spesso accade il suo processo creativo (non chiamiamolo metodo, parola che lascia sempre dietro di sé un gusto di meccanico) era un’inscindibile unione di tecnica e di istintualità o sensibilità acuita, oltre a un mettersi in ascolto di tutto ciò che accadeva intorno a lei per poter adattare fluidamente la partitura all’onda vitale pronta a formarsi nella rappresentazione. La partitura precisa da lei creata doveva sempre entrare in connessione con il flusso vitale che si sprigionava. Il suo era un sottrarsi rimanendo vigile, abbandono e controllo insieme. Le parole di Margarida non lasciano adito a dubbi: «che l’artista abbia una missione dovrebbe significare qualcosa in più che soddisfare con il successo il proprio egoismo». Come afferma Anna Caixach: «la ricerca in entrambe le direzioni, interiore-esteriore, dicotomia analoga alla relazione processo-composizione, sarà una costante nelle dichiarazioni di Xirgu o di molti di coloro che l’hanno vista recitare dal vivo». Per giungere a un tale risultato eliminò per prima cosa tutto ciò che era inessenziale al lavoro attorico, fossero scene o trucchi. Solo il necessario era messo in gioco.

È curioso come il processo di composizione della partitura ricordi molto da vicino le ricerche dell’ultimo Stanislavskij sulle azioni fisiche. Margarida Xirgu era infatti convinta che la vena emozionale della parte scaturisse dalle piccole azioni messe in parallelo con il testo poetico. Dal contatto di parola, silenzi, azioni, fluiva quella che potremmo chiamare la verità dell’interpretazione, anche se la parola verità è pericolosa. Si potrebbe dire piuttosto che si rivelava quella che i greci chiamavano Aletheia, quella verità che appare opacizzandosi, ma velandosi disvela.

Un altro elemento da non sottovalutare è l’incontro con la musicalità del verso poetico, soprattutto quello di Federico Garcia Lorca, il quale fece scaturire in lei una vena creatrice rivolta a far risuonare la parola, ad abbandonare il discorso per giungere al canto. La sua esplorazione della musicalità del testo andò a braccetto con la ricerca poetica di Lorca, il quale fin dai suoi esordi, fu affascinato dalle antiche forme popolari di canto apprese negli anni di studio nella sua Granada con il maestro Manuel De Falla.

L’incontro tra Lorca e Margarida fu naturale. Federico poté ammirare la Xirgu a Granada il 13 marzo del 1915 quando l’attrice interpretava magistralmente Elettra di Hofmannsthal al Teatro Cervantes. Federico aveva solo diciassette anni ed era accompagnato dal suo maestro Martín Domínguez Berrueta. L’impressione prodotta su di lui dall’attrice fu così forte che nel 1926 provò a inviarle, attraverso Eduardo Marquina, il manoscritto della sua Maria Pineda. L’opera non le venne mai consegnata ma infine i due si incontrarono nel 1926 all’Hotel Ritz di Madrid dove Federico le lesse il dramma incontrando il suo entusiasmo. Questo fu il primo passo non solo di una grande amicizia ma di una sorta di sodalizio poetico-artistico. Questo lo si può desumere dalle parole accorate di Margarida: «[…] fino a quando finalmente non ho incontrato il mio autore. Si è realizzato il sogno di tutta la mia vita artistica: il teatro spagnolo si arricchì di un valore nuovo; con un poeta brillante e meraviglioso, che in pochissimi anni si è fatto conoscere e ammirare da tanta gente. Da allora la mia personalità non mi ha più interessato, erano i suoi versi a rapire il pubblico, era lui, solo lui».

Lorca, da parte sua, la ricambia: «Margarida Xirgu ha un raro istinto nella percezione e nell’interpretazione della bellezza drammatica […] è capace di catturare il volo poetico che non si trova nelle parole, che permane nell’aria, fa una frase e l’altra». E ancora. «Margarida ha l’inquietudine del teatro, la febbre di molteplici temperamenti, La vedo sempre come crocevia di tutte le eroine».

Un innamoramento artistico vicendevole che portò la Xirgu a interpretare per la prima volta numerose opere e poesie di Federico. Margarida fu la protagonista della prima di Bodas de Sangre l’8 marzo del 1933 (che divenne film in Argentina nel 1938 per la regia di Edmundo Guibourg), di Yerma il 19 dicembre del 1934, evento funestato dai falangisti che la contestavano sapendo delle sue simpatie di sinistra, e la toccante prima di La casa di Bernarda Alba nel 1945 dopo molti anni dalla morte del poeta.

Margarida provò a convincere Lorca nel fatidico 1936 ad abbandonare la Spagna per seguirla in tournée in Messico. Era il 26 gennaio a Bilbao. Margarida Xirgu rappresenta con successo la dama Bobe di Lope de Vega nell’adattamento di Federico. Fanno insieme quello che sarà un ultimo recital insieme. Lui declamerà parte del suo Romancero gitano e l’attrice una selezione di brani classici. Margarida insisteva perché l’amico la seguisse lontano dalla Spagna e dall’incombente guerra civile. Federico tentennava perché attendeva il permesso dei genitori del suo amante Juan Ramírez de Lucas, ancora minorenne. Per questo Lorca si dirige a Granada. Margarida gli ha già inviato due biglietti. Ma gli eventi precipitano. Lorca sarà ucciso il 19 agosto del 1936. Margarida apprese dell’assassinio di Federico oltreoceano.

Molti anni dopo a Salto in Uruguay, all’inaugurazione di un monumento in memoria di Federico Garcia Lorca, Margarida fu invitata insieme alla sua compagnia a recitare tre frammenti di Bodas de Sangre. Il pubblico intervenuto non si aspettava di assistere a una performance decisamente fuori dal comune che non solo rivela il talento di una grande attrice ma tutto il dolore di una donna che perde il suo caro amico e si confonde con il personaggio del dramma, una madre costretta a seppellire il figlio. Queste le parole dell’attrice Conceptión Zorrilla presente all’evento: «Quando Margarida concluse quella sorta di lamento viscerale calò un silenzio mortale. Chi avrebbe potuto applaudire qualcosa di simile? […] Ciò che era apparso era una madre che piange il figlio morto […]. Io credo che quel giorno Margarida stesse sotterrando Federico, poiché non era l’attrice, era la madre, nemmeno l’amica, proprio la madre con la sua disperazione. Era una specie di accumulo di dolore di tutta la vita e che di colpo raggiunse un canale dove sfogare quella sofferenza e ne pianse e lo gridò e lo urlò, e quelle persone, e quegli attori furono privilegiati per essere stati testimoni di quello spettacolo unico nel quale il teatro si era confuso con la realtà senza alcuna linea di demarcazione: Stava recitando o non stava recitando?».

La domanda finale di questo commovente e straziante documento ci fa comprendere come lo storico e il ricercatore siano impotenti a descrivere un processo creativo. Sembrerà banale ma vince l’antico adagio “prendi l’arte emettila da parte” o, se vogliamo essere più aulici, valgono le parole di Lao Tze nel Tao Te Ching: «dimentica di aver dimenticato». I metodi, gli artifici, le prassi, i grandissimi attori li abbandonano pur usandoli. Superano la stessa regola da loro stessi emanata. Come Bach ne L’arte della fuga supera lo stesso canone da lui stabilito e sistematizzato. Margarida condusse il suo pubblico in uno spazio in cui le parole non possono descrivere, balbettano, perfino ammutoliscono e resta la commossa ammirazione di un processo creativo unico e irripetibile.

Come posteri abbiamo la fortuna non solo di poter ammirare una sua performance nel film di Edmundo Guibourg, ma di poter ascoltare la sua voce nelle registrazioni del 1961 dove recita il Romancero Gitano dell’amico Federico. E così nelle orecchie ci risuona la sua voce un poco arrochita che canta: «Verde que te quiero verde/verde viento verdes ramas…».

Leonardo Lidi

Il misantropo secondo Leonardo Lidi

Deitaro Suzuki, maestro Zen, per mostrare ai suoi allievi l’azione nefasta dell’ego, disegnava un cerchio in cui figurava solo una piccola apertura, una strettoia o, meglio, un’angusta porticina, unico varco entro cui il mondo esterno poteva accedere all’interno del cerchio della mente.

La scena che Leonardo Lidi allestisce per questa riscrittura de Il Misantropo di Moliere, a quattrocento anni dalla nascita del grande uomo di teatro, ricorda il disegno di Suzuki: un semicerchio di ferro altissimo in cui al centro si apre un pertugio. L’ambiente all’interno: nient’altro che un arido deserto.

I personaggi per entrare in scena devono chinarsi, piegare la schiena come sotto delle forche caudine, e giunti sulla desolata landa, giocare il proprio ruolo e poi uscire, nuovamente prostrati dall’angustia della fessura.

La scena per farsi specchio del mondo deve forse riflettere i meandri desolati di una sola mente (quella ferita è angustiata di Alceste), metafora di tutte le altre? Siamo così desolatamente soli da non più misurare il nostro agire nella relazione con gli altri ma solo nel dialogo con i nostri stessi fantasmi? Leonardo Lidi sembra porci proprio questa precisa domanda.

La vicenda di Alceste, quest’uomo di nobile lignaggio, deluso dal mondo e dalle sue continue ipocrisie, uomo desideroso di verità fino al dolore, è intriso di rabbia, cede alla nefasta tentazione di vedere tutto in rovina, senza soluzione, avvinto e imbrigliato dalle false convenzioni della società. Eppure Alceste compie fin dall’inizio quel peccato mortale che gli preclude ogni salvazione: non ascolta, si rinchiude nel boschetto fortificato della sua fantasia e non può che proferire a ogni piè sospinto: “io…, io…, io…”. Non c’è spazio per le parole degli altri, per le loro qualità, ma solo per i difetti, unici elementi a risvegliare la sua attenzione, limitata e colma di pregiudizi, riuscendo ad entrare in quella strettoia che conduce all’interno della sua mente.

Christian La Rosae Giuliana Vigogna ne Il misantropo di Moliere per la regia di Leonardo Lidi Ph:@ Luigi De Palma

La riscrittura di Leonardo Lidi de Il Misantropo si impernia totalmente in questo viluppo che porta l’io all’io senza passare per l’altro, le sue opinioni, le sue mancanze, i suoi dolori. Non c’è compassione. Neppure amore, benché tutti in qualche modo siano innamorati di qualcuno: Alceste di Celimene, Eliante e Arsinoé di Alceste, Filinte di Eliante, Oronte di Celimene, Celimene della vita nel suo insieme.

Si parla d’amore benché sia assente. Vi è solo gelosia e desiderio di possesso o di rivalsa. Non può essere altrimenti: se l’altro non è un elemento di accesso al mondo, ma solo una lastra fotografica su cui imprimere le nostre aspettative, non vi è spazio per i sentimenti. Non vi è dono ma solo richieste e pretese.

Leonardo Lidi da una commedia ricava un dramma amaro, pregno di solitudine, in cui il riso, se c’è, è quasi un intruso e riconferma la sua volontà di aggiornare i testi della tradizione in una forma più adatta al presente, più vicina al pubblico di oggi.

La vicenda si sviluppa in frammenti, in scene singole, come un florilegio di arie dell’Opera di Pechino. I personaggi convengono in questo deserto pur non incontrandosi mai, proferiscono le loro battute o i loro monologhi, e poi escono o si aggirano senza meta tra le sabbie. Non sono mai uniti, anche nelle scene d’insieme. Soli persino in compagnia. La folla è anonima, priva di volti, senza interesse per i personaggi principali se non per essere oggetto di strali o di vanità.

Bravi gli interpreti nel conformarsi a questo mondo arido, e capaci di toccare i cuori disidratati e disseccati di noi spettatori.

Vi sono però anche alcuni elementi di perplessità. Il personaggio di Lui, per esempio, presente già in La casa di Bernarda Alba di Lorca: se in quell’occasione aveva un pregnanza evocativa, emblema di una presenza maschile fagocitante seppur assente, in questo allestimento sembra superfluo, utile a raccordare scene e situazioni ma non veramente significante nel meccanismo generale della regia.

Anche la pioggia nel finale, benché suggestiva (e per altro già utilizzata ne Gli spettri di Ibsen), non aggiunge e non toglie nulla alla catena di significanti che rendono fecondo l’allestimento. Così come la canzone Guarda che luna di Fred Buscaglione, più nota di colore romantico e pop che effettivo elemento pregnante della vicenda.

Leonardo Lidi ne Il Misantropo riafferma i suoi stilemi registici e interpretativi che lo hanno portato all’attenzione di pubblico e critica. È indubbio che i suoi allestimenti funzionino e sappiano sia far rendere gli attori che donare al pubblico emozioni e domande che necessitano di riflessione. Lo fa tenendo fede alla sua estetica ormai formata e sicura. Forse però, è questo non è che l’umile parere di un critico, è venuta l’ora di andare oltre, superare le proprie sicurezze per non venire imprigionato come Alceste nella sua fortezza mentale. Forse è il momento di osare di più perché sicuramente Leonardo Lidi ha le qualità e abilità tecniche per affrontare le terre incognite.

Durata 1h20′ senza intervallo

In scena al Teatro Stabile di Torino dal 3 al 22 maggio 2022

Visto al Teatro Carignano il 15 maggio 2022

La casa di Bernarda Alba

LA CASA DI BERNARDA ALBA DI LEONARDO LIDI

In questi giorni non c’è niente di più inutile che il scrivere una recensione teatrale. Un esame critico di uno spettacolo si rivolge tendenzialmente a un certo tipo di persone: pubblico presente in sala, pubblico potenziale, appassionati, studiosi e artisti. Oggi i teatri sono chiusi e molti rischiano la sopravvivenza nei prossimi mesi. Gli artisti stessi vivono l’incertezza del momento con affanno e preoccupazione. Il pubblico poi non è e non si sa nemmeno quando potrà di nuovo essere e in che condizioni lo sarà. Quindi perché parlare de La casa di Bernarda Alba di Leonardo Lidi?

Innanzitutto perché il testo di Garcia Lorca, scritto nel 1936, ci parla di argomenti scottanti e urgenti del nostro contemporaneo a partire, ma non solo, dalla questione femminile e del ruolo della donna ancor oggi purtroppo soggiacente a un pensiero e a un desiderio ancora vincolato a quello del maschio.

La casa di Bernarda Alba, in scena al Teatro Stabile di Torino e bloccato prima da una quarantena precauzionale e in seguito dal DPCM, sfuggiva al proprio argomento, si ricontestualizzava forzatamente a causa di una realtà che diventa ogni giorno più pressante e indefinibile. Leonardo Lidi, che traduce e riadatta il testo di Lorca, ci presenta una casa blindata, trasparente e di un biancore ospedaliero come di camera di contenimento. È impossibile per le donne imprigionate uscirne e tra loro aleggia una presenza nera a soffocare e rendere amara la loro permanenza. La casa di Bernarda Alba si apre con un funerale e si chiude con un suicidio. La morte è padrona di quello spazio chiuso e asfittico, dove i sentimenti prevalenti sono l’invidia, l’insofferenza, la rivalità, il dominio padronale, la violenza anche sessuale. Una piccola società che anziché unirsi, consolarsi e difendersi, si disgrega. Tra questi sentimenti entra prepotente ciò che vive ognuno di noi in questo momento in questo paese. Ecco perché scrivere di questo spettacolo è in qualche modo occuparsi del momento presente al di là dei confini propri del teatro.

Bernarda, la madre, dispotica tiranneggia le figlie e la serva, ma in questa sua mania del controllo, dimostra solo la propria impotenza a governare il disfacimento. Sono le parole della serva (Orietta Notari) a dispiegare la vicenda verso un orizzonte oltre la platea: “Pensavo che quando non si riesce a dominare il mare la cosa più facile da fare è girarsi per non vederlo”. E così, grazie a questa battuta, ci sbatte contro tutta la durezza di questo momento: siamo impotenti di fronte a qualcosa che ci sovrasta e appare incomprensibile e le conseguenze sono al momento impredicibili, Nonostante tutto però siamo ad affannarci nel provare a fronteggiare la marea, e lo facciamo con strumenti obsoleti, impreparati, disarmati facendo finta di non sapere la nostra vulnerabilità. Eppure un piccolo spiraglio si apre proprio nel finale con l’entrata della suicida Adele, non più di nero vestita, ma verde di vegetale che morto nella terra rinasce alla vita.

Leonardo Lidi in questa regia de La casa di Bernarda Alba riesce a far emergere la bellezza e brutalità del testo di Lorca, riuscendo anche a proiettare la vicenda nel nostro presente quotidiano dimostrando in questo la necessità del teatro, strumento di comprensione del reale attraverso la finzione. E questo nonostante alcune scelte, per esempio i registri volutamente e insistentemente pop, che allentano sì la pressione, ma alla lunga depressurizzano e disinnescano scene potenzialmente esplosive. Farò un solo esempio: la scena si apre con una danza sfrenata sulle note di Guarda come dondolo di Edoardo Vianello. Le donne vestite di nero in questa stanza sigillata di un biancore accecante. Il contrasto con il funerale è ampio ma significativo. Anche la partecipazione dell’ombra di Lui (Riccardo Micheletti) rende tutto più inquietante. L’elemento popolare è qui volano di significati, grimaldello che squarcia un velo sulla vicenda. Poco oltre questa scena, dopo il dialogo di Bernarda (Francesca Mazza) e della serva ecco l’entrata delle cinque figlie (Francesca Bracchino Angustia, Matilde Vigna Amelia, Barbara Mattavelli Maddalena, Paola Giannini Martirio, Giuliana Vigogna Adele) in punta di piedi, in fila indiana e con le braccia strette ai fianchi e le mani aperte di lato. Le cinque giovani donne si dispongono in fila sul gradino. Una si tuffa in platea e sempre a passettini si avvicina al pianoforte sulla destra e comincia a suonare e cantare Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco. Al toccante momento ecco subentrare un dialogo fatto di vocine in falsetto che smorza e disinnesca il momento. La violenza insita in quei pettegolezzi tra sorelle che dovrebbero amarsi, si stempera tra quelle vocine di bambinette sciocchine e svanite. Il pop qui è controproducente perché non innalza la materia, la rende solo più leggera nel senso deteriore del termine.

Leonardo Lidi è un regista di talento, che in molte scene delle sue già numerose opere dimostra maturità da artista consumato, ma la cui giovane età si intravede proprio e solamente nell’esagerare i toni e i chiaroscuri. Questa non è un’accusa, né una ricerca della critica per la critica di colui che vuole trovare anche nel talento il fantomatico pelo nell’uovo. É solo, secondo la modesta opinione di chi scrive e si assume le responsabilità del dire del lavoro altrui, il rilevare il luogo dove il talento deve maggiormente lavorare per emergere ancora più forte. Sono gli eccessi che insegnano a dosare, sono le sbavature che addestrano la mano alla fermezza e decisione del tratto.

Leonardo Lidi ci consegna un testo di grande e sofferta poesia, e una regia che in buona parte apre la vicenda verso un reale incombente e ci porta a riflettere su noi tutti, fragili e incapaci di guardare il mare in tempesta. É un peccato che le circostanze avverse abbiano sospeso questo lavoro. Avrebbe meritato di essere visto e speriamo che il futuro possa accoglierlo nuovamente sulle scene. Abbiamo bisogno di confrontarci con materie così scottanti, così come abbiamo bisogno di uscire tutti da La casa di Bernarda Alba per affrontare il mondo nuovo che si aprirà dopo questa immane tragedia che colpisce tutti. Dobbiamo ripensare il mondo, dobbiamo trovare nuovi paradigmi, e non solo nel teatro, per non rimanere incastrati tutti tra quattro mura, tra concetti vecchi, disgregati e soli.