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FRANE di E. Chiocchini e MAP di Irene Russolilo

Sotto un diluvio memorabile ieri sera alle Lavanderie a Vapore si son visti due lavori di due giovani artiste decisamente interessanti. Da una parte la talentuosa e già affermata Irene Russolillo con Map, artista di cui abbiamo seguito l’evoluzione artistica da lungo tempo, e Eleonora Chiocchini che ha presentato Frane.

Entrambi i lavori hanno un denominatore comune: la preponderanza dell’aspetto visivo. Le immagini sono affascinanti, accattivanti, catturano lo sguardo per la loro capacità di disegnare spazi su cui l’occhio si posa volentieri.

In Frane siamo in un mondo più oscuro, ombroso, geometrico e spigoloso. La danzatrice tratteggia figure che si muovono a scatti, in una discontinuità nervosa. I veli bianchi che si lascia dietro sulla scena come la bava di una lumaca o la pelle di un serpente disegnano sul palco nero spazi geometrici che ricordano certe tele costruttiviste. Si ha comunque l’impressione di non finito, di qualcosa di mancante, soprattutto dal punto di vista drammaturgico. Se la frammentazione delle immagini è dichiarata nelle intenzioni, un franare del racconto lineare, vi è comunque un senso di incompiutezza. Probabilmente il lavoro è ancora in fase di costruzione, lo si può desumere, benché senza certezza, dalla brevità del pezzo di soli 18 minuti.

Map del duo Russolillo e Calvaresi è invece uno spettacolo più decisamente completo, finito. Da un punto proiettato nello spazio della scena e che appare, quasi solido, sul corpo della danzatrice, – evocativo e toccante l’inizio dove nell’ipnotica lentezza del movimento questo punto prende sostanza e dimensione sul corpo della Russolillo -, si sviluppa un linguaggio frammentato e frammentario che prende vita dal movimento frenetico degli arti che diventano supporto alla proiezione.

Se l’aspetto visivo è decisamente suggestivo resta la delusione che tutto sia solo superficie. La domanda che viene posta nel titolo (once you have learned to speak what will you say?) ottiene una risposta banale, che gioca su facili e sciocche battutine. Le potenzialità di un supporto tecnologico non hanno ottenuto nerbo, ossa e sangue per sostenere quello che alla fine si è dimostrato solo un gioco di visione.

Le mappe casuali disegnate con lo scotch di carta sul fondale e sul palco, le lettere proiettate ovunque da cui si formano parole a caso, la danza frenetica nel fumo illuminato da tagli di luce e dai raggi del proiettore sono sicuramente evocative, gradevoli, di una certa bellezza, ma amena, priva di sostanza come un’ombra, vuotamente gradevole. Si ha l’impressione di occasione perduta, di profondità mancate, di fascinazione del gioco tecnologico fine a se stesso.

Come se la risposta alla domanda: una volta imparato a parlare cosa dirai? La risposta fosse: semplici sciocchezze ma dette molto bene.

Da un talento come la Russolillo, una danzatrice che ha una potenza di espressione corporea rara e magnifica, ammetto di essermi aspettato di più.

odio

ODIO Fattoria Vittadini coreografia Daniel Abreu

Una danza stupenda. Ammaliante. A volte immagini di una grazia e purezza struggenti. In certi istanti quelle donne nude velate da quelle lunghe stoffe bianche e pelose come una pelliccia, quelle donne che intrecciano ii loro corpi come serpenti, o combattono feroci come menadi, sono talmente belle da commuovere.

Odio. Questo il titolo dell’opera. Odio? Ci domanda subito dopo lo schermo dopo aver affermato il titolo. E infatti è la domanda che mi pongo all’uscita. Non dovrei provare questo fascino, questa sorta di pace che sempre mi proviene quando vedo una cosa bella. Eppure è quello che provo.

Incominciamo dal principio. Tre capitoli: il cacciatore, il nulla, successo religione e morte. In ogni capitolo si declina l’odio in tutte le sue possibili varianze. Proprio in tutte? Non credo. Sembra quasi che si voglia tralasciare gli estremi. Volutamente. Sembra che l’intenzione sia piuttosto di far trasparire la fascinazione dell’odio, soprattutto in quelle aree di confine, contigue in cui, sul filo sottile di un funambolo, un sentimento può in un istante cadere nel baratro del suo contrario. La fascinazione della caduta, l’attrazione nell lasciarsi cadere nell’abiezione, quello che Poe chiamava il demone della perversione.

E questo è molto evidente nella prima parte: il cacciatore. Il legame tra la caccia, l’assassinio e l’erotismo si potrebbe dire è la cifra del mondo greco antico. Calasso in un suo recente e stupendo libro ne mette in luce gli aspetti con la sua lucida e evocativa scrittura. Ma qui siamo più a un livello di superficie, di evidenza. C’è più sesso e lotta che vera e propria caccia. E un trapassare tra passione e violenza spesso commiste. Abbandono e forza bruta, Rapina, lascivia, sadomasochismo. L’abbandono al dolore che dà piacere ma conferisce il potere di fermare il gioco.

Nella seconda parte, il nulla, sembra più un girare in tondo al problema, mai freccia che colpisce il bersaglio, quasi un perverso e aggraziato girotondo mentre sullo schermo il catalogo delle abiezioni: stupro, violenza, intolleranza, pregiudizio e via dicendo. Non c’è perforazione solo galleggiamento. Ci si sofferma sulla superficie dello specchio affascinati dall’immagine che ne risulta. Quasi uno specchio d’Armida che soggioga la mente. L’ultima parte, quella che si richiama a successo, morte e religione, è quella più affascinante. I tre corpi delle danzatrici si intrecciano come serpi, accordi e sincronie di una trimurti nuda e splendente, in quelle luci basse e soffuse. Nessuna inquietudine, nessun fulmine a scuotere la terra. E la frase di Nietzsche: “le persone che più hanno amato l’uomo sono quelle che più gli hanno fatto danno. Hanno voluto da lui l’impossibile, come tutti gli amanti”.

Sembra un segno di resa. Come a dire che questa è la nostra natura. Odiamo perché è nel nostro DNA. Il lato oscuro della forza ci attrae e ne saremo sempre schiavi. Cioran esprime da sempre un concetto simile. Per lui l’amore e la santità sono delle aberrazioni nell’animo umano. Per raggiungerle bisogna sforzarsi e molto. L’odio è molto più affascinante nella sua semplicità. Questo mi è giunto. E mi chiedo se questo sia la sensazione che doveva arrivarmi da uno spettacolo che parla dell’odio. Non che ci sia qualcosa di giusto o di sbagliato. Anzi. Mi guardo bene dal dire che l’arte, in qualsiasi forma appaia, debba essere giusta o sbagliata o che ci sia in essa del giusto e dello sbagliato. Non è compito dell’arte dare giudizi. Majakovskij scriveva che l’arte non è lo specchio del mondo ma il martello con cui forgiarlo. Ecco in quest’opera, seppur magnifica, seppur minuziosamente cesellata come un bronzo di Donatello, mi è mancato il martello. La fascinazione, l’ammaliamento, mi lasciano distante ammiratore. Ne subisco il fascino distaccandomene subito.

Nel buddismo tibetano le immagini più orrorifiche sono entità benevole perché conducono al distacco e alla verità. Quelle più suadenti e meravigliose sono demoni che conducono alla fascinazione de e per la vita. Ecco, Odio, mi sembra proprio questo tipo di apparizione. Bella, stupenda, persino accattivante, anche quando tocca la perversione. Affascina ma non incide. È come il bacio voluttuoso di un succubo, ti ama fino a sfinirti, lasciandoti vuoto.

TRE UNO di Fabio Liberti con Elita Cannata, Davide Valrosso, Anna Jirmanova

Tre Uno, viene definito sul programma di sala come un viaggio. Definizione fatta tramite domande: verso cosa? Attraverso cosa? E cosa c’era dentro? Sono le stesse domande che si pone lo spettatore alla fine dello spettacolo. Un palco ricoperto di palloncini neri. Sul proscenio una linea bianca, netta. Poi una danzatrice che compie i primi passi in questo mare nero di palloncini. Segue l’entrata degli altri due danzatori, la linea diventa un quadrato che racchiude e da cui si evolve un paesaggio naif, con casette dal tetto a punta e comignolo fumante, albero in giardino e uccelli in volo. I palloncini scoppiano, diradano per lasciare lo spazio a questo paesaggio infantile ed elementare. Infine il buio in cui echeggia il suono dei palloncini scoppiati. Questo il viaggio. Una proposta un po’ troppo naif, ingenua, infantile, nel senso di rifarsi agli stereotipi iconografici dell’infanzia. Benché work in progress non sembra che questo lavoro possa riservare sorprese verso una complessità che doni spessore. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una visione basica, estremamente lineare, a un messaggio di banale ottimismo del tipo: la marea nera che circonda il nostro agire sarà rasserenata dall’azione creatrice e immaginatrice. Ma l’immaginazione proposta è costituita da stereotipi, da schemi ripetuti e frusti. Tra i lavori proposti fino ad ora alle Lavanderie a Vapore nella rassegna Permutazioni, progetto, lo ricordiamo, di residenze creative promosso da Zerogrammi e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, Tre Uno è sicuramente il lavoro più debole e scontato. Elias Canetti diceva: “Solo ciò che tocca la collettività nel suo insieme mi pare degno di essere rappresentato”. A questo pensiero non posso che associarmi. In questa contemporaneità afflitta da innumerevoli conflitti sociali ed economici, non servono risposte semplici e banali. Serve uno sforzo per comprendere, per poter vivere e forse solo in questo risiede una possibile funzione per le arti. Non serve a niente e a nessuno una confortevole visione, serve essere crudeli, come può esserlo un medico che incide la carne per raggiungere il male.

Foto: Fabio Melotti

TRENTESIMO di Roberta Bonetto

Un giovane, Vitangelo Moscato sale su un ascensore per raggiungere un colloquio di lavoro e rimane bloccato. Questa la vicenda. Un piccolo quadrato di luce nel quale un danzatore resta imprigionato suo malgrado. Nessuno viene a liberarlo e lui non può raggiungere il colloquio. Vitangelo comincia a esser preso dall’ansia di perdere un’occasione per cui si è preparato con così tanta cura e con così tanto tempo. Ma la prigionia è il colloquio stesso, la verifica da parte dell’azienda, delle capacità di sopportazione del candidato. Da questa situazione si sviluppano divertenti dialoghi tra il danzatore e la voce che proviene da un lontano ufficio dove si sta valutando le reazioni del candidato, che man mano che procede la prigionia, comincia a rivalutare il suo percorso e le sue convinzioni. Tutto questo studiare, aggiornarsi, scrivere curricula, in fondo a cosa serve? Tutto questo prepararsi, essere pronto a sostenere qualsiasi cosa pur di ottenere un lavoro e una carriera, sono veramente necessari? Questo ripensare, rivedere le proprie posizioni, così come l’ambiente claustrofobico, la costrizione, lo stress che la condizione di recluso forzato comporta, sono evidenziati da una danza sincopata, nervosa, costruita a partire da gesti quotidiani facilmente riconoscibili, una danza che è divertente e ossessiva nello stesso tempo.

Trentesimo è andato in scena ieri sera 10 marzo 2016 presso le Lavanderie a Vapore nell’ambito di Permutazioni un progetto di residenze creative promosso da Zerogrammi e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, ed è un work in progress e come tale presenta alcuni difetti e molte potenzialità. Tra i primi, una drammaturgia a volte farraginosa, inconcludente, e il finale decisamente in tono minore che non risolve la vicenda né lascia trasparire interrogativi forti. Tra i punti di forza l’interpretazione del danzatore Gabriel Beddoes che con spigliata comicità napoletana un po’ alla Troisi supplisce alle manchevolezze di una drammaturgia difettosa, troppo accusatoria e con volontà di dire troppo, tanto da assoggettare la libertà del corpo danzante a una significazione imprigionante, e senza alla fine risolvere i nodi essenziali. Il finale inconcludente lascia l’amaro in bocca, ma forse, essendo un work in progress, sarà, ci auguriamo, migliorato nel futuro.

Foto: Fabio Melotti

TRUMPETS IN THE SKY di Collettivo T.I.T.S. (Norvegia)

L’inizio è da film horror. Musica elettronica ossessiva. Una figura allampanata vestita di bianco avanza a scatti inesorabile fino al proscenio nel semibuio della scena. Ondeggia. A destra e a sinistra, impercettibile come un lento metronomo che via via aumenta il ritmo, e scopre una seconda figura dietro alla prima, altrettanto inquietante. Questo Trumpets in the sky gioca insistentemente sull’inquietudine e sull’ansia. Senza pause, continuamente. Tanto che alla fine ci si immunizza, ci si stanca di questo persistere.
Il tema è l’esplorazione dell’Apocalisse, ma sembra un pretesto, per un gioco di visioni, di paesaggi e atmosfere. È un’Apocalisse che sa più di Ragnarok, la battaglia che si consuma nel crepuscolo e dove tutto viene ingoiato nella bocca vorace del lupo Fenrir. L’apocalisse di Giovanni è tutto uno sfavillare di luci abbaglianti, è il fuoco, è il sole bruciante, e l’abbagliante bianco delle vesti dell’Agnello, le stelle cadenti e il cielo che si accartoccia su se stesso. Invece siamo in una penombra da inverno boreale, dove si intravede l’azione, in una luce fredda e glaciale. Perfino nei materiali di scena c’è freddezza: tubi di alluminio, latte di conserva, biglie di vetro. Una continua tendenza al metallico anche nelle flebili luci: il led di una torcia, il neon balbettante, la tinta fredda dei fari al minimo di potenza.
Questo spettacolo del collettivo T.IT.S., giovane gruppo norvegese formato da H.Kornatova, Juli Apponen, Björn Hansson e Ann Sofie Godø, ospitato nella rassegna Permutazioni curata da Zerogrammi e Fondazione Piemonte dal Vivo, punta tutta sulla visione e sull’emozione. Paesaggi evocativi, come il freddo deserto di colonne di alluminio, o la città di barattoli invasa da legioni di biglie mentre una figura in angolo, come un sopravvissuto a una cataclisma, si nutre di pesche in conserva. Il problema di questo spettacolo è che non c’è altro. Le immagini che si specchiano sul pelo dell’acqua non nascondono un lago profondo, ma una pozzanghera creata da un’acquazzone estivo. Manca la profondità. E manca la capacità di cambiare ritmo. Tutto rimane fermo costantemente sul gradiente ansiogeno, spaventoso, come la quinta marcia in un viaggio in autostrada. Non c’è una minima variazione, un sussulto che per un attimo arieggi lo spazio asfittico della scena. Il risultato, ripeto, è che dopo mezz’ora si è stomacati e indifferenti.
Gli spazi sono ben congegnati rivelando quadri e paesaggi si sicuro impatto visivo. La luce è al limite del visibile e a lungo andare infastidisce questo dover scorgere a tutti i costi ciò che pare avvenire sulla scena. Nel complesso un lavoro con più difetti che pregi, nonostante l’ottima fattura dell’insieme, la precisione del gesto e della costruzione. Manca profondità, manca spessore e manca la variazione.