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FACCIAMOLA FINITA CON LA CRITICA TEATRALE

Questo scritto inizia con una confessione dolorosa e finisce con una scommessa. E viola fin dal principio la regola non scritta secondo cui è meglio in un articolo non parlare di sé. La questione però è sia personale sia generale e, secondo me, non si poteva affrontare che in questo modo. Portate pazienza e seguitemi.

Ho passato gli ultimi mesi a chiedermi incessantemente se non fosse il caso di finirla con la critica. Questo disagio, o necessità, si faceva giorno dopo giorno più urgente e molesto, pretendendo che smettessi di rimandare la sua risoluzione. E più differivo, più calava il desiderio di seguire festival e spettacoli. Per qualche tempo mi sono nascosto dietro le ricerche per il mio ultimo libro, cercando di convincermi che quella fosse la causa, che non avessi il tempo di scrivere altro, che ero completamente assorbito in un mondo affascinante, lontano e poco conosciuto, ma sapevo che erano misere scuse proprio perché trovavo più ammaliante il passato e non il presente.

La verità è che non avevo e non ho più fiducia nella critica in sé e nei modi in cui viene esercitata. Lasciamo perdere per un momento la spinosa questione dei conflitti di interesse perché sono purtroppo sistemici, anche se, bisogna dirlo, limitano, e di molto, la libertà e sono un vulnus all’autorevolezza della critica in sé. Bisogna però riconoscere che se festival e teatri non contribuissero alle spese della critica, attività dello spirito non più paragonabile a un vero lavoro e per lo più manifestazione di volontariato culturale, la questione sarebbe già risolta da molto tempo.

Una recensione, dobbiamo riconoscerlo, oggi è un atto futile, diretto per lo più al piccolo mondo antico dei teatranti e degli uffici stampa. Il pubblico non le legge o, se lo fa, non ne è minimamente influenzato, perché per la maggior parte escono post eventum, dopo che lo spettacolo di cui si parla si è già spostato in un altro territorio, e questo spesso non per la pigrizia del recensore, ma perché stanno scomparendo le teniture, a parte nei Teatri Nazionali e Tric, unici soggetti ad avere un budget che le permette. Inoltre il pubblico non legge in generale, lo dicono i dati sempre più allarmanti che vengono pubblicati e questo senza considerare il fenomeno di analfabetismo funzionale che tocca il trenta per cento degli adulti, percentuale che secondo l’OCSE, ci pone all’ultimo posto tra i paesi industrializzati.

La recensione è inutile non solo perché si rivolge alla ristretta popolazione di quella riserva indiana chiamata teatro, ma anche in quanto genere malato di aridità. Non vuole generare curiosità, moto d’animo bizzarro e ormai raro, né accendere il desiderio. Si accontenta di informare e spiegare, asetticamente, imparzialmente, senza trasporto. La recensione deve essere scientifica come la diagnosi di un medico.

La recensione poi nasconde un desiderio egoistico: mostrare ai propri lettori e alla concorrenza di essere sul pezzo, di svariare da Nord a Sud nel territorio nazionale, di essere quindi ricercati e autorevoli. Le testate ovviamente sono affette dalla stessa mania di presenzialismo. Ciò che conta sono i numeri e non la qualità di visione e il tempo dedicato allo studio e al dialogo con l’artista. Più che critici ci stiamo tutti trasformando in influencer senza però aver la capacità di influenzare massivamente, anche perché per quanto si voglia passar per inclusivi, di fatto si è altamente elitari, persino all’interno del proprio settore dove circoli e circolini si sentono investiti dalla divinità del ruolo di custodi del sapere. E non sto parlando solo di accademici e giornalisti, ma anche di referendari o non referendari, etc. Chi è fuori da queste categorie è anomalia da ignorare nella convinzione che un tesserino, un lavoro all’Università o l’appartenenza a una giuria siano un certificato di competenza.

Questo è il triste panorama entro cui si segue l’amato teatro. Inoltre si è sempre meno liberi di dire la propria opinione senza incorrere nelle ire di organizzatori, direttori e uffici stampa che si sono sobbarcati la spesa della tua venuta, per non parlare degli artisti risentiti per quello che hai scritto come fosse un’offesa personale e non un parere tecnico e personalissimo volto a essere utile.

E qui si arriva al secondo punto: la forma è anch’essa costrittiva come uno strumento di tortura medievale. Innanzitutto non si deve portar via a chi legge più di cinque o sei minuti. Frasi brevi, sintassi semplice. Si deve cominciare con il come, dove e quando senza tralasciare nessuno e riassumere la trama per includere anche quelli che a teatro vanno per la storiella, possibilmente con qualche riferimento dotto per far vedere di essere competenti ma senza esagerare per non turbare il lettore. Se la trama è mancante si descrivono scene e movimenti riferendoli a fenomeni sociali o artistici del presente, o a immagini pittoriche e/o letterarie. Infine si chiude con qualche commento riassuntivo che, senza giudicare del bene e del male, inquadri lo spettacolo nel suo presente e, per quanto possibile, ne spieghi l’intenzione. La parte del leone la fa la drammaturgia e il testo. Raramente si parla di tecnica dell’attore o di composizione registica o coreografica, giudicando queste questioni troppo specialistiche per il lettore medio, disinteressato, a quanto pare, a comprendere i meccanismi dell’arte di cui, si suppone, sia appassionato.

Un mantra ricorrente è: la critica non deve essere giudicante. Quindi per non sembrar di quelli che tranciano giudizi, si fanno giri di parole e acrobazie per dire senza dire. Ma tutto questo è una grande ipocrisia perché abbondano e crescono tutto l’anno premi e premietti, si esibiscano liste di preferenze e best off, come se questi non fossero giudizi di merito. Soprattutto però è grave il calare un velo di silenzio su quello che non si approva, che è scomodo da raggiungere o, peggio ancora, sconosciuto. Geografia e visibilità vanno a braccetto e qualche volta, talento, resta escluso e negletto.

Tutti questi lacci e laccioli che richiamano alla mente gli affatturamenti di Artaud, sono all’origine del mio disagio, sentimento in conflitto perenne con l’amore verso un’arte a cui ho dedicato più di trent’anni della mia vita. E questo scontro richiama altre emozioni disturbanti: rabbia e frustrazione. Non sorprende quindi che alla fine uno si chieda: ma chi me lo fa fare? E sono sicuro di non essere il solo a vivere questa lotta interiore tra passione e avvilente realtà.

Perciò non resta che decidere: smettere? Continuare a ripetersi: «Finita. È finita. Sta per finire. Sta forse per finire» differendo l’inevitabile come Clov in Finale di Partita? Oppure cercare di recuperare il piacere di andare a teatro e scrivere di e per il teatro?

Il punto è che non voglio rassegnarmi al sistema, a quello che Fisher chiama realismo capitalista, fenomeno capace di inaridire qualsiasi velleità di cambiamento, ma mancando il piacere e il desiderio scema. E non parlo di volgare soddisfazione, ma di ardore, di fiamma d’amore che muove alla conoscenza, alla curiosità, a voler porgersi domande le cui soluzione è altamente improbabile. «Amor mi mosse che mi fa parlare» così dice Beatrice a Virgilio, perché è «Amor che muove il sole e l’altre stelle». Artaud scriveva: «Se noi potessimo amare, amare subito, la scienza sarebbe inutile, ma noi abbiamo disimparato ad amare» e senza questo Amore che è desiderio dell’Alieno da sé, non c’è piacere, ma solo mestiere. Uso la parola Alieno inteso come sconosciuto, straniero, anomalo, come ciò è allo stesso tempo perturbante e affascinante, che attrae e respinge, quello a cui se tu fossi sano di mente non ti avvicineresti perché prudenza e senso comune ti direbbero che è sconveniente ed equivoco. E il desiderio che spinge a immaginare mondi diversi, a richiedere di cambiare pelle, di trasformarsi, mutare, evolversi. È il desiderio di volare che determina la necessità delle ali.

E per provare piacere devo, in primis, recuperare la libertà di trovare una forma, di sperimentare un modo diverso di parlare di danza e di teatro, opere d’arte in movimento. E per farlo desidero essere libero dal dover spiegare alcunché. Philippe Daverio diceva che non c’è niente al mondo di più facile da capire dell’arte: basta guardare. Ma aggiungeva che bisognava: «avere il coraggio di dire perché e di indagare». Questa ricerca deve potersi spingere in ogni direzione, come nel gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, dove un’equazione richiamava un frase musicale e questa un poesia da cui si sviluppava un nesso alla vita biologica e così via.

Lessing scriveva: «Guardato isolatamente, un pensiero può essere molto insignificante o davvero avventato; ma può essere reso importante da un pensiero che lo segue e, insieme ad altri pensieri che possono sembrare egualmente assurdi, può rivelarsi un utile anello di congiunzione». È nella catena di immagini che evocano altre immagini, ghirlanda per ognuno diversa, che si ricompone ciò che è frantumato riunendo, come in un puzzle, l’infranto specchio di Dioniso ben sapendo che ogni soluzione è provvisoria come un mandala di sabbia. Vorrei che a un testo critico venisse sottratta ogni illusione di risultato per restituire, qualora se ne fosse capaci, una visione, per quanto precaria, di teatro-mondo.

Per questo desidero lasciarmi trasportare dal flusso delle immagini non più opposta al logos, stabilirmi in quella regione dove, come dice Lessing: «la ragione ritira la sua guardia dalla porta e le idee irrompono alla rinfusa». L’opacità dell’opera d’arte non deve entrare in conflitto con la supposta chiarezza dello scritto. L’arte, soprattutto quella dei corpi, è ambigua ed equivoca proprio perché moltiplica i possibili significanti e così dovrebbe restituirla una recensione. E questo non vuol dire votarsi all’inintelligibile, ma saper suscitare con le proprie emozioni quelle altrui, significa saper evocare immagine da immagine senza pretendere di riferire, educare o, peggio ancora, spiegare qualcosa a qualcuno.

La critica non ha niente a che vedere con l’informazione. È l’opposto complementare dell’arte. Non la rispecchia, non la descrive, non la risolve, la problematizza, la rende un oggetto su cui riflettere e nel farlo stimola a conoscerla, a frequentarla, o osservarla traendone piacere o disgusto, attrazione o repulsione e questo senza descrivere o illustrare il semplice atto d’esecuzione, bensì suscitando le possibili implicazioni che quello strano rito ci propone sempre nuovo e sempre uguale da migliaia di anni.

Finirla con la critica diventa così non un gesto definitivo e personale, ma un atto pubblico. Provare a cambiare i modi attraverso cui raccontare un’opera d’arte di teatro, con la certezza quasi matematica di fallire nell’intento, ma tentare infischiandosene delle regole e delle leggi non scritte. Visto che la critica non è un lavoro, ma una passione che si esercita nella volontà, che sia per lo meno divertente, gioiosa, libera di cercare strade impervie e stimolanti. Per combattere l’avvilimento non resta che ritrovare il desiderio spasmodicamente, senza compromessi, senza curarsi delle conseguenze, dei pareri, dei giudizi, dei consigli perché tanto, come cantavano i CCCP: “verranno al contrattacco, ma intanto adesso…”